di Nica FIORI
Uno dei dipinti più affascinanti di William Turner è Il ramo d’oro (The Golden Bough, 1834, Tate Britain, Londra), la cui scena mitica appare soffusa da un’aurea, vibrante luminosità.
Nel suo paesaggio onirico, che dovrebbe rappresentare il lago d’Averno, si riconosce in realtà il piccolo lago vulcanico di Nemi, più volte raffigurato dall’artista. Nel bosco di lecci che incombe sul cratere aveva luogo un singolare arcaico rituale, sopravvissuto in epoca imperiale, che è stato oggetto di interesse dell’antropologo James Frazer nel suo saggio Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione (pubblicato per la prima volta nel 1890 e poi ripetutamente ampliato fino alla stesura definitiva del 1915).
La suggestione di questo lago dei Castelli Romani, che ha ispirato innumerevoli artisti e letterati (tra cui Byron, Goethe, Stendhal e D’Annunzio), nasce indubbiamente dalle bellezze naturalistiche, ma anche dal mistero che tuttora aleggia intorno al santuario di Diana Nemorense, oggetto di scavi già a partire dalla seconda metà del Seicento.
La dea imperò a lungo sulle rive del lago, tanto che il chiarore che lei dal cielo, nel suo aspetto lunare, diffondeva sulle acque, o forse il riflesso del suo tempio, spinsero gli antichi a chiamarlo Speculum Dianae (Specchio di Diana). Identificata a partire dal VI secolo a.C. con la greca Artemide (figlia di Zeus e Latona e sorella di Apollo), l’italica Diana ebbe a Roma il suo primo sacrario sull’Aventino, al tempo di Servio Tullio, ma ben poco si sa del culto che vi si praticava. I suoi santuari più importanti erano quello di Diana Tifatina a Capua, in Campania, e quello del lago di Nemi, il cui territorio apparteneva all’antica Aricia. Nella prima località si narrava di una cerva sacra alla dea, una sorta di sua ancella e “genius loci”. Conosciamo qualcosa di più dei riti di Ariccia, che rispecchiavano per il loro carattere cruento quelli dell’Artemide orientale.
Questa divinità dei boschi era crudele per la sua natura selvaggia di dea della caccia, abituata a uccidere con l’arco la selvaggina (e infatti è raffigurata con arco e faretra, e spesso con un cane o un cerbiatto al suo fianco). Ma era allo stesso tempo protettrice degli animali e della natura.
Questa sua ambivalenza si esprime nel fatto che a Roma divenne protettrice degli schiavi fuggiaschi, e quindi cacciati. Inoltre, pur essendo votata alla castità, era la signora della fertilità, come la sua equivalente greca che a Efeso era raffigurata con una triplice fila di mammelle. Come personificazione della gialla luna di agosto (nell’iconografia ha una mezzaluna nei capelli), la dea colmava le fattorie di frutti e concedeva prole alle famiglie. Il santuario del lago nemorense era meta dei pellegrinaggi dei romani, principalmente alle Idi di agosto (13 agosto), quando i cacciatori vi portavano i loro cani inghirlandati, e le donne vi si recavano di notte in processione al lume delle fiaccole. Le donne chiedevano la protezione per ottenere un buon parto, mentre gli animali venivano purificati dalla colpa di aver ucciso la selvaggina, cioè le creature della dea.
Catone nelle Origines (ca. 170 a.C.) riferisce che Egerio Bebio, dittatore latino nato a Tuscolo, dedicò una radura sacra a Diana nella foresta di Aricia. È possibile che questa dedica sia avvenuta tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C., quando Roma si è liberata dei re e i Latini cominciano a capire che l’espansione di Roma va in qualche modo arginata. E questi popoli (Tuscolano, Aricino, Lanuvino, Laurentino, Corano, Tiburtino, Pometino e Rutulo) di comune accordo si coalizzano e hanno il loro santuario ad Aricia.
Questa potrebbe essere effettivamente la data storica della fondazione del santuario, ma letterati di epoca successiva ci parlano di leggendarie origini legate a personaggi della mitologia greca (resi celebri dalle tragedie di Euripide). Un mito riportato da Servio (grammatico e commentatore dell’Eneide, vissuto nel IV-V secolo d.C.), attribuisce l’introduzione del culto di Artemide ad Ariccia a Oreste, il figlio di Agamennone. Tutto parte dall’uccisione di Ifigenia, la figlia di Agamennone sacrificata dal padre per far sì che la spedizione contro Troia andasse avanti. Ifigenia sarebbe stata resuscitata dagli dei e portata nella terra dei Tauri (l’attuale Crimea), dove divenne sacerdotessa della dea Artemide, che in quel regno era particolarmente sanguinaria, tanto che le venivano sacrificati tutti i marinai stranieri che arrivavano sul luogo. In seguito a un naufragio giunse lì anche Oreste, che vagava impazzito dopo aver ucciso la madre Clitennestra e il suo amante Egisto (colpevoli di aver ucciso Agamennone al rientro dalla guerra di Troia). Oreste doveva essere sacrificato dal popolo dei Tauri, ma il riconoscimento tra i due fratelli li spinse a fuggire insieme, portando una statua della dea nascosta in una fascina di legno.
