di Beatrice BUSCAROLI
Nel 1996, fresco di nomina alla direzione della Galleria d’Arte Moderna, lo portò Danilo Eccher.
«Se la pittura ha ancora senso di esistere – ha affermato Eccher in occasione della mostra dell’autore irlandese naturalizzato americano da lui curata a Venezia nel 2015 – nel panorama dell’arte contemporanea in cui i linguaggi e le forme espressive si moltiplicano all’eccesso, lo si deve ad artisti come Sean Scully»,
le cui opere
«suggeriscono una dimensione poetica, ma non sfuggono all’esperienza della luce, alla sua rifrangenza, alla sua dilatazione cromatica, affondando nella tradizione del colorismo veneziano e insistendo nel rigore di un concettualismo attuale».
Ebbene, oggi questo autore ritorna a Bologna con A Wound in a Dance with Love, la retrospettiva curata da Lorenzo Balbi: 77 opere tra oli, acquarelli, disegni e una scultura monumentale, il tutto frutto di una rielaborazione appositamente effettuata per il MamBo, dopo le tappe espositive del 2020 e del 2021al Museum of Fine Arts – Hungarian National Gallery di Budapest e al Benaki Museum di Atene.
Uno dei maestri indiscussi di quello che un tempo si definiva “astrazione geometrica”, Sean Scully – nato a Dublino nel 1945, trasferitosi durante l’infanzia a Londra e, dal 1983, cittadino americano – esordisce agli inizi degli anni Settanta con grandi tele che sembrano risentire da un lato dell’influenza di Mark Rothko e di Piet Mondrian, e, dall’altro di quel clima minimalista che vede come precursore l’insegnamento profuso dall’esule del Bauhaus Josef Albers.
Al centro della sua produzione il colore, un colore puro, vibrante, disposto in partiture geometriche che generano un senso dello spazio non seriale, né meccanico. La sua attitudine operativa tuttavia non ricerca l’inespressività impersonale, la freddezza emozionale di Frank Stella o di Agnes Martin, ma piuttosto accenna a una condizione nella quale si evidenziano le complessità delle relazioni umane. Il suo è – come hanno sottolineato a più riprese i critici che ne hanno seguito il lavoro e la sua lenta evoluzione – un’opera intrisa di spiritualità.
E questo anche se l’avvio della sua ricerca sembra piuttosto in sintonia con le gelide geometrie minimaliste. Ma lentamente, quasi in modo inesorabile, Scully passa dall’immagine geometrica lineare a una forma meno rigorosa, dove il colore si fa corposo, spesso quasi “violento”, impulsivo. La serie inaugurata all’inizio del nuovo millennio, Black Square, ne è testimonianza quanto mai evidente. E non solo dal punto di vista formale, stilistico: Scully rende sempre più evidente il fondo “umanistico” – come a più riprese ha sottolineato Demetrio Paparoni – della sua investigazione sulle relazioni umane, sul rapporto tra vivente umano e luoghi dove lo scambio sociale si svolge. Un umanesimo che gli ha consentito di dialogare non solo con il minimalismo, ma anche con Giorgio Morandi, come accade in Two Windows Grey Diptych del 2000 e, prima ancora, con uno dei massimi maestri del colore, Henri Matisse, cui ha dedicato un film nel 1992 prodotto dalla BBC.
Eppure, Scully è consapevole che la pittura astratta è per sua natura criptica, fa più fatica a mostrare quello che Arthur Danto chiama “significato incarnato”. E questo è un problema che gli artisti si sono posti ben prima che fosse coniato il termine astrazione. Una prima avvisaglia la fornisce Paul Gauguin, nel 1895:
«grazie ad accostamenti di linee e di colori, con il pretesto di temi tratti dalla vita o dalla natura, delle sinfonie, delle armonie, che mi fanno pensare come mi fa pensare la musica».
Accostare linee e colori, con il pretesto … è il pretesto che fa la differenza: ogni opera, nella sua stessa essenza “spirituale”, altro non è che accostare linee e colori. Ecco l’astrazione: una convenzione, libera, sottile, spudorata.
Come ha sottolineato Arthur Danto, che per anni ha dialogato con Scully, un’opera ha un senso solo in un certo contesto storico-culturale; l’opera deve avere una struttura metaforica e richiede il contributo del fruitore per essere attivata; nelle opere d’arte è decisivo il modo in cui la rappresentazione è a proposito di qualcosa: è ciò che Danto chiama stile.
Ma a Scully le definizioni troppo rigide non interessano:
«quando dipingi quadri astratti non è come se avessi aderito a una setta, come i Templari, con severe regole d’onore e di comportamento».
Ma soprattutto:
«È stata l’arte europea, con la sua versatile combinazione di diverse modalità di espressione a salvare l’arte negli anni ottanta e darle la possibilità di andare avanti. Il suo vantaggio risiede, di fatto, nella sua storia».
Ecco, la storia, una cosa fatta dagli uomini … senza astrazioni.
Beatrice BUSCAROLI Bologna 17 Luglio 2022