di Fabio SCALETTI
Botticelli: ecco la vasariana Madonna di Montevarchi
Nelle sue celebri Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori (1550, II edizione 1568) Giorgio Vasari, alla fine del capitolo dedicato a Sandro Botticelli, scrive che egli
“In San Francesco di Montevarchi fece la tavola dell’altar maggiore…”.
Siccome, salvo quanto si dirà tra breve, l’opera non è mai stata riconosciuta dagli studiosi tra i dipinti noti ed è tradizionalmente considerata perduta – non potendo dubitare di una fonte autorevole come quella dello storico aretino, sebbene purtroppo in questo caso non fornisca informazioni né sul soggetto né su una generica datazione – si può ben immaginare la mia sorpresa e la mia emozione quando ho fatto la conoscenza con un dipinto, transitato nel 1995 per un’asta Christie’s a New York e attualmente conservato in una collezione svizzera, finora inedito, raffigurante la Madonna col Bambino e un frate orante (tempera su tavola, cm 70 x 48 – figg. 1 e 2), sul cui retro vi è una targhetta che riporta l’attribuzione al Botticelli e l’appartenenza alla collezione Bartolini di Firenze, in origine nella chiesa dei Francescani di Montevarchi (Arezzo).
Una tale provenienza è cruciale perché confermata da una ricerca, svolta in occasione del passaggio in asta, nei documenti della chiesa di San Francesco di Montevarchi (chiamata anche Sant’Andrea a Cennano in San Lodovico), dove risulta che il quadro restò in quel luogo fino al Seicento, quando la famiglia Bartolini lo rilevò in cambio di alcune donazioni[1]
Non ci pare in effetti del tutto convincente la recente identificazione con l’Incoronazione della Vergine e santi oggi a Villa La Quiete presso Firenze (1500 ca. – fig. 3),
che infatti proviene dalla chiesa di San Jacopo a Ripoli di Firenze, dove era nell’Ottocento e dove l’aveva situata lo stesso Vasari, tra l’altro ascrivendola a Ridolfo del Ghirlandaio. Così registra lo storico aretino, che ben conosceva i luoghi:
“Dipinse Ridolfo nel monasterio delle monache di Ripoli due tavole a olio, in una la coronazione di nostra Donna e nell’altra una Madonna in mezzo a certi santi”.
L’Incoronazione della Vergine di Villa la Quiete è stata esposta in mostra a Palazzo del Podestà di Montevarchi nel 2019 proponendola come l’opera vista dal Vasari nella chiesa dei Francescani (poi con le soppressioni napoleoniche trasferita in San Jacopo a Ripoli, rimpiazzando la pala di Ridolfo del Ghirlandaio, andata al Louvre).
La grande tavola è oggi prevalentemente tolta a Ridolfo e riferita a Botticelli ma con preponderante collaborazione della bottega: Alessandro Cecchi pensa che sia stata dipinta dagli aiuti sulla base di un cartone del maestro, tradotto
“caricando, in modo quasi irriverente, le fisionomie dei tanti santi, francescani e non, che si accalcano nel registro inferiore”[2]-
Nicoletta Pons la considerava disgiuntamente, e secondo noi correttamente, dalla vasariana “tavola dell’altar maggiore” della chiesa di San Francesco, e la ritiene alquanto tarda (“gli elementi stilistici inducono a proporne una datazione già cinquecentesca”)[3]; Carlo Gamba, pur ravvisando nella parte superiore l’ideazione del maestro, pensava a una esecuzione della bottega, riscontrando che le figure, “vaganti senza nesso e senza scopo guardando nel vago, sono eseguite goffamente senza costruzione e senza vita”[4].
Viceversa, basterebbe il suddetto solido collegamento tra l’indicazione vasariana e il percorso della tavola oggi in Svizzera per credere di aver finalmente rintracciato il dipinto smarrito di Botticelli[5]. Ma con gioia e anche sollievo ho appreso che essa era in passato già stato esaminata da importanti studiosi, tra cui Stefano Bottari e, addirittura, Roberto Longhi, che, nelle loro perizie, non avevano esitato a fare il nome del sommo artista fiorentino stante la qualità del pezzo. Quest’ultimo, che sfoggia una precisione di disegno nelle figure e nell’assetto naturalistico-murario degna del maestro, è di una bellezza cristallina e fa davvero onore a colui che, nelle parole del Berenson, “resta pur sempre il massimo artista di disegno lineare che mai l’Europa abbia avuto”[6].
