di Leonardo ROCCO
- Premessa
La presente pubblicazione si pone l’obiettivo di far comprendere al lettore le districate differenze tra gli istituti della prelazione e dell’acquisto coattivo dei beni culturali, confrontando le attuali norme nazionali con quelle internazionali, che ci inducono inevitabilmente a riflettere sull’urgenza di una revisione legislativa che favorisca lo sviluppo economico del paese ed il lavoro di tutti gli operatori del settore.
- La prelazione sui beni culturali
In correlazione al suo concetto giuridico generale, la prelazione è attribuita mediante il patto con cui taluno si obbliga a preferire, a parità di condizioni, la controparte negoziale allorché esso si induca a stipulare un determinato contratto. È questa la prelazione volontaria, sempre ammissibile in virtù dei principi generali di libertà contrattuale (art. 1322 c.c.)[1].
Talvolta, però, è la legge stessa a correlare a talune situazioni l’insorgere di diritti di prelazione in favore di terzi che si trovino in una particolare posizione rispetto al bene oggetto di disposizione. È questa la prelazione c.d. legale, prevista nel Codice Civile (artt. 732, 1566) e in alcune leggi speciali (ad es. art. 8 L. 590/1965 in tema di prelazione agraria).
Apparentemente simile a tale ultima fattispecie è l’istituto della prelazione sui beni culturali, prevista agli artt. 60-62 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio[2]. Specificamente, la prelazione “culturale” consiste in un procedimento amministrativo che prevede l’esercizio di un potere pubblico di acquisire beni vincolati per il perseguimento di finalità di interesse generale quali, nel caso specifico, la tutela e la conservazione del patrimonio artistico nazionale.
A differenza della classica prelazione, volontaria o legale, la quale prevede che il concedente debba rivolgere al prelazionario la proposta contrattuale informandolo delle condizioni pattuite con il terzo e, conseguentemente, fino al momento di codesta denuncia il trasferimento non si è perfezionato né nei confronti del prelazionario né nei confronti del terzo, la prelazione “culturale” si esercita dopo la stipulazione del contratto con il terzo per il transito di proprietà a titolo oneroso, e ne sospende l’efficacia (impedendo anche la traditio della cosa) sino allo spirare del termine previsto per il suo esercizio. In parole semplici, la prelazione “culturale” ha ad oggetto un contratto già precedentemente concluso tra i privati. Il negozio traslativo tra i privati è proprio il quid che, debitamente comunicato al Ministero, legittima l’amministrazione all’esercizio della prelazione. Ne segue che lo Stato (o gli Enti Territoriali di cui all’art. 62 Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) non diviene mai parte del contratto traslativo, ma interviene con un atto discrezionale ablativo in base all’atto traslativo già perfezionato, con conseguente obbligo di pagamento del prezzo previsto nel contratto se decida di esercitare il proprio diritto.
Il termine per l’esercizio della prelazione decorre dalla data di notificazione della stipulazione del relativo contratto di compravendita alla Soprintendenza competente, secondo quanto previsto dall’art. 59 Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, ed è pari a 60 giorni a partire da tale “denuncia”.
Il presupposto necessario per l’esercizio della prelazione da parte dello Stato è l’esistenza di un vincolo culturale debitamente notificato al proprietario e trascritto sul bene. L’interesse storico, artistico, archeologico o etnoantropologico “particolarmente importante” del bene rappresenta il carattere intrinseco di tutta la procedura, che rispecchia teoricamente l’interesse da parte dello Stato di preservare il proprio importante patrimonio culturale.
I problemi, che inevitabilmente ricadono sulle spalle del proprietario, sono i seguenti.
Pur condividendo il diritto dello Stato di esercitare un diritto di prelazione su determinati beni culturali, e che ciò avvenga mediante la corresponsione dello stesso prezzo contenuto nell’atto di compravendita tra privati, non si comprende perché, al mancato esercizio della prelazione “culturale” pubblica, il bene, già vincolato, debba comunque rimanere tale e debba finanche permanere il divieto definitivo di fuoriuscita dal territorio italiano.
