di Maria BUSACCA
Numerose opere d’arte appartenute allo scrittore catanese Giovanni Verga – oltre alle stampe che abbiamo precedentemente in altra sede illustrato1 – abbelliscono le stanze della Casa Museo un tempo quotidianamente abitate.
Fra queste si presenta qui una prima selezione comprendente un ritratto di Verga di Amedeo Bianchi e un dipinto di Calcedonio Reina, omaggiati allo scrittore dagli stessi autori, due sopraporte di scuola e i ritratti degli avi, interessanti più per il loro valore di testimonianza che per quello strettamente artistico.
I ritratti di Verga sono pochi perché da uomo schivo e riservato egli era restio a posare per un tempo prolungato; se ne conoscono uno a penna del maestro Roberto Rimini, l’altro ad acquarello di Antonino Gandolfo, un olio incompiuto di Alessandro Abate ed il nostro ad olio esposto in alto nella Sua biblioteca (fig. 1), che è stato scelto da Poste italiane nel 2022, in occasione del centenario della morte dello scrittore, per essere riprodotto nel francobollo a lui dedicato. Amedeo Bianchi2, pittore introspettivo dal tratto morbido ma deciso, lo esegue nel 1913, secondo quanto riferito da Saverio Fiducia in un articolo datato al 1931 :
“[…] Verga non aveva mai posato per ritratti, salvo che davanti all’obiettivo fotografico… E’ tale parve anche al Bianchi, talchè quando meravigliato il pittore gliene chiese la ragione, Verga rispose: « Già… ma non lo so neppur io »[…]
Vincendo il suo riserbo, Verga accettò di posare per lui un giorno del 1913″3.
Allievo di Giacomo Grosso, di Celestino Gilardi e di Andrea Tavernier all’Accademia Albertina di Torino, Bianchi4 negli anni 1922-23 insegnò a Catania alla Regia Scuola Complementare annessa alla scuola normale femminile, stabilendovi contatti con Federico De Roberto che probabilmente si fece tramite per il suo inserimento nell’ambiente catanese. Nella stessa scuola insegnava la poetessa Silvia Reitano, amica di Verga e autrice di raccolte omaggiate con dedica allo scrittore, la cui sorella Bianchi prese in moglie. Inserito in una pesante cornice nera non riporta né data né firma, ritrae un uomo canuto dallo sguardo severo, rigoroso anche l’abbigliamento, in un sapiente gioco di luci e ombre che fa emergere financo la fossetta nel mento e lo sguardo fiero e penetrante; sebbene l’opera venisse rifiutata dalla giuria della XII Biennale di Venezia del 1920, Bianchi ripropose lo stesso impianto per il Ritratto del musicista Bianca, oggi nelle collezioni del Museo Civico di Castello Ursino, dimostrando di rimanere fedele al suo stile accademico ma efficace.
Diversa la storia del dipinto Nysoumba (fig. 2), dono del pittore poeta e scrittore Calcedonio Reina 5 all’amico romanziere, plasmato di una vaghezza che ne ha resa ardua l’interpretazione:
firmato e datato 1897, Reina lo presentò lo stesso anno alla Triennale di Brera, poi all’Esposizione Nazionale di Torino nel 1899; rifiutato a Napoli in vista della generale di Parigi del 1900, partecipò alla Il Esposizione Agricola Siciliana a Catania del 1907 col titolo “Vendetta di rettile”. Di Reina dà un ritratto in versi l’amico poeta Mario Rapisardi nell’aprile del 1907:
‘Ntra lu burgu e la marina C’è un pitturi arrinumatu, Vecchiu, pricchiu, strascinatu, Lenzi lenzi la fracchina, ‘Nzaimatu, scarcagnatu… Cu’ po esseri ? ‘Nduvina !6
Personaggio tanto bizzarro quanto interessante e profondo, Reina viveva in solitudine in un ammezzato con poveri arredi:
” … come uno covile con arazzi di muffa, tappeti di polvere, portiere e cortine di ragnateli … ne tele, colori, pennelli, stracci e ciabatte gittati e sparsi per ogni parte, che parea uno naufragio”.
Distaccato dalle cose materiali, nutriva interesse per la sfera spirituale, vagheggiando mondi d’oriente in quella sinestesia che comprendeva ogni sua produzione artistica. In una buia caverna si intravede il pennone di una nave al quale sono avvinti scuri serpenti; uno si protende verso il seno scoperto di una donna bionda il cui cadavere sensuale fluttua fra le onde spandendo il suo chiarore tutt’intorno.