Secondo una versione del mito, la statua sarebbe arrivata ad Ariccia (secondo altri a Sparta o a Reggio Calabria). Appare significativo il fatto che in una delle residenze rurali del territorio di Ariccia sia stato ritrovato un bassorilievo (ora nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen) con la raffigurazione di Oreste che uccide Egisto, scolpito con uno stile che sembra rifarsi al VI secolo a.C., mentre è del I secolo a.C. o degli inizi del I d.C.; evidentemente la tradizione di Oreste in quei luoghi era assolutamente viva.
Ecco le parole di Servio (Ad Aen. VI, 136):
“Dopo l’uccisione del re Toante, Oreste fuggì con la sorella Ifigenia nella regione della Taurica, come abbiamo detto sopra, e collocò l’immagine di Diana, da lì prelevata, non lontano da Aricia. In questo tempio, dopo che il rito dei sacrifici era stato modificato, c’era un certo albero, il cui ramo non poteva essere spezzato. Ma agli schiavi fuggitivi, se qualcuno fosse riuscito a staccarne il ramo, era dato il diritto di combattere un duello col sacerdote fuggitivo del tempio: infatti in quel luogo il sacerdote era uno schiavo fuggito a immagine dell’antica fuga. Ma il diritto di combattere era dato come per riparare il precedente sacrificio”.
Il boschetto sacro (“nemus”, da cui deriva il toponimo Nemi) sulla riva del lago era, in effetti, deputato a un feroce rituale legato a un ramo sacro che nessuno doveva staccare dal suo albero, intorno al quale si aggirava un sacerdote con la spada sguainata, come se temesse a ogni istante di essere assalito da un nemico. La regola era infatti che un altro uomo poteva prendere il suo posto: bastava che questo, dopo essersi impossessato del ramo, lo uccidesse. Si trattava sempre di uno schiavo fuggiasco, che poteva accedere al suo ruolo di sacerdote solo dopo questa prova di forza, e rimaneva in carica fino a che non veniva a sua volta ucciso da un altro.
Questo rito protoitalico è messo in relazione da Servio con una leggenda legata alla venuta di Enea in Italia. Virgilio nel VI canto dell’Eneide racconta che la Sibilla Cumana fa sapere a Enea, che deve recarsi agli Inferi, che è facile scendere all’Averno, ma non uscirne. Lo può fare solo chi prende il ramo d’oro nascosto in un albero della vicina selva:
“… Nascosto entro un albero / ombroso c’è un ramo, d’oro le foglie e la verga flessibile, / sacro all’inferna Giunone: e tutto il bosco lo copre, / entro le oscure convalli protetto lo tengono l’ombre. / Ma non prima è concesso scendere sotto la terra / che si sia colto dell’albero l’auricomo ramo. / Questo dono a lei sacro Proserpina bella fissò / che le si porti: e rotto il primo, ne spunta un secondo, / d’oro, d’ugual metallo frondeggia un nuovo virgulto. / Tu cerca nel folto con gli occhi, e ritualmente, trovatolo, / strappalo via, con la mano: da solo verrà, sarà facile / se i fati ti chiamano; se no, né con forza nessuna, / né con il duro ferro piegarlo o stroncarlo potrai” (Eneide, VI, 136-148).
Servio, commentando l’Eneide, riferisce che l’albero con il presunto ramo d’oro si trova nel bosco di Aricia, presso il lago di Nemi, dove il giovane Oreste, dopo essere arrivato lì fuggitivo, aveva cambiato il rito locale introducendo la prassi per cui uno schiavo fuggitivo, se staccava quel particolare ramo, poteva uccidere in duello il sacerdote del luogo e prendere il suo posto.