Esaurita la possibilità di acquisire l’oggetto, lo Stato, seguendo un ragionamento logico, non dovrebbe più imporre divieti sul bene, avendo deciso di non dare seguito alla dichiarazione di interesse culturale, volta all’acquisto del bene medesimo per conservare ed ampliare il patrimonio artistico italiano. Al mancato esercizio della prelazione “culturale” dovrebbe seguire, infatti, la caducazione del vincolo sul bene stesso.
Ad esempio, nell’ipotesi di acquisto di un bene vincolato da parte di un collezionista straniero, pur in caso di mancato esercizio della prelazione, quest’ultimo non potrà esportare l’oggetto al di fuori del territorio italiano, con conseguente limitazione del diritto di proprietà, garantito dalla Costituzione, e della normativa europea sulla libertà di circolazione dei beni.
Ad avviso di chi scrive, una volta che non è stato esercitato il diritto di prelazione non può ancora persistere il vincolo sul bene, poiché contrario a qualsivoglia iter logico-giuridico. Alla decadenza dell’uno dovrebbe seguire la caducazione dell’altro, così come previsto in tutti gli altri paesi europei.
- Acquisto coattivo
A differenza dell’esercizio della prelazione “culturale”, il cui presupposto è l’esistenza di un vincolo sul bene culturale, l’istituto dell’acquisto coattivo si pone in un momento antecedente, cioè in relazione ad una richiesta di uscita dal territorio nazionale dei beni di cui all’art. 65, comma 3 cbc[3].
In tale evenienza la Pubblica Amministrazione può, infatti, anziché decidere se concedere o meno l’attestato di libera circolazione, stabilire di acquistare direttamente il bene.
L’istituto de quo presenta, quindi, una duplice natura: da un lato costituisce uno dei modi previsti dal Codice in cui la Pubblica Amministrazione può acquistare beni di interesse storico o artistico in maniera privilegiata a fini di tutela o di valorizzazione[4] e, dall’altro lato, in virtù della sua collocazione, integra gli strumenti di controllo e limitazione previsti dal Codice rispetto all’uscita delle cose di interesse culturale dal territorio nazionale.
L’istituto in esame rappresenta un vero e proprio sub-procedimento rispetto a quello inerente al rilascio dell’attestato di libera circolazione[5], a carattere eventuale e su iniziativa d’ufficio, in quanto l’Ufficio di Esportazione, cui spetta il potere di proporre l’acquisto al Ministero, non è tenuto ad effettuare tale proposta, ma potrà avanzarla entro il termine di 40 giorni dalla presentazione della cosa (prorogando di fatto il termine previsto per il rilascio dell’attestato di libera circolazione di 60 giorni, per così complessivi 100 giorni). L’amministrazione centrale può procedere all’acquisto della cosa entro 90 giorni dalla denuncia, alla scadenza del quale, trattandosi di termine perentorio, cessa definitivamente il potere dell’amministrazione.
Il provvedimento di acquisto coattivo deve essere notificato all’interessato, che fino al momento della notifica ha la facoltà di rinunciare all’uscita del bene e di ritirarlo dall’Ufficio di Esportazione.
Qualora invece il Ministero decida di non procedere all’acquisto, ne darà comunicazione entro il termine di 60 giorni dalla denuncia alla Regione ove ha sede territorialmente l’Ufficio di Esportazione proponente. Quest’ultima, sempre nel perentorio termine di 90 giorni, avrà la facoltà di acquistare la cosa.
Con l’acquisto coattivo si conclude sia il sub-procedimento di acquisto stesso che il procedimento principale di rilascio dell’ALC.
Anche in caso di cessazione del procedimento senza che sia avvenuto l’acquisto coattivo, l’amministrazione conserva il potere di negare l’attestato di libera circolazione e, quindi, può decidere se rilasciare o meno l’ALC nei 10 giorni rimanenti[6]. Il più delle volte, infatti, si procede con il diniego dell’attestato e la conseguente apposizione del vincolo culturale sul bene, che ne determina il divieto di uscita definitiva dal territorio italiano.