Il pittore ricordò il momento creativo, riferendo di questa immagine emersa dal suo subconscio poi trasferita sulla tela; simili suggestioni tra metà e fine ottocento corrono in Europa, simbolismi che legano la figura femminile alla Morte e all’Eros, come le varie versioni delle annegate, prima fra tutte “La morte di Ofelia” di Eugène Delacroix del 1838 ca., e di seguito “La jeune martyre” del 1855 di Paul Delaroche (fig. 3), sicuro riferimento per il nostro pittore, nonché una “Ofelia” in marmo scolpita nel 1880 da Sarah Bernard, più conosciuta come attrice ma ottima scultrice.
Il simbolismo di Reina, anche a detta dell’amico De Roberto, non fu legato strettamente ad una corrente, e così nel ricorso a figure archetipiche è stata riscontrata una fonte nelle letture orientaliste di E. Schurè; lo scuro serpente che si protende sarebbe la personificazione di “Nysoumba”, figlia di Kalayeni dominatore di serpenti. Nel dipinto sta per mettere in atto la sua vendetta nei confronti della donna dalla pelle bianca, in un parallelismo della guerra etnica fra i melanesiani e gli indo ariani, trasposta nella lotta fra civiltà orientale e occidentale7. Reina ci consegna qui un finale capovolto dove è l’istinto a trionfare sulla ragione con l’oscurità che incombe sul biancore del corpo galleggiante; la nave affondata dalla tempesta del subconscio è popolata dei serpenti pronti ad instillare il fluido pensiero e il desiderio nel petto candido della fanciulla per ridestarla dal sonno della morte dei sensi. Il naufragio come occasione di rinascita. In linea con altre sue opere pittoriche, come “La cucitrice eterna“, o letterarie come quelle a Casa Verga “Chiaroscuri”, “Giorni passati”, Reina rende
“gli evanescenti fantasmi di un mondo creato da lui, e nel quale egli vive in un continuo dormiveglia, in una beata incoscienza dello spazio e del tempo” (Rapisardi).
Di non accertata mano e provenienza sono le due sopraporte realizzate ad olio allocate ai lati del camino nel vano che Verga unificò con la sua stanza da letto; nei salotti signorili dal periodo barocco fino al XIX secolo le sopraporte dipinte o a rilievo con scene di genere concludevano il riquadro superiore delle porte di passaggio, spesso quelle dei camerini per i cambi d’abito. Nella prima in esame è raffigurato il soggetto biblico Rebecca ed Eliezier al pozzo (fig. 4), narrato in Genesi 22, 23 e molto diffuso a partire dal Seicento8. Sebbene la Bibbia ambienti l’episodio nel deserto sul far della sera, qui l’atmosfera è diurna, con due pioppi verdeggianti che fanno da quinta scenica ed il brano di paesaggio sulla destra che lascia indovinare la sagoma di un monte (l’Etna?). Si è attribuito il dipinto di fine Sette inizi Ottocento, all’ambito di Matteo Desiderato9, pittore di cui si hanno scarne notizie, che volgendosi ai toni e ai valori formali seicenteschi con predilezione per il disegno nitido ed elegante, dal gusto tardobarocco approdò al neoclassico.
Nel nostro dipinto, molto più rigido nell’esecuzione, si rintraccerebbe nella servetta con turbante che si affaccia al pozzo una figura che simile compare nella “Salomè” del 1777 dello stesso autore (fig. 5): stesso colore del turbante e stessa la leggera inclinazione. Tuttavia il modello compositivo, speculare e più articolato, è stato qui individuato nel dipinto omonimo del 1696, restaurato nel 2014, capolavoro del valente pittore marchigiano Carlo Maratti o Maratta10 formatosi prestissimo a Roma alla scuola di Andrea Sacchi, si orientò verso una recuperata semplicità, di cui è testimonianza proprio il “Rebecca ed Eliezier al pozzo” (fig. 6) della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Corsini a Roma, già del Cardinale Neri Maria Corsini, suo estimatore.
La scena è la stessa, ma ribaltata, sullo sfondo un borgo collinare; più aderente al testo biblico, i cammelli vengono abbeverati sulla destra mentre Rebecca, dalle ricche e mosse vesti, poggiata l’anfora ai piedi, concentra la sua attenzione sul dono offerto da Eliezier, e giocherella imbarazzata con un filo ritorto. Per il resto tutto è stato riproposto in chiave minore dal nostro ignoto autore, gli alberi da quinta scenica e soprattutto il gruppo delle due serve, quella che regge l’anfora sul capo e l’altra che si affaccia sull’orlo del pozzo. Molti i registri nell’opera, che coltiva la memoria di Correggio, di Raffaello, di Annibale Carracci, riaggiornandola in forme nuove, non così la nostra versione più modesta ma che assimila la lezione romana e perciò potrebbe provenire da altra bottega tramite la circolazione di un’incisione.
