di Nica FIORI
“Filippo e Filippino Lippi. Ingegno e bizzarrie nell’arte del Rinascimento”. La mostra ai Musei Capitolini (fino al 25 agosto 2024)
“O Prato, o Prato, ombra dei dì perduti, / chiusa città, forte nella memoria, / ove al fanciul compiacquero la Gloria / e la figliuola di Francesco Buti!”.
Nell’incipit di questo sonetto di Gabriele d’Annunzio, il primo dei quattordici da lui dedicati a Prato (la città toscana dove fu convittore per sette anni nel collegio “Cicognini”), egli ricorda Lucrezia Buti, la giovanissima monaca fuggita dal convento pratese di Santa Margherita, perché sedotta dal frate carmelitano, nonché pittore, Filippo Lippi (Firenze 1406 – Spoleto 1469), che la ritrasse inizialmente nelle fattezze della Santa titolare del convento, e in seguito in alcune Madonne e probabilmente nella Salomé danzante nel grande affresco raffigurante il Convito di Erode nella pieve di Santo Stefano (poi duomo) di Prato. Quella fanciulla del Quattrocento appariva al fantasioso D’Annunzio talmente voluttuosa da spingerlo ad autodefinirsi in una nota favilla rievocativa degli anni pratesi il suo “secondo amante”.
Il primo amante era stato ovviamente fra’ Filippo, grande protagonista della pittura quattrocentesca fiorentina, le cui vicende terrene lo fanno apparire alquanto licenzioso, e non solo per la scandalosa fuga d’amore con Lucrezia, dalla quale ebbe nel 1457
“un figliol maschio, che fu chiamato Filippo egli ancora, e fu poi come il padre, molto eccellente e famoso pittore”,
come racconta Giorgio Vasari (Vite, 1568). Grazie all’intercessione della famiglia Medici, papa Pio II concesse ai due amanti nel 1461 lo scioglimento dei voti, ma il pittore non sposò mai Lucrezia, dalla quale ebbe pure una figlia, perché preferiva fare “di sé e dell’appetito suo” come gli pareva.
Nonostante la vita irrequieta di Filippo Lippi, la grandezza della sua arte non sarà mai messa in dubbio, come testimonia l’apprezzamento del Vasari a proposito degli affreschi nella pieve di Santo Stefano di Prato, ai quali lavorò, pur con diverse interruzioni, dal 1452 al 1465:
“Fece in questo lavoro le figure maggiori del vivo, dove introdusse poi negli altri artefici moderni il modo di dar grandezza, alla maniera d’oggi”.
Cosimo il Vecchio ammirava talmente la pittura del frate da riuscire a sopportare i suoi anomali comportamenti. Narra sempre il Vasari che un giorno Cosimo, spazientito per i continui ritardi, chiudesse il frate nel Palazzo di via Larga con l’intento di fargli finire un lavoro. Ma dopo due giorni il Lippi,
“spinto da furore amoroso, anzi bestiale, una sera con un paio di forbici fece alcune liste de’ lenzuoli del letto, e da una finestra calatosi, attese per molti giorni a’ suoi piaceri”.
Per evitare di perderlo, Cosimo gli diede da quel momento in poi ampia libertà e “così da lui fu servito con più prestezza, dicendo egli che l’eccellenze degli ingegni rari sono forme celesti e non asini vetturini”.
Forse è proprio a quel suo essere particolarmente sensibile alla bellezza femminile che fra’ Filipo deve l’immagine seducente delle sue donne e madonne, ma non bisogna credere per questo che nelle sue opere ci sia il segno di uno spirito irreligioso, perché vi troviamo, al contrario, l’espressione di una poetica religiosità, che traspare nell’umanità delle figure fanciullesche, a partire dal Bambin Gesù e da alcuni angeli colti in atteggiamenti molto naturali e talvolta buffi.
Alcune opere di grande interesse per capire l’evoluzione dello stile pittorico dell’artista sono in mostra a Roma, a Palazzo Caffarelli (Musei Capitolini), in un inedito confronto con le opere del figlio Filippino (Prato 1457-Firenze 1504) nella mostra “Filippo e Filippino Lippi. Ingegno e bizzarrie nell’arte del Rinascimento”, promossa dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e organizzata da Associazione MetaMorfosi, in collaborazione con Zètema Progetto Cultura.
