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La storia raccontata da Stefano Antonio Marchesi nel recente libro “Valguarnera. Una storia barocca” da poco in vendita per i tipi della editrice fiorentina Mandragora, s’inquadra nella prima metà del Seicento e riguarda un personaggio di spicco nel mondo collezionistico dell’epoca e dunque ben noto anche oggi quanto meno agli addetti ai lavori, don Fabrizio Valguarnera, appunto, la vicenda del quale ben può prestarsi ad essere presa a parametro di un’epoca in cui si vennero a concentrare in un assieme strepitoso quanto spurio, la grande arte e gli artisti più geniali, la religione, la politica e inevitabilmente la spasmodica ricerca del successo.
L’autore del libro così si presenta: “… non sono un professore, né uno storico dell’arte ma semplicemente un collezionista” , però appassionato di arte e pittura antica aggiungiamo noi, una passione che lo ha spinto a ripercorrere la vicenda del Valguarnera seguendo un percorso a metà tra realtà e finzione “a cavallo tra verità storica e invenzione”, e che ci trascina in un vero “viaggio nell’arte barocca tra Spagna, Francia e Italia”, come appare in quarta di copertina. Né sembri esagerato questo inciso, perché proprio al nostro protagonista toccherà in sorte di venire inevitabilmente attirato come da una irresistibile calamita nell’avventura per le strade e le bettole di mezza Europa, tra aristocratici e prostitute, tra pittori e collezionisti, per poi -dopo l’arrivo nella Città Eterna- finire i suoi giorni alla stregua di un miserabile avventuriero.
Se vogliamo però che il lettore possa percepire davvero il senso autentico di questo racconto ed apprezzarne il contenuto, occorre definire quella che a nostro parere si potrebbe offrire come la chiave di lettura più plausibile, ossia quella sorta di inquietudine che con la nascita del romanzo moderno prende la forma del viaggio dentro se stessi, della indagine interiore nel tentativo di penetrare il proprio inconscio e portare alla luce stati d’animo, comportamenti, visioni. Non possiamo dire naturalmente quanto di ciò possa imputarsi -se così’ possiamo dire- alla scelta del nostro autore. E tuttavia, posto che il Valguarnera è un collezionista bramoso accaparratore di opere d’arte, sempre alla ricerca di importanti quadri d’autore, e che il romanzo altro non è che il racconto di continue deviazioni che progressivamente egli s’impone a questo scopo, che tuttavia riflettono uno spaccato di quell’epoca e che da lui e per suo tramite in essa si riflettono, allora diventa interessante indagare la funzione rivelatrice del romanzo stesso, il modo della trasmissione del pensiero, di come quel tanto o quel poco di realtà venga raccontata attraverso l’invenzione narrativa, cominciando con una domanda.
Chi fu davvero il Valguarnera ?
Certo non un angelo, al contrario, visto che bruciò la sua giovane esistenza sperimentando ogni sorta di abiezioni, ma certamente fu, come dicevamo, figlio e in un certo senso emblema della sua epoca e il romanzo di Marchesi, che ne traccia un profilo molto dettagliato, seguendone passo passo, mese dopo mese, il tragitto esistenziale e, possiamo dire, criminale, alla fine sembra condurci a risultati contrastanti per un giudizio che debba tener conto del contesto in cui si mosse, quasi che, rischiando di farci prendere le sue parti, infine ci dispiacessimo per come tragicamente si conclude la sua esistenza.
Merito dell’autore – non a caso collezionista anch’egli- che evidentemente, pur essendo solo alla sua seconda prova narrativa, ha saputo ben costruire una trama capace di coinvolgere i lettori carpendone l’attenzione ed anche il sentimento.
Va detto che nella comprensione e nella definizione della figura del Valguarnera egli si è potuto valere di importanti studi precedenti a partire da quello di Jane Costello (1950) e poi dell’altro assai rilevante di Leonardo Sciascia, indirizzato su questa scia da un gigante della storia dell’arte del nostro paese quale è stato Giuliano Briganti, che evidentemente del ‘caso’ Valguarnera aveva intuito tutto il portato attrattivo a livello romanzesco comprendendo altresì che solo un grande narratore come lo scrittore di Racalmuto avrebbe saputo sostanziarne la valenza narrativa in un racconto dall’emblematico titolo “Diamanti” apparso su Nuovi Argomenti nel 1988 e poi ripubblicato nel catalogo della mostra “Roma 1630. Il Trionfo del pennello”, tenutasi a Villa Medici tra il 1994 e il ’95.