Fa da pendant un dipinto dal soggetto erotico sentimentale, riferibile alla prima metà del XIX secolo: la scena ritrae una giovane coppia in abiti neoclassici, lui ammantato di un drappo rosso, ai piedi di un basamento scolpito su cui poggiano un vaso con una teoria di figure danzanti e un busto femminile (fig. 7). L’ambiente è bucolico, in lontananza si scorgono due figurine maschili che indicano un paesaggio collinare dominato da una torre. In basso sulla destra un masso squadrato, forse il plinto di un tempio, reca inciso un cerchio simbolo di unione perpetua. La fanciulla mantiene un atteggiamento pudico e restio all’avvicinarsi del giovane che le si protende cingendole la spalla.
Precedentemente interpretata come “Viaggio a Citera“, isola che diede i natali a Venere, meta della coppia per unirsi in matrimonio, è più opportuno leggervi un episodio de “Gli amori pastorali di Dafni e Cloe” o più semplicemente Dafni e Cloe, unica opera nota del romanziere Longo Sofista scritta probabilmente nel III secolo d.C., che sotto le parvenze di un racconto agreste cela la costruzione di un raffinato letterato, amatissimo dai poeti arcadici. La scena rappresentata concorda con altre versioni del medesimo soggetto, presenti nella pittura a partire dal XVIII secolo, ma più frequenti in ambito neoclassico; la bisaccia è ai piedi delle figure, gli armenti tutt’intorno e l’ambientazione boschiva, il rosso mantello che individua Dafni anche negli omonimi dipinti, ma di tutt’altro respiro rispetto al nostro alquanto incerto nell’esecuzione.
Se ne offrono due rappresentazioni in pittura, una di François Pascal Simon Gérard11, apprezzato nel periodo napoleonico, pittore ufficiale di Luigi XVIII durante la Restaurazione, fu soprattutto raffinato ritrattista, l’altra di Dominique Papety12 affascinato dalla pittura di Ingres tanto da subirne l’influenza (fig. 8). Non sappiamo quanto il nostro esecutore avesse contezza del panorama artistico nazionale ed internazionale, tuttavia la scelta del soggetto mitologico a fianco dell’altro biblico individuano la destinazione ad una fanciulla prossima alle nozze, della quale si indicano e forse si suggeriscono a futuro monito le virtù propedeutiche alla buona riuscita del matrimonio: la pudicizia di Cloe e l’ospitalità di Rebecca.
Passiamo ora in rassegna i ritratti degli antenati delle famiglie Verga-Catalano che adornano le pareti delle altre stanze della Casa Museo, il cui rappresentante più antico occupa la parete di fondo del salottino blu; a prima vista appare niente più che un ritratto ufficiale di discreta qualità (fig. 9). L’uomo è stante, in abbigliamento settecentesco alla francese, con marsina scura e accenno di pettacci, una camicia bianca con cravatta e polsini ampi e merlettati13, lo spadino al fianco. Non indossa parrucca, all’apparenza sui trent’anni, è ritratto in uno studiolo pieno di libri rilegati, un piccolo scrittoio con penna, calamaio e asciugatoio. A cercare fra gli avi del Verga nella mastra nobile di Vizzini compaiono un Mario Strazzuso o un Gregorio Verga, entrambi nel 1731 concorrenti agli uffici nobili di Vizzini; sono registrati altresì i Verga–Distefano di Fontanabianca ramo che si estinse nella famiglia Verga di Vizzini nel 1771.
Tuttavia lo stemma nobiliare (fig.10) raffigurato alle sue spalle non corrisponde a nessun’arma delle famiglie che pure fanno parte della genealogia del Verga14; si è identificato ora con un Carmelo Verga Di Stefano, ora con un non meglio identificato Strazzuso il personaggio ritratto riconoscendo forse nell’uccello uno struzzo e nella fontana la casata dei Fontanabianca15. All’anulare della mano sinistra, ben in vista, un prezioso anello con una pietra scura, forse un onice nero, incastonata fra brillanti; la pietra è a base quadrata con lavorazione a forma piramidale, la punta messa in evidenza da un tocco di bianco. La pietra cubica a punta nel linguaggio iniziatico indica la via di evoluzione verso la realizzazione, l’Onice nero assorbe l’energia negativa per trasformarla in positiva.