Anche qui, purtroppo, residuano diverse perplessità, che sono simili a quelle osservate nell’istituto della prelazione “culturale”.
Non si comprende, infatti, per quale motivo, una volta che lo Stato o la Regione abbia deciso di non intervenire nella procedura di acquisto coattivo, persista la “facoltà” dell’Ufficio di Esportazione competente di negare l’attestato di libera circolazione. Va da sé che non avendo esercitato il proprio diritto di acquisto, l’Amministrazione Pubblica, evidentemente, non rilevi alcun interesse nei confronti dell’opera in questione. A questo punto l’interessato, dopo aver “subito” tutto il “non breve” procedimento de quo senza un nulla di fatto, assisterà supinamente anche all’apposizione del vincolo sull’oggetto, con conseguente impossibilità di usufruire dei mercati esteri, vedendosi peraltro dimezzare – come minimo – il valore commerciale del bene stesso.
- Confronto tra i due istituti e ulteriori rilievi critici
Posto che l’art. 95 cbc disciplina un altro strumento di acquisizione privilegiata e, cioè, l’istituto dell’espropriazione, che tuttavia possiede contorni differenti che non saranno approfonditi in questa sede, la differenza basilare tra l’acquisto coattivo e l’esercizio della prelazione consiste nella diversa rilevanza che assume, nei due casi, la volontà del proprietario della cosa[7].
Infatti, mentre la prelazione ha come presupposto caratterizzante l’esistenza di una volontà specifica in capo al proprietario di alienare il bene e, pertanto, ciò che la prelazione realizza è una deviazione dell’effetto traslativo verso un soggetto diverso da quello individuato dall’alienante, nell’acquisto coattivo tale volontà di alienare non è sempre presente, in quanto la richiesta di esportazione ex art. 68 cbc può derivare dalle più svariate esigenze, come ad esempio la volontà di trasferirsi all’estero e portare con sé il bene, o di trasferirlo all’estero per motivi familiari o di lavoro[8].
Nella prelazione “culturale”, infatti, lo Stato non può esercitare il proprio diritto se il proprietario non ha manifestato la volontà di vendita del bene attraverso la denuncia di trasferimento ex art. 59 cbc.
La dottrina ha ritenuto, conseguentemente, che l’acquisto coattivo è maggiormente limitativo delle facoltà dominicali del proprietario di quanto accada nell’ipotesi di cui all’art. 60 cbc, in quanto vi è la compressione del diritto di proprietà indipendentemente dalla reale volontà di alienazione del bene.
Per contro, nell’acquisto coattivo il proprietario può pur sempre inibire il potere di acquisto dell’amministrazione esercitando il proprio diritto di rinuncia all’esportazione.
Quanto alla somma riconosciuta al proprietario in caso dell’una o dell’altra acquisizione privilegiata, nell’acquisto coattivo viene corrisposto quanto indicato nella richiesta presentata all’Ufficio di Esportazione ai sensi dell’art. 68 cbc, ossia il valore venale del bene. Il rischio della sopravalutazione del bene da parte del proprietario verrebbe contrastato principalmente attraverso il controllo sulla “congruità del valore” da parte dell’Ufficio nell’esame sulla richiesta di esportazione. In merito a tale ultimo aspetto vi sono, tuttavia, pareri discordanti in dottrina, non essendo stata tassativamente prevista nel caso dell’acquisto coattivo l’ipotesi di errore nella valutazione del bene da parte del proprietario. Per alcuni si deve ritenere che il legislatore abbia visto nella possibilità di un diniego dell’attestato un deterrente idoneo e sufficiente alla sopravalutazione del bene[9]. Per altri, invece, il potere di accertare la congruità sul prezzo indicato nella richiesta di esportazione presume implicitamente anche il potere di correggerlo in caso di acquisto coattivo[10].
Il prezzo riconosciuto al proprietario, invece, in caso di esercizio della prelazione “culturale”, come già spiegato in precedenza, equivale alla somma indicata nell’atto traslativo, debitamente denunciato e sospeso sino al termine previsto per l’esercizio del potere ablatorio da parte dello Stato.