Il libro di Stefano Antonio Marchesi non è in ogni caso una vera e propria biografia magari romanzata, ma possiamo porlo senza dubbio sul versante dei racconti di vite in qualche modo straordinarie, laddove l’autore non si limita a osservare il corso di una esistenza sulla base di alcuni episodi seppur tra i più significativi, bensì la riavvolge all’interno di un dramma che rispecchia alla perfezione un contesto preciso, delineando una storia che diviene così in qualche modo –come accennavamo- anche emblematica, pur nella sua limitatezza, del mondo di allora, in primis –per quel che ci riguarda- dell’Italia e degli italiani nel momento storico in cui Roma -progredita in fama ed importanza ben oltre i confini dello stato della Chiesa-, sembrava aver messo alle spalle la fase più austera e drammatica degli anni segnati dalla più stretta adesione ai canoni della Controriforma.
E’ la Roma di Urbano VIII, sottolinea l’autore, un papa amante dell’arte ed anzi poeta egli stesso che non si peritava di cullare le più grandi ambizioni, tanto che amava intrattenere spesso i suoi ospiti nella recita di sue poesie di cui si riteneva probabilmente un geniale creatore; né fu per caso che poche settimane dopo la sua ascesa al soglio pontificio aveva proibito la circolazione nello stato della chiesa dell’Adone di Giambattista Marino, allora all’apice della gloria letteraria e quindi suo pericoloso rivale sotto quell’aspetto.
Marchesi descrive con brevi tratti ma di notevole efficace lo “stato dell’arte” in quegli anni.
E’ la Roma di Bernini “che la faceva da padrone in scultura e architettura”, e di Borromini, quella in cui si viene a trovare Valguarnera, una fantastica città divenuta in quegli anni il “gran Teatro del modo”, centro focale dell’arte come dell’avventura, dove insistono i seguaci di Caravaggio, come lo Spadarino, o come Valentin de Boulogne e pochi altri che “danno vita allo splendore crepuscolare di quell’esperienza esaltante e rivoluzionaria”, ma dove soprattutto s’impongono i nomi e le poetiche di Andrea Sacchi, nella cui pittura prevale “ordine, simmetria e le tonalità chiare del fare pittorico”, e all’opposto di Pietro da Cortona autore di “un’arte convulsa straripante e teatrale”, ma dove in particolare esplode il genio del parmense Giovanni Lanfranco “in quel momento il primo pittore di Roma“, la cui pittura “nobile e illusiva” sarà origine del Barocco, un artista però umanamente non irreprensibile, dato che “non poteva certo dirsi un uomo generoso né magnanimo” con il quale il Valguarnera cerca di stringere affari grazie ai diamanti in suo possesso, ma del quale conoscerà l’avarizia e soprattutto l’irriconoscenza.
E’ un periodo davvero magico quello in cui il nostro protagonista arriva a Roma, dopo varie peripezie, come vedremo, e vi vive la sua avventura; è anche possibile che gli sia potuto capitare, mentre attraversava una strada, magari via della Lungara o via di Ripetta, di vedere transitare una incredibile carrozza tirata da sei cavalli, come quelle che si poteva permettere solo un principe mentre invece era quella, oggi diremmo super lusso, che suggellava la mirabolante carriera di uno degli artisti con il quale entra in contatto e a cui commissiona quadri, cioè Agostino Tassi, lo stupratore di Artemisia e di chissà quante altre, che proprio in quegli anni aveva stretto un felice sodalizio artistico con Angelo Caroselli al quale non disdegnava di far riportare su tela le sue stesse concubine (nel dipinto raffigurante Salomone e le sue concubine, Caroselli ne aveva ritratte precisamente nove!).