La mano è atteggiata al tre, numero dalla vasta simbologia, primo termine di ogni atto creativo – “Tre è il grande mistero, viene dal Grande Uno”, tre le fasi verso il compimento dell’Opera, Nigredo, Albedo e Rubedo -; potrebbe inoltre rimandare all’ordine martinista che nel settecento era molto diffuso, presso il quale probabilmente il nostro aveva progredito nell’evoluzione iniziatica ricorrendo alle capacità monetarie. Potremmo interpretare il nostro soggetto come un iniziato e riconoscere nello stemma la simbologia delle fasi della ricerca alchemica; il braccio armato sotto la luce delle tre stelle della conoscenza tiene in pugno le tre penne del pavone; simbolo della bellezza spirituale che si cela ai più, il pavone indica che si procede nella giusta direzione verso il compimento dell’Opera.
Qui è raffigurato sotto il simbolo dei Rosacroce: i suoi figli si abbeverano alla fontana del suo sangue (il liquido raffigurato è scuro), mentre il vascello, simbolo della ricerca, procede nel buio seguendo la direzione indicata dalla stella a otto punte, è l’immagine della potenza acquisita che permette di agire, di trasformarsi e controllare il proprio destino. I libri sullo sfondo indicano lo studio al quale l’iniziato deve dedicare il suo tempo di formazione, forse tra essi il Mutus liber, pubblicato nel 1677 a La Rochelle per i tipi di Pierre Savourette16. Molto più che un semplice ritratto ufficiale quindi, un invito a saper leggere fra le righe.
Quando il 19 luglio 1812 il Parlamento siciliano riunito a Palermo in seduta straordinaria promulgò la costituzione17, Giovanni Verga di Stefano (fig. 11), nonno paterno di Giovanni Verga, vi partecipò da deputato di Vizzini. Il suo ritratto severo lo immortala di tre quarti, lo sguardo dritto allo spettatore, i capelli corti già alla moda di primo Ottocento con grandi basette: l’abbigliamento è singolare, la veste nera smanicata contrasta con la rigida lattuga bianca inamidata del colletto che cede al vezzo di un jabot in pizzo, e con le preziose sopramaniche ricamate, sicuramente retrò per foggia e stile. In seta azzurra presentano un ricamo a fiori e losanghe con ricci di canutiglia dorata pendenti dai bordi che sembrano di pelliccia; ai polsi fuoriesce l’orlo della manica in velo, il mignolo della mano destra è ornato da un anello, forse un sigillo, mentre la mano sinistra regge un documento. Vicino al jabot una coccarda con nastro, alla cintola sono appese delle chiavi, allusione alla carica parlamentare. La severità del ritratto ufficiale indugia nei particolari restituendoci una figura di uomo dallo spirito acuto, con i tratti del volto aguzzi, orgoglioso di aver dato il suo contributo da nobile vizzinese alla storia.
Due ritratti dell’amato padre dello scrittore, Giovan Battista Verga Catalano nato a Vizzini nel 1806 e morto a Catania il 5 gennaio del 1863 a soli 57 anni, appaiono diversi per stile e qualità pittorica; ne parla il De Roberto, riferendo che
“Del Padre vi sono anche, nella stessa camera, due ritratti su tela, grandi al vero: una mezza figura alquanto fredda, disegnata e colorita dopo la morte, e, d’un’altra mano, più esperta, la sola testa abbozzata, ma piena di vita“18.
Inentrambi i ritratti lo sguardo è di sbieco ed anche il verso del capo ruotato a destra, la cravatta annodata all’inglese.
Nella testa (fig. 12), versione pittorica di una fotografia scattata intorno agli anni ’40 e resa in pittura più tardi in memoria del defunto; l’espressione è più intensa, quasi corrucciata, i capelli un po’ scarmigliati, le lunghe basette e la cravatta svolazzante, piena di vita come riferito dal De Roberto.
La foto originale è fra le piccole inserite in una cornice in velluto cremisi nella parete a fianco al letto, poi riportata in una rivista degli anni venti, identica nel taglio (fig. 13), la tela non mostra cedimenti, visto anche il piccolo formato, e potrebbe ritenersi degli inizi del Novecento.