Laddove il bene culturale venga alienato insieme ad altri per un unico corrispettivo indistinto o sia ceduto senza corrispettivo in denaro o permutato, la determinazione del prezzo ai fini della prelazione avviene d’ufficio da parte del soggetto pubblico che la esercita. Tuttavia l’alienante ha la facoltà di non accettare la determinazione così effettuata, affidando l’incombente ad un terzo soggetto nominato concordemente tra le parti, ovvero, nel caso di disaccordo tra esse, dal Presidente del Tribunale del luogo di conclusione del contratto determinante il passaggio di proprietà.
Tanto precisato sulle differenze tra i due istituti, non possono sottacersi alcuni evidenti profili problematici, che si aggiungono a quelli già precedentemente osservati.
In primo luogo, nonostante il carattere ablatorio di detti procedimenti, è mancante una espressa e precisa indicazione delle finalità perseguite. In secondo luogo, nel caso in cui l’esportazione venga richiesta per fini differenti da quelli di vendita, l’acquisto coattivo si traduce in un meccanismo eccessivamente punitivo nei confronti del proprietario, il quale non ha in tale fattispecie alcuna intenzione di alienare il proprio bene. Benché vi sia la possibilità di ritirare la richiesta di esportazione con conseguente caducazione del sub-procedimento di acquisto coattivo, tuttavia, nella prassi l’oggetto è ormai compromesso da qualsivoglia futura esportazione e ridotto considerevolmente di valore.
Le misure di garanzia previste per il proprietario andrebbero certamente rivisitate, unitamente alle norme sulla circolazione dei beni, quantomeno per quei beni aventi naturale vocazione ai mercati internazionali.
Alla luce delle predette considerazioni, l’attuale disciplina sugli acquisti privilegiati andrebbe sicuramente snellita, con un occhio di riguardo anche alla tutela dei diritti privatistici, che il più delle volte vengono violati, in favore di nessuna parte in causa. Infatti, qualora il bene non venga acquistato dall’amministrazione pubblica mediante gli istituti sopra esposti, lo stesso rimane in un “limbo” che non giova a nessuno. Non al proprietario, che possiede un bene vincolato che non può esportare e che lo Stato non ha ritenuto di acquistare. Non allo Stato, che ponendo vincoli sulle opere, per poi non acquistarle, stante anche la cronica mancanza di fondi, non arricchisce il proprio patrimonio culturale ed impedisce qualsivoglia transazione internazionale con conseguente mancanza di incasso di tutte le imposte dovute per tali operazioni.
- Profili problematici per le case d’asta
Oltre al privato anche i vari intermediari e, in particolare, le case d’asta, subiscono passivamente le varie ipotesi di acquisizioni privilegiate.
È controverso, e non dovrebbe esserlo, se l’importo che la Pubblica Amministrazione debba corrispondere a fronte dell’esercizio della prelazione “culturale” sia solo quello del bene in senso stretto o debba estendersi anche al compenso spettante alla casa d’aste in caso di sua intermediazione.
In senso negativo depone la considerazione del fatto che il soggetto pubblico esercitante la prelazione “culturale” è estraneo al rapporto di mediazione e, come tale, potrebbe ritenersi non tenuto al pagamento di alcun compenso al mediatore[11]. Per contro, può considerarsi che a dispetto della natura ablatoria della prelazione artistica, la mancata considerazione degli oneri suddetti non appare idonea a risolvere in maniera equa ed equilibrata il problema del corrispettivo della prelazione.
Ad avviso di chi scrive, il compenso dell’intermediario dovrebbe essere considerato un componente essenziale del prezzo stabilito nell’atto di alienazione. Anche perché, senza la particolare forma di negoziazione che v’è correlata (ad esempio l’asta pubblica), l’alienazione stessa non avrebbe avuto verosimilmente luogo, con conseguente impossibilità da parte dell’Amministrazione Pubblica di esercitare il diritto di prelazione. D’altronde, presupponendo la prelazione un’alienazione già perfezionata (che viene caducata), appare equo imporre in capo allo Stato il pagamento di tutti gli oneri legati all’alienazione stessa[12].