Allo scrivente viene in mente la figura di Maria, il panorama e l’architettura angolata di un capolavoro giovanile, la Madonna col Bambino e angeli della Galleria Nazionale di Capodimonte a Napoli[7] (1468-1469 – fig. 4).
Nel suo articolato studio privato (1946) Longhi propone una datazione all’ultimo decennio del secolo decimoquinto.
“I caratteri stilistici dell’opera – afferma il grande studioso, e vale la pena di riportare ampie parti della relazione manoscritta – convengono pienamente al Botticelli, pur tenendo presente che nel decennio cui appartiene e che, a mio vedere, è l’ultimo del Quattrocento, è difficile prescindere dalla presenza di qualche aiutante che possa essere intervenuto nell’esecuzione di qualche zona più anodina, com’è della stesura delle parti più lisce, e senza necessità di modulazione, dell’architettura. Ma si noti però che anche queste zone che danno la struttura, così importante, dell’intero dipinto sono state dapprima delineate dal maestro stesso con tracce graffite sulla preparazione, sicché la partizione che ne dipende di parti in luce e di parti in ombra (la luce proviene infatti da sinistra) conferisce a tutta l’opera una armatura scenica fermissima e inalterabile”.
“Si rilevi per esempio – continua Longhi – il calcolo preciso con cui la barbetta del prete adorante e il nimbo della Vergine vengono a sfiorare il centro del pilastro mediano del loggiato; oppure come il filo del parapetto sopra il bancale stia esattamente a mezza altezza di tutto il dipinto che ne viene pertanto ripartito in due rettangoli sovrapposti. Questo studio di una calibrata partitura prospettica è tipico del Botticelli della piena e tarda maturità (si ricordino per esempio le prospettive rettilinee della predella dei frati di San Zanobi sulla fine del secolo); ma importa anche notare che questa guida dei tracciati in prevalenza rettilinei si ripercuote anche nella sagoma stessa delle figure che negli anni precedenti si sfrenavano in ritmi ‘curvilinei’ e qui nvece tendono a ‘rettificarsi’. Si veda infatti come la Madonna, che pure desume per l’ovale da quello della Madonna del Padiglione a Milano si conchiuda qui entro una sagoma poligonale; o come la figura del monaco orante venga a iscriversi in una sagoma triangolata”[8].
Lo storico dell’arte tornerà vent’anni dopo su questa attribuzione, ribadendola[9].
Il confronto con altre opere del Botticelli (per Longhi con la Madonna del padiglione dell’Ambrosiana di Milano (1493 ca. – fig. 5), è stato ripreso da altri due studiosi nei loro studi privati (entrambi collocando il dipinto nel soggiorno romano).
Carlo Hautmann, nell’evocare il Botticelli (“L’intero dipinto si sviluppa nella più tipica e meravigliosa linea del maestro”), ha notato richiami anche alla Madonna del Magnificat degli Uffizi (1481 ca.), come pensa pure Kurt Steinbart, che vi affianca anche la Nascita di Venere sempre degli Uffizi (1484 ca.) rilevando che nel quadro elvetico (dichiarato “un chiaro e indiscutibile lavoro di Botticelli”) l’artista
“ha già raggiunto un’evoluzione dalla classica maniera gotica di Fra Filippo Lippi e dall’influenza scultorea del Verrocchio”, e concludendo che “L’intera composizione si svolge in un continuo ed elegante ritmo senza interruzione e senza pausa, raggiungendo un pathos altamente solenne, che allo stesso tempo è dolce e mistico”.
Bottari, dal canto suo, confessa nel suo studio privato:
“credo non ci siano dubbi che la composizione, nella sua semplice e luminosa intonazione, deve essere attribuita a Sandro Botticelli; anche l’esecuzione è sostanzialmente sua, anche se all’interno dell’abbagliante integrità del complesso vi sono delle mancanze di continuità […] Le suggestioni di una veduta romana, la semplicità della composizione, l’essenzialità di tutti gli elementi e alcune inflessioni che vediamo all’interno del ritmo ben definito, rendono probabile che il dipinto fu realizzato quando l’artista era impegnato a Roma nel suo ben noto lavoro alla Cappella Sistina”.