Il sacerdote del bosco veniva chiamato Rex Nemorensis, ma il suo titolo di re non gli dava alcun privilegio, visto che doveva perennemente stare in guardia. Se il sacerdote non veniva ucciso, lo spirito dell’albero invecchiava con lui, e con la vecchiaia e la debolezza determinava il deperimento delle erbe e dei prodotti dei campi. Era quindi un regno che necessariamente voleva una fine veloce e brutale, tanto che Caligola, secondo quanto riferisce Svetonio (Caligula, XXXV), essendo preoccupato dell’eccessiva durata del sacerdozio di un Rex Nemorensis, mandò un sicario (ovviamente uno schiavo molto forte) per ucciderlo. La cosa può essere plausibile perché l’imperatore aveva sulle sponde del lago la sua villa, nonché le celebri navi, i cui resti sono conservati nel Museo delle Navi a Nemi (cfr. https://www.aboutartonline.com/il-museo-delle-navi-romane-a-nemi-le-ricche-vestigia-delle-navi-romane-deta-imperiale/).
Un altro nome del re-sacerdote era Virbio, ovvero “l’uomo nato due volte”, da vir (uomo) e bis (due volte), nome che si riallaccia a un altro mito greco, quello di Ippolito.
Questo personaggio, figlio di Teseo (il vincitore del Minotauro), era un giovane casto interessato solo alla caccia. La matrigna Fedra si innamorò perdutamente di lui e, non essendo ricambiata, si vendicò accusando il giovane di averla insidiata. Teseo irato maledisse il figlio e invocò Poseidone perché lo punisse. Mentre il giovane guidava il suo carro sulla spiaggia, il dio fece uscire dal mare un mostro che spaventò i cavalli che, imbizzarriti, fecero cadere e uccisero il giovane.
Poiché Ippolito era sempre stato un fervente adoratore di Artemide, la dea decise di farlo rivivere chiamando in suo aiuto il dio della medicina Asclepio, che lo risuscitò. E da allora Virbio, secondo una versione del mito, fu portato nel bosco sacro di Ariccia, dove il suo nome si tramandò ai sacerdoti. A questo proposito è interessante notare che nel calendario cristiano il 13 agosto (giorno corrispondente alle Idi) si festeggia Sant’Ippolito, anche lui ucciso dai suoi cavalli, e forse non è un caso il riferimento nel nome al greco “ippos”, che vuol dire cavallo.
Anche Ovidio parla del santuario, in un passo del III libro dei Fasti rivolgendosi a Egeria, la ninfa consigliera e sposa di Numa Pompilio, che dopo la morte dell’amato avrebbe lasciato Roma e trovato rifugio nel bosco sacro di Aricia dove venne trasformata da Diana in una sorgente.
Il poeta descrive il luogo e il legame con Ippolito, del quale viene richiamata la morte, cosa che spiega il tabù dei cavalli nel bosco di Ariccia. Quindi accenna alle donne, “esaudite nei voti” da Diana, che recano dall’Urbe lucenti fiaccole, e prosegue accennando al sacerdote re del luogo:
“Ne ottiene il sacerdozio chi è forte di mano e veloce di piede, / e subito dopo perisce a sua volta secondo l’esempio che ha dato” (Fasti, III, 271-272).
Tutti questi miti vengono messi in relazione con il santuario nemorense, probabilmente perché questo importante complesso aveva sì come divinità principale Diana, ma vi erano venerati anche Oreste, Ippolito-Virbio ed Egeria (si parla di Templum Dianae, Aedes Virbii, Aedes Orestis e del Lucus Egeriae). Si potrebbe pensare che questi miti siano stati rielaborati in epoca più tarda rispetto alla fase iniziale del VI secolo a.C., proprio per spiegare i riti che vi si svolgevano. Un’altra divinità che potrebbe essere ulteriormente coinvolta in un particolare sincretismo è Vesta, la dea del fuoco sacro, poiché il suo nome è associato a quello di Diana Nemorense in un’iscrizione del tempo di Traiano, conservata nei Musei Capitolini.
Riguardo all’immagine di culto, potrebbe essere quella raffigurata in un denario del 43 a.C., coniato da P. Accoleius Lariscolus, che mostra sul recto la testa della dea e sul verso la stessa dea declinata nelle sue tre funzioni.
Probabilmente Diana era venerata nel santuario nel triplice aspetto di dea della caccia, della luna e nel suo aspetto notturno, corrispondente alla dea Ecate. Quest’ultima, venerata nei crocicchi, era una dea misteriosa, considerata dai Greci l’inventrice della magia, sì da divenire la patrona degli incantesimi e dei sortilegi: si giunse perfino a farne la madre di Medea e di Circe, le streghe più famose dell’antichità. Ruolo magico che nel Medioevo era attribuito proprio a Diana, dalla quale deriverebbe il termine ianare, dato alle streghe a Benevento, e janas in Sardegna (in questo caso tradotto in fate).
Quanto al ramo sacro custodito dal Rex Nemorensis, James Frazer ipotizza che si trattasse di un ramo di vischio, una pianta parassita considerata sacra quando è unita alla quercia.