L’esposizione, a cura di Claudia La Malfa, evidenzia, attraverso una selezione di dipinti, disegni e documenti d’archivio il talento dei due pittori, la cui storia si dipana tra la Firenze medicea e la Roma dei papi.
Come ha sottolineato l’assessore alla cultura di Roma Capitale Miguel Gotor nel corso della presentazione:
“La carriera dei due Lippi, delineata da questa mostra, mette bene in luce il ruolo che la politica giocò nel Rinascimento nella promozione delle arti. Esemplare è in questo senso il ruolo di casa Medici nella vita dei due Lippi. Più che a Cosimo il Vecchio non sfuggiva a suo nipote Lorenzo il Magnifico, così come ai papi romani, il potere che avevano le arti di consolidare il prestigio, nell’economia dell’Italia delle corti. Il loro mecenatismo non si limitava solo a sostenere gli artisti per il talento, ma comprendeva anche la promozione presso altre potenze italiane ed europee di cui questa bella mostra e il suo catalogo danno conto”.
Fu proprio Lorenzo il Magnifico a suggerire il nome di Filippino Lippi al cardinale Oliviero Carafa per decorare la sua cappella nella basilica romana di Santa Maria sopra Minerva, i cui affreschi sono in parte proposti in mostra con gigantografie in digitale retroilluminate nell’ultima sala espositiva. Ovviamente le fotografie sono solo uno stimolo per completare la conoscenza diretta dell’arte di Filippino Lippi nella chiesa romana, che dista solo pochi minuti dalla sede della mostra.
Dal percorso espositivo ci si rende così conto degli sviluppi, delle mutazioni e delle evoluzioni della pittura fiorentina del Quattrocento, in concomitanza con le vicende storiche della Firenze dei Medici. Se Filippo rappresenta il primo Rinascimento, quello dell’età di Cosimo, i dipinti di Filippino vanno inquadrati nella Signoria di Lorenzo il Magnifico e paiono annunciare con la loro inquietudine ed esasperazione espressiva il clima rivoluzionario dovuto alle prediche di Girolamo Savonarola.
Nelle opere in mostra, esposte in sequenza cronologica, ci colpisce il tocco di immediatezza espressiva e di vigore popolare che caratterizza i dipinti giovanili di Filippo Lippi, la cui prima attività si è svolta all’ombra di Masaccio. In effetti Filippo, che aveva preso i voti nel 1421, viveva al Carmine, dove ebbe modo di vedere Masaccio all’opera mentre affrescava la Cappella Brancacci. Da Masaccio il Lippi apprese i rudimenti della pittura di colore, di luci e di volumi, ma soprattutto una certa idea monumentale delle immagini votive, che traevano la forza spirituale da una narrazione quanto più vicina possibile al vero, al quotidiano e alla mondanità del creato.
La Madonna Trivulzio, un prestito dal Castello Sforzesco di Milano, è una tempera su tavola (a spioventi) trasportata su tela, databile alla fine degli anni Venti del XV secolo. Nel dipinto la Vergine Maria è seduta con il Bambino su un prato fiorito, con quattro frati carmelitani dalle facce fanciullesche e due cantori. Ai lati del gruppo troviamo Sant’Alberto con il giglio bianco in mano, Sant’Angelo, con la spada che gli fende la testa a rappresentare il suo martirio, e Sant’Angela, una delle prime sante dell’ordine monastico della Vergine Maria del Monte Carmelo. Il piccolo Gesù indossa una veste rossa e si protende in avanti per cogliere una rosa senza spine, simbolo della purezza della Vergine del Carmelo. I giovani carmelitani sono figure rese vive da una luce che si distende sulle superfici delle tonache e che accende i loro volti pieni di vivacità.
Nel corso degli anni Trenta del Quattrocento Filippo Lippi elabora un suo stile che risente delle novità introdotte a Firenze da Donatello e da Brunelleschi. La prospettiva, che egli aveva visto nell’opera di Masaccio e che aveva sperimentato empiricamente nelle proprie prove giovanili, diventa geometrica, i colori virano su tonalità più drammatiche, le vesti raffigurano il movimento dell’aria, che le fa vibrare di luce e di grazia con toni cangianti costruiti da ombre scure.
Una tavola di modeste dimensioni ma di grande potenza drammatica, probabilmente dipinta nei primi anni Trenta, raffigura Cristo morto sostenuto dalla Vergine Maria e da San Giovanni Evangelista (tempera su tavola, Milano, Museo Poldi Pezzoli). La dimensione terrena è rappresentata dall’orrido paesaggio naturale, nel quale la grotta in cui verrà deposto il corpo di Cristo sembra la bocca dell’Inferno pronta a inghiottire i peccatori.