Nonostante il progressivo ridimensionamento del ruolo politico del papato, che si vedeva sempre più inesorabilmente finire ai margini sul piano delle relazioni internazionali, l’arte che contava era proprio quella che si affermava nella capitale dello Stato pontificio: non a caso Richelieu prima e poi Mazzarino si raccomandavano affinché fossero coinvolti architetti romani nei progetti regali parigini a cominciare dal Louvre:
”Io vorrei essere il conduttore delli Bernini e Cortonesi e migliori musici – scrive il Mazzarino in una lettera datata 1636 al Cardinale Antonio Barberini – perché si ergessero statue, si facessero pitture e si formassero melodie per celebrare la gloria di un tanto Re” (cfr., M. Fagiolo, Roma- Parigi, progetti per il Louvre e gli architetti della regalità, in M. Fagiolo, P. Portoghesi, Roma Barocca. Bernini, Borromini, Pietro da Cortona, Mi, 2006, p. 234).
E tuttavia, Roma, quella Roma così esaltante non è solo il luogo dello straordinario sviluppo dell’urbanistica, dell’architettura e delle arti; c’è un altro aspetto più nascosto, più stridente rispetto all’ufficialità e più bizzarro se vogliamo, ma non meno da tener presente, perché sarà poi con questo che Valguarnera alla fine dovrà fare i conti; parliamo del clima tenebroso di sospetto oltre che di pericolo determinato da certe particolari contingenze che si erano fatte strada nei palazzi vaticani, dove in effetti, com’è stato scritto “dietro la severità della Controriforma troviamo spesso un mondo misterioso e tortuoso”, fatto anche di “fermenti culturali ermetici”; insomma “una sorta di seconda Roma che vive nell’ombra della ufficialità” dove “non è un caso che proprio i rappresentanti dell’autorità della Chiesa coltivino in privato ciò che reprimono in pubblico”. E questo riguardava in particolare proprio il papa Urbano VIII.
Sospettoso oltre ogni dire, letteralmente ossessionato da una sinistra profezia di morte collegata ad una particolare congiunzione astrale che lo riguardava, il pontefice aveva aperto le porte delle sue dimore al frate Tommaso Campanella, singolare figura di religioso a quanto pare dotato di particolari doti di divinazione e quindi in grado di rassicurarlo, forse ignorando, o forse no, quanto era stato riferito da vari testimoni nel processo che aveva visto il domenicano imputato a Napoli, cioè che “fra Tommaso” si credeva destinato “monarca del mondo e a dare nuova legge” e addirittura “si proclamava il Messia venturo”. In quel contesto dove
“non è un caso che proprio i rappresentanti dell’autorità della Chiesa coltivino in privato ciò che reprimono in pubblico”, dove “Urbano VIII, che condanna l’astrologo Morandi, celebra riti magici insieme a Tommaso Campanella“ (cfr. F. Troncarelli, La città dei segreti. Magia, astrologia e cultura esoterica a Roma (XV- XVIII), MI, 1985, p. 11)
Valguarnera si troverà dentro un meccanismo più grande di lui da cui inevitabilmente finirà schiacciato.
Ma per ritornare alla nostra vicenda, occorre precisare che Roma non è che la tappa finale della “Storia barocca” –come recita il titolo- e Valguarnera ci arriva nell’ottobre del 1630, dopo essere transitato e aver dimorato a Lisbona, Madrid, Granada e Toledo, attraversato la Francia e infine approdato in Italia, sbarcando a Genova e di lì a Livorno e Napoli; un vero tour in mezza Europa, che in qualche misura assomiglia ad una specie di viaggio si di perdizione ma anche di formazione, se consideriamo i costumi, i caratteri e i personaggi con cui entra in contatto e soprattutto gli artisti e i capolavori d’arte che incrocia, a cominciare dall’ Entierro del Conte de Orgaz, il gigantesco capolavoro (480 x 380 cm) realizzato nel 1586 da El Greco, custodito nella chiesa di Santo Tormè a Toledo, dove tra minacce e lusinghe il giovane palermitano stringerà infine il patto criminale che lo porterà alla disfatta.