I resti del santuario distano ora qualche centinaio di metri dalla riva. Si trattava di un enorme complesso che si estendeva per circa 45.000 m2; era strutturato in tre terrazze digradanti verso il lago, delimitate da nicchioni semicircolari e sostruzioni triangolari. Il sito ha restituito tracce di frequentazione sin dall’epoca del Bronzo Finale (XII secolo a.C.) nella terrazza mediana. Nel periodo arcaico era costituito da una struttura di culto, che è stata rinvenuta al di sotto del tempio, scavato tra il 2010 e il 2019. Il santuario, in questo periodo, come ricorda Catone nelle Origines, era la sede federale delle città latine ed era organizzato all’interno del nemus, il bosco sacro dedicato alla dea.
Il sito ha conosciuto più fasi costruttive: una datata alla fine del IV secolo a.C., una alla seconda metà del II secolo a.C. e una nel I secolo a.C. Dalla fine del II secolo a.C. è iniziata la sistemazione scenografica, similmente ad altri santuari laziali coevi, come quello di Giunone Sospita a Lanuvio o della Fortuna Primigenia a Palestrina: vengono monumentalizzate le terrazze con portici e nicchie, si costruiscono ambienti di servizio per i sacerdoti e i fedeli, oggi non visibili in quanto reinterrati. Al I secolo a.C. risalgono le “celle donarie” addossate al muro di fondo della terrazza inferiore, le terme e un piccolo teatro. Dopo una fase di grande fulgore legata alla figura di Caligola, che trasformò tutto il lago e il santuario, dotandolo di un maestoso ninfeo nella terrazza superiore, il santuario conosce il completo declino nel IV secolo d.C., quando in seguito all’avvento del cristianesimo viene abbandonato e spogliato delle sue decorazioni.
Dal XVII secolo in poi iniziarono i lavori di scavo che portarono alla luce numerosi reperti, ma gran parte del complesso è ancora nascosto. Molti reperti, soprattutto statue di splendida fattura, si trovano sparsi nei musei d’Europa. Altri pezzi si trovano nel museo delle Navi Romane a Nemi e a Roma nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia (sede di villa Poniatowski) e nel Museo Nazionale Romano (Terme di Diocleziano).
Gli scavi del santuario, dopo quelli seicenteschi dei Frangipane, signori di Nemi, e ottocenteschi a opera di Lord Savile Lumley, sono stati ripresi negli anni ’20 del Novecento dallo Stato, quando furono scavati e poi reinterrati il teatro e gli edifici limitrofi, e soprattutto nel 1989 dalla Soprintendenza dei beni archeologici del Lazio, concentrandosi sulla parte più a sud-est della terrazza inferiore, dove è stato messo in luce lo splendido portico colonnato. L’Università di Perugia ha cominciato a collaborare con la Soprintendenza nel 2003 scavando le terrazze superiori. Dal 2010 si è passati a lavorare sul tempio, su un terreno acquistato negli anni 2004-2005 dall’Amministrazione comunale, cosa che ha reso possibile la realizzazione di scavi e di interventi di restauro di alcune parti particolarmente delicate dell’edificio, oltre che permettere di comprendere gli interventi frettolosi e poco accurati realizzati alla fine del XIX secolo da Lord Savile Lumley. Sono state individuate tre fasi costruttive del tempio databili tra la fine del IV e la metà del I secolo a.C., precedute da una fase di almeno V secolo a.C. di cui resta solo una piccola struttura all’interno del podio. Nel 2014 è iniziata la collaborazione della Università Ludwig-Maximilian di Monaco di Baviera al progetto, con circa 100 studenti all’anno provenienti da vari paesi d’Europa (principalmente Italia, Germania, Spagna e Francia).
Negli ultimi anni sono stati restaurati il podio del tempio e la modanatura a est, che a causa del materiale (il peperino) versava in condizioni di degrado, e anche la struttura arcaica situata all’interno del tempio. Entrambi gli interventi sono stati finanziati dal Comune di Nemi.
Nell’ottobre del 2019 i resti delle murature templari sono stati ricoperti per preservarne la fragilità e permettere di lavorare per fasi progressive alla loro tutela, che è molto complessa vista la compresenza di fasi e di tecniche edilizie diverse.
È recente la notizia che il santuario sarà oggetto di un grande restauro grazie ai fondi PNRR stanziati per il Giubileo 2025 (progetto Caput Mundi). I lavori prevedono il restauro e la messa in sicurezza delle emergenze archeologiche e la sistemazione dell’area, anche con camminamenti da realizzare con passerelle in legno per rendere maggiormente fruibile il percorso.
Nica FIORI Roma 20 Ottobre 2024