Dello stesso periodo cronologico è La Madonna con angeli, santi e committente (tempera e oro su tavola, Collezione Cini, Venezia), realizzata per la devozione privata. Il committente è raffigurato in basso, accolto da un carmelitano, mentre la Madonna è un po’ al di sopra, al centro di un’architettura dipinta con elementi classici, tra numerosi santi e due angeli musicanti. Si appoggiano al trono di Maria in modo goffo e noncurante tre frati carmelitani dai corpi e dai volti di bambini, mentre Gesù è in piedi, in una posa informale.
Il doppio registro, ufficiale e privato, della produzione pittorica del Lippi si propone in mostra anche mediante l’accostamento di due piccole tavole della Galleria degli Uffizi, raramente esposte al pubblico, raffiguranti l’Annunciazione della Vergine e i Santi Antonio Abate e Giovanni Battista, con due tavole di grandi dimensioni raffiguranti a sinistra i Santi Agostino e Ambrogio e a destra Gregorio e Girolamo, provenienti dalla Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Torino, che originariamente formavano i laterali di un trittico (1435-1437), la cui parte centrale era probabilmente la Vergine con il Bambino, attualmente conservata al Metropolitan Museum di New York. Questi quattro santi evocano la monumentale figura di San Ludovico da Tolosa realizzata da Donatello in bronzo dorato negli anni Venti del Quattrocento per la nicchia della Parte Guelfa a Orsanmichele. Il ricordo del grande scultore è esplicito non solo nella monumentale dimensione delle figure, ma anche nel modo in cui la luce si posa sui volti dei santi, luce che ha la stessa natura metallica di quella che si riflette sulla superficie del bronzo.
La sezione di dipinti di Filippo Lippi è corredata da un nucleo di documenti provenienti dagli archivi di Firenze e di Spoleto. In essi non solo emerge la rete di contatti del pittore, ma è anche narrata, con una certa ironia, la storia del rapimento di Lucrezia Buti dal convento di Prato, la fuga d’amore e la nascita del figlio Filippino.
Nella seconda parte del percorso espositivo una selezione di importanti disegni, concessi in prestito dagli Uffizi di Firenze e dall’Istituto Centrale per la Grafica di Roma, evidenziano il debito di Filippino Lippi, oltre che con il padre, suo primo maestro, anche con Sandro Botticelli. Infatti, alla morte di Filippo, avvenuta mentre lavorava agli affreschi della tribuna del duomo di Spoleto, Filippino aveva solo dodici anni e, pertanto, proseguì la sua formazione con Botticelli, che a sua volta era stato allievo di Fra’ Filippo. Questa relazione tra Botticelli e i due Lippi spiega una certa uniformità di linguaggio stilistico che si manifesta nella pittura fiorentina del Quattrocento, pur nella peculiarità espressiva di ciascuno di loro.
Nel 1481 Filippino è a Firenze dove si iscrive alla Confraternita di San Paolo, alla quale sono associati i pittori Domenico Ghirlandaio e suo fratello Davide, come pure Lorenzo de’ Medici e il poeta Angelo Poliziano, con i quali intratterrà rapporti di lavoro. Filippino studia la figura umana nella verosimiglianza dei gesti, dei volti e delle pose, e nel dinamismo delle azioni, dimostrando di essere uno dei massimi interpreti di Leonardo da Vinci.
Nei primi anni Ottanta del Quattrocento Filippino riceve l’incarico di completare gli affreschi della Cappella Brancacci al Carmine, che tanta importanza avevano avuto sulla formazione di suo padre Filippo. Arrivano poi gli incarichi importanti, per lo più pale d’altare per varie città.
Di altissima qualità sono i tondi realizzati per il Palazzo Comunale di San Gimignano, che sono stati restaurati in occasione di questa mostra. Essi raffigurano l’Angelo Annunciante e la Vergine Annunciata (tempera su tavola, 1483-1484, Museo Civico di San Gimignano), resi con uno stile maturo caratterizzato da preziosi colorismi e trasparenze. La casa di Maria è inondata da una fonte di luce naturale, che entra dalla grande porta che guarda verso il paesaggio, e da una piccola finestra alle sue spalle a destra, ma la luce in realtà è quella divina che entra alle spalle dell’angelo sulla sinistra del