Il ‘movente’ se possiamo chiamarlo così è il furto di un carico di diamanti, ben 1632, più “due grossi rubini”, provenienti dall’India centromeridionale acquistati da commercianti fiamminghi e protestanti, i fratelli Balthasar e Ferdinand de Groote, in società con lo spagnolo e cattolico don Paulo Sonnio e presi in custodia per conto di entrambi da Manuel Alvarez Carapeto, poi divenuto con le buone o con le cattive il socio di Valguarnera, agente in nome di entrambi che però, una volta verificata la grande ricchezza cui si era trovato di fronte al momento dello sbarco del prezioso carico al porto di Lisbona, non se ne era dato per inteso di farli avere a coloro che ne avevano diritto. Così che annusata la mala parata, il Sonnio convince non senza fatica i due fratelli protestanti che bene sarebbe stato rivolgersi ad un ecclesiastico molto vicino al sovrano “cattolicissimo”, Filippo IV, cioè don Mariano Valguarnera, Cappellano del Re, il quale affiderà le indagini a suo nipote, don Fabrizio Valguarnera, che entra così ufficialmente in gioco.
E’ a questo punto che egli decide che è arrivato il momento di imporre una svolta decisiva alla propria vita, cosa che avviene normalmente quando si assiste o capita un fatto apparentemente anche banale ma che segna poi il resto dell’esistenza, quando cioè si superano quelle linee di demarcazione tra un prima e un dopo, ed è quindi come se il protagonista fosse consapevole del fatto che sia giusto correre dei rischi, spinto da egoismo o da un malinteso sentimento di affermazione.
Questo in sostanza l’esordio di una amara vicenda costruita dall’autore sullo scandire preciso del tempo ma anche sul rimpianto: rimpianto per la giovinezza bruciata alla ricerca di quello che non sarà e non sarebbe stato. Scrive Marchesi
“Quel giorno si prefigurava in nuce tutta la vita futura di Valguarnera e proprio suo zio, che tutto avrebbe fatto per favorirlo, che aveva a cuore il suo benessere e la salvezza della sua anima, lo avrebbe inconsapevolmente condotto alla morte e, forse, alla perdizione eterna”.
Se don Mariano, contando anche sulla conoscenza che suo nipote vanta della moglie del Carapeto, pensa in effetti che questi abbia davanti l’occasione della vita, mandata dalla Divina Provvidenza, ignorando che “quell’occasione si fondava sul peccato”, Fabrizio invece non ha alcuna volontà di redimersi considerando, per parte sua, che aveva si di fronte “l’occasione fortunata apparecchiata dal destino”, ma di tutt’altro tipo e da sfruttare in tutt’altro modo.
L’azione narrativa possiamo dire che si snodi da qui, nel momento in cui i punti da cui si svilupperanno numerosi tutti i fili della trama già si mischiano a non pochi richiami storico artistici che non appaiono mai come una forzata giustapposizione, al contrario possiamo considerarli una sorta di stimolo per il lettore che viene messo effettivamente di fronte a intriganti osservazioni che coinvolgono in effetti nomi come El Greco, già visto, poi Cavalier d’Arpino, Rubens e poi Lanfranco, Poussin, Sacchi, oltre ai personaggi in quell’epoca veramente esistiti.
Lo sviluppo della narrazione a volte s’interrompe quando l’autore azzarda commenti di carattere iconografico di fronte a certi capolavori. E qui non si possono non rimarcare la qualità e la capacità argomentativa che da un non addetto ai lavori certo non ci si aspetterebbe; per fare solo un paio di esempi, si leggano le righe con cui viene affrontato il tema dell’Entierro , capolavoro tra i più noti di El Greco, studiato e commentato dai numerosi esegeti dell’opera del genio toledano, ma che il nostro autore sviluppa per interposta persona, il Valguarnera appunto, intorno alla figura della “giovinetta dipinta in basso” la sola, tra tanti personaggi, ad accorgersi del “miracolo in atto”, un “miracolo concreto e vero” , di cui “solo lo spettatore è testimone mistico”, e che al Valguarnera “più compiaciuto delle proprie analisi artistiche, che ammonito nel suo comportamento di vita” servirà a poco essersi reso conto.