Se per l’ipotesi della prelazione “culturale” non sembrano esservi tanti dubbi sulla obbligatorietà da parte della Pubblica Amministrazione di corrispondere quanto dovuto alla casa d’aste per la mediazione, di difficile inquadramento appare l’ipotesi della vendita coattiva in caso di richiesta di esportazione al fine della vendita, già consumata.
La mancanza di una differenziazione dei casi in cui l’esportazione è richiesta per scopi di vendita da quelli in cui è richiesta per altri fini rappresenta un vuoto legislativo che si ripercuote anche con riferimento alla mediazione della casa d’aste ove venga attivato il sub-procedimento di acquisto coattivo di un bene.
In tale accadimento la casa d’aste rimane di fatto in uno stato di incertezza.
Secondo quanto già sostenuto per la prelazione “culturale”, anche in questo caso l’acquisto coattivo, derivando dalla volontà del privato di alienare il bene, coadiuvato dall’attività lavorativa della casa d’aste, dovrebbe supporre il pagamento della somma omnicomprensiva anche della mediazione conclusasi.
Infatti il presupposto dell’acquisto coattivo, in tale esempio, è per l’appunto la vendita effettuata dalla casa d’aste, che precede la richiesta di libera esportazione in favore dell’acquirente al quale deve essere esportata l’opera. Non vi sarebbero dubbi, pertanto, nell’interpretare, anche nel caso di acquisto coattivo derivante dalla volontà di vendita del privato che richiede l’ALC, che la provvigione della mediazione debba considerarsi sempre dovuta da parte della Pubblica Amministrazione.
Tuttavia nella prassi ciò non avviene perché, erroneamente, non viene presa in considerazione la finalità di vendita, ma esclusivamente la richiesta di esportazione che, come abbiamo avuto modo di osservare, può avere varie finalità.
La mancanza di una precisazione in merito crea un vuoto che dovrebbe essere colmato prima possibile attraverso un intervento legislativo. Altrimenti la casa d’aste, una volta prestata la propria attività lavorativa per la compravendita dell’oggetto, non sarà debitamente tutelata nel caso in cui si incorra in un acquisto coattivo.
Quest’ultimo deve, perciò, considerare non solo il prezzo denunciato – o ritenuto congruo in caso di evidente sproporzione – ma anche la commissione della casa d’aste in caso di richiesta di esportazione ai fini di vendita.
Per non parlare, infine, della gaffe nei confronti del compratore, spesso estero, il quale richiede l’ALC, che con ogni probabilità vedrà con sempre meno fiducia al mercato italiano.
Anche in questo caso i problemi sono molteplici ed è lo Stato il primo a pagarne le conseguenze.
- Conclusioni
È evidente la natura di assoluta supremazia che connota la posizione dello Stato italiano nelle acquisizioni privilegiate, soprattutto se comparata con le altre esperienze estere: in Francia, ad esempio, lo Stato può esercitare i suoi diritti di prelazione solo nelle aste pubbliche; in Germania, addirittura, non esistono diritti di prelazione da parte dello Stato, ma solo un diritto ad un equo indennizzo, per il diverso caso dell’espropriazione.
Neanche nel Regno Unito vi sono diritti di prelazione da parte dello Stato, anche se il deferimento ad un expert adviser della decisione su una richiesta di licenza d’esportazione avviene molto spesso per dare l’opportunità alle autorità governative di fare un’offerta di acquisto al prezzo di mercato (che il proprietario può comunque sempre rifiutare).
Il sistema italiano non prevede, purtroppo, una politica di valorizzazione del patrimonio privato vincolato, atteso che i beni culturali oggetto di vincolo finiscono spesso per costituire un pesante fardello per il proprietario, che anziché rallegrarsi per il fatto che un proprio bene costituisca un tesoro nazionale, si ritrova tra le mani un oggetto il cui valore di mercato è sensibilmente ridotto, con notevoli difficoltà di alienazione e conseguenti ingenti costi a proprio carico per la sua conservazione.
In Francia, ad esempio, esiste una normativa molto articolata in relazione alla notifica dell’interesse culturale, che prevede agevolazioni fiscali anche per chi contribuisca all’acquisto da parte dello Stato dei beni stessi, che potrebbe essere riprodotta anche nel nostro paese. Inoltre, qualora il bene culturale non venga acquistato da parte dell’amministrazione statale francese, allo spirare del termine per l’esercizio di tale diritto lo stesso potrà essere alienato anche all’estero.
L’istituto della prelazione “culturale” è un tema molto ricorrente anche nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La fattispecie in esame, così come regolata negli ordinamenti interni, pone infatti non poche questioni di compatibilità rispetto alla tutela della proprietà privata garantita nella CEDU e alla protezione delle legittime aspettative dei cittadini nei confronti di disposizioni legislative ablative dei loro diritti patrimoniali.
Anche i giudici degli Stati Membri sono stati chiamati più volte a valutare, prima di rimettere la questione alla Corte di Giustizia Europea attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, la compatibilità della disciplina dell’istituto della prelazione artistica con il principio europeo della libera circolazione delle merci nel mercato interno riconosciuto nei Trattati istitutivi dell’Unione Europea. In proposito, occorre rilevare preliminarmente che, ai sensi dell’art. 36 TFUE, i beni culturali costituiscono una eccezione alla disciplina della libera circolazione delle merci. In particolare, l’art. 36 TFUE in materia di libera circolazione delle merci fa salve testualmente le restrizioni alle importazioni, alle esportazioni e al transito, giustificati da motivi di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale. Tuttavia è anche espressamente previsto che tale disposizione debba essere interpretata dagli Stati Membri nel pieno rispetto del principio di legalità. L’atto ablatorio non deve essere infatti arbitrario e deve perseguire un giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale e la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo. Il principio di legalità esige che le norme interne debbano essere sufficientemente accessibili, precise e prevedibili[13].
Per concludere, l’esigenza di mantenere il controllo sull’enorme quantità di beni culturali eccezionali presenti nel nostro paese, unitamente ad una cronica insufficienza di fondi per l’acquisto delle opere dichiarate d’interesse nazionale ha portato, purtroppo, all’instaurarsi di un sistema infruttuoso ove da un lato il privato cittadino viene spesso vessato da provvedimenti ablativi poco equi e che ledono il suo diritto di proprietà; dall’altro lato, lo Stato non arricchisce il proprio patrimonio culturale – se non in minima parte in base alle concrete possibilità economiche per l’acquisto – ma vincola le opere ad una permanenza definitiva sul territorio nazione, che non possono di conseguenza approdare nei mercati internazionali dove raggiungerebbero risultati di vendita molto più alti, a beneficio di tutti.
Per non parlare della consuetudine di apporre il vincolo anche ad opere comuni e prive di specifico interesse culturale nazionale, che testimonia l’assoluta imprevedibilità della relativa dichiarazione e la mancanza di un preciso e tassativo regolamento a riguardo (così come imposto dal suddetto principio di legalità di matrice europea).
Tutto questo circolo vizioso conduce il collezionista estero a guardare con sfiducia nel mercato italiano, ricco di potenzialità e bellezze, purtroppo non adeguatamente sfruttate.
Avv. Leonardo ROCCO Roma 25 Settembre 2022
NOTE
[1] A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2017.
[2] D.Lgs. 42/2004, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, da ora in avanti anche “cbc”.
[3] Art. 65 comma 3 Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio:
Fuori dei casi previsti dai commi 1 e 2, è soggetta ad autorizzazione, secondo le modalità stabilite nella presente sezione e nella sezione II di questo Capo, l’uscita definitiva dal territorio della Repubblica:
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a) delle cose, a chiunque appartenenti, che presentino interesse culturale, siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni, il cui valore, fatta eccezione per le cose di cui all’allegato A, lettera B, numero 1, sia superiore ad euro 13.500;
-
b) degli archivi e dei singoli documenti, appartenenti a privati, che presentino interesse culturale;
-
c) delle cose rientranti nelle categorie di cui all’articolo 11, comma 1, lettere f), g) ed h), a chiunque appartengano.