La tecnica è pastosa, con pennellate ampie e mosse, il fondo non uniforme ma reso con striature di colore, nel complesso di più che discreta qualità. Il ritratto a figura intera (fig. 14) – la mezza figura che De Roberto riferisce come eseguita e colorita post mortem – potrebbe risalire comunque agli anni ’60 dell’Ottocento per stile e impostazione, ed essere stato ultimato a morte sopraggiunta; giacca scura, camicia bianca con pettorina plissettata, cravatta all’inglese su gilet beige e ampi pantaloni grigio chiaro, l’uomo è seduto, di tre quarti, la mano sinistra appoggiata allo schienale della sedia e la destra sulla gamba, si presenta in posa ufficiale; le tempie sono grigie, il volto più disteso con un accenno di sorriso, l’acconciatura mantiene le basette, meno accentuate ma con i riccioli ben pettinati. I due ritratti sono perciò ben distanti fra loro per impatto ed esecuzione; movimentato il primo a mezzo busto, probabilmente più recente, e classico nella pennellata liscia senza guizzi né improvvisazioni il secondo, che potrebbe, questo sì, essere stato eseguito quando ancora il soggetto era in vita ed ultimato e “colorito” a morte avvenuta.
Lo zio Don Salvatore Verga Catalano (fig. 15) doveva essere un personaggio sicuramente originale19, dai gusti raffinati nonostante il viso arrossato dal sole della campagna; gli abiti sono alla moda di metà Ottocento, l’elegante bastone da passeggio dal pomello in evidenza, la cravatta sui toni dell’azzurro con nodo all’inglese, o all’americana, spicca sul rigido colletto bianco della camicia, mentre la mano destra è atteggiata in scorcio a sollevare leggermente il bavero, forse di pelliccia, della giacca20. Lo sguardo di sbieco e il mento leggermente in su denotano una certa spavalderia divertita accentuata dall’accenno di sorriso sornione; la tecnica pittorica di buona qualità, unita a questi due ultimi dettagli potrebbe fare riferire il dipinto all’ambito di Giuseppe Patania, pittore palermitano molto attivo in Italia e all’estero21.
Della vasta produzione ritrattistica di Patania si accosta qui il ritratto del 1812 di Tommaso Gargallo (fig. 16), marchese di Castel Lentini, fondatore di Priolo Gargallo, erudito di Siracusa, ministro della regina Maria Carolina d’Austria, collocato alla Biblioteca Vescovile Alagoniana in Ortigia, a Siracusa, molto simile per tecnica e per stile; il nostro dipinto non reca firma leggibile, ma l’autore sicuramente aveva preso a modello l’arte del Patania, fra i più acuti e raffinati pittori del panorama siciliano, che spaziava dai soggetti mitologici a quelli sacri, dall’affresco alla pittura da cavalletto. Fra le opere la serie dei ritratti di siciliani illustri commissionata nel 1821 da parte di Agostino Gallo, cui attese fino al 1844; concepita per la casa-museo di Gallo, è oggi ospitata nella cosiddetta galleria cui pervenne per lascito testamentario nel 1874.
Un ultimo ritratto occhieggia da una paretina vicino alla stretta scala che inoltra ai piani superiori, un lavoro un po’ piatto nell’esecuzione, tuttavia ricco di dettagli interessanti: lo sguardo pungente di sbieco, il sopracciglio leggermente alzato e gli occhi nocciola, e il bel panciotto a quadri che occupa la parte inferiore del dipinto (fig. 17). Una cravatta scura all’inglese a righe sottili chiude il colletto bianco e la giacca con risvolto sottolinea l’ufficialità della posa; i basettoni quasi asburgici che continuano fin sotto il mento ( la cosiddetta barba «sottogola» detta anche «a collana», una striscia di barba che scende prolungando le basette lungo tutta la linea della mandibola, senza coprire il mento) sono ostentati con orgoglio, così come gli scacchi del panciotto22, entrambi ritenuti tratti distintivi del personaggio, che si rivela alquanto originale.
Un uomo ritratto a mezzo busto a metà Ottocento in età ancor giovane, più o meno trentenne, che potremmo identificare fra i familiari fotografati dal Verga in età avanzata23: lo zio Giuseppe (fig. 18), ormai incanutito ma caparbio nell’affezione ai basettoni. La spontaneità catturata dalla macchina fotografica dello scrittore a Vizzini nel 1892 ci restituisce una personalità certamente sui generis, amante dei panciotti, che segue la moda e mantiene un piglio divertito e spavaldo nonostante l’età.
Maria BUSACCA Catania 19 Febbraio 2023
Note