Come pure da apprezzare non poco è l’analisi che in questo caso lo stesso Lanfranco fa del “Cristo che distribuisce il pane alla folla”, che al di là della imprecisione riguardo alla tempistica (il capolavoro di Lanfranco, meglio noto come Moltiplicazione dei pani e dei pesci, oggi alla National Gallery di Dublino, risale secondo gli studiosi del pittore parmense al 1624-25, mentre qui si situa l’acquisto del Valguarnera, in cambio di uno dei diamanti illecitamente sottratti, al gennaio 1631, nda) interessa mettere in risalto quello che si raccomanda, cioè che occorre “scendere più in profondità” per comprendere la “metafora nella metafora”, ossia che “nell’atto del parlare Cristo afferma la propria divinità.
La Sua bocca è la bocca di Dio, la Sua Parola è la Parola di Dio. Questo è il significato più profondo dell’opera” dice Lanfranco/Marchesi, che entrando evidentemente nell’ambito di una vera semiotica della pittura, pare voler attribuire una sorta di validità teoretica al conclamato richiamo alla coerenza e unità tra forma e contento dell’immagine, così concludendo
“questo è ciò che la pittura può dare immaginificamente nel momento della sua visione intellettiva”.
Ma per riprendere in breve la trama del romanzo, sarà proprio da questo momento che il Valguarnera entra nel micidiale meccanismo che lo schiaccerà. Nonostante il tentativo di sottrarsi ai sospetti di essere oltre che ladro di diamanti anche un assassino (il suo socio Carapeto nel frattempo è stato trovato morto con la testa fracassata) acquisendo il nome di Antonio Siciliano, un diamante ritrovato tra le brache del socio morto porterà gli inquirenti ben preso sulle sue tracce, peraltro lasciate numerose allorquando
“non capacitandosi dell’assenza di Carapeto, iniziò anche lui a farlo cercare nei bordelli, presentandosi come suo inquilino in via Frattina, facilitando inconsapevolmente il compito del Capitano di Giustizia”.
Emerge qui la figura del Governatore di Roma, Girolamo Grimaldi, personaggio tutt’altro che molle e pigro come ci si attenderebbe per un altolocato ecclesiastico (ma varrebbe la pena di soffermarsi sulla descrizione fisionomica che ne fa Marchesi, che non stonerebbe in un ritratto di Franz Hall) ed anzi assolutamente determinato ed implacabile nel condurre l’inchiesta, al quale toccava, in quell’anno appena apertosi con gli strascichi della dura pestilenza che dal 1630 aggrediva i territori circostanti la capitale, occuparsi della quarantena e della immediata sepoltura dei cadaveri essendo membro della Congregazione della Sanità.
Sarà l’abate Salvatore Corsetto da lui ingaggiato a metterlo sulle tracce del Valguarnera, il quale quando gli scatteranno le catene ai polsi e vide la carrozza del Grimaldi comprese subito cosa doveva aspettarsi “sarebbe stato meglio cadere in mano a dei briganti”.
Entrato nei meccanismi della giustizia papalina, da lungo tempo capace di utilizzare tutti i mezzi al fine di mettere in una situazione senza via di scampo un sospettato, Valguarnera vedrà nel corso degli interrogatori e del processo chiudersi progressivamente ogni possibile via di salvezza che aveva immaginato di giocarsi, a fronte di testimonianze, accuse e prove che lo stringono dentro una inesorabile morsa per liberarsi dalla quale non varrà neppure immaginarsi “demiurgo di una inesistente realtà”, cioè ricreare una “galleria mentale” collocando idealmente sulle pareti della cella i quadri della sua collezione che poi però, per una sorta di eterogenesi dei fini, progressivamente staccherà, ad uno ad uno fin quando rimane solo
“la visione della Peste di Azoth dipinta da Poussin, che campeggiava trionfate nel suo pensiero. Un’umanità disfatta, sconfitta impotente di fronte alla sacralità del dolore e della morte pestifera ( … ) Poi il vuoto, il silenzio, il buio e la scomparsa di ogni immagine”.
E’ la mattina di Natale del 1631; Valguarnera è in stato comatoso, quando il capoposto stila il testamento interpretando in qualche modo il farfugliare del moribondo; poi esce dalla cella mentre le guardie non tralasciano di serrare il catenaccio della porta.
“Di Valguarnera non si seppe più nulla”.
P d L Roma 14 febbraio 2021