Tale cronologia (che giustificherebbe il nome di Madonna di Castel Sant’Angelo che fa capolino sul verso della tavola) sarebbe consolidata da quanto Antonio Billi scrisse nel 1516 nel Petri Code (a Roma Botticelli “fecie più quadri di cose pichole”) e da quanto asserito dall’Anonimo Gaddiano, per il quale l’artista nella Città Eterna “fece tre affreschi e poi alcune opere (dipinte su tavola) che sono davvero splendide”.
D’altro canto, l’apparente contrasto tra una datazione sul finire del secolo e la raffigurazione di Castel Sant’Angelo viene da Longhi risolto osservando che
“Ben vero che il Botticelli era stato a Roma nel 1481-82 per i noti affreschi della Sistina; ma l’opera, come s’è detto, appartiene a più di un decennio dopo. D’altronde in parecchi casi il pittore usa nei fondi siffatte anomalie; molte vedute di città sembrano tratte piuttosto da città nordiche che da Firenze, che non appare che rarissimamente. Occorre dunque ammettere che per questo sfondo con Castel Sant’Angelo il Botticelli si sia valso di un suo probabile taccuino di appunti romani”.
La cronologia più tarda sarebbe inoltre rafforzata, secondo il parere dello stesso Longhi, da un quadro che deriverebbe da questo, la Madonna col Bambino e san Giovannino (1490-95), allora in collezione Rockefeller di New York (poi passata a Tokyo e nel 2013 venduta a un’asta Christie’s per circa 10 milioni di dollari – fig. 6), che parte della critica attribuisce a Botticelli e bottega[10].
Alla Madonna già Rockefeller aggiungerei anche la Madonna col Bambino e santa Caterina (o Nozze mistiche di santa Caterina) della collezione Bass di Miami Beach (1495 ca., opera di collaborazione o della bottega – fig. 7)[11], il Frammento di Adorazione dei Magi già in collezione Simon a Berlino (1490-95, di bottega – fig. 8)[12], e in parte la Madonna col Bambino del Metropolitan Museum di New York (1490-1495, opera di bottega – fig. 9)[13].
Contemplando questi dipinti si intuisce l’esistenza alla fonte di un prototipo autografo, specie guardando il gruppo della Madonna con Gesù, dove la figura di quest’ultimo è praticamente identica, facendo presumere l’utilizzo di uno stesso cartone (ipotesi che trova riscontro in un’ulteriore versione segnalata presso Colnaghi di Londra, poi passata in collezione Esk[14]), mentre le diverse versioni si distinguono iconograficamente dal prototipo oggi in Svizzera: la tavola di Miami Beach, che pure mantiene il loggiato sul fondo, per la presenza di santa Caterina al posto del frate francescano (indispensabile invece nell’originale già Bartolini vista la destinazione chiesastica indicata dal Vasari); la tavola già Rockefeller per la presenza, sempre al posto del monaco, del piccolo Giovanni Battista; la variante del Metropolitan riprende invece dal prototipo la figura della Vergine e la veduta di Castel Sant’Angelo.
Questo scenario, infine, viene a mio avviso definitivamente corroborato dalla Sacra Famiglia e un re Magio (Cambridge, Fitzwilliam Museum – fig. 10),
parte di un cartone preparato dal Botticelli per l’Adorazione dei Magi (Firenze, Galleria degli Uffizi, depositi, 1500 ca. – fig. 11) da lui impostata e lasciata incompiuta[15].
La tavola svizzera è in eccellente stato di conservazione[16]. Il tipo di crettatura e i risultati degli esami scientifici effettuati a Zurigo nel 1996 sui materiali impiegati sono coerenti con l’assegnazione a Botticelli della Madonna di Montevarchi, tale sembra ora il nome più consono da dare a questo straordinario capolavoro, che qui si pubblica per la prima volta in una rivista d’arte e si sottopone, come giusto, al giudizio degli addetti ai lavori.
Fabio SCALETTI Milano 12 Marzo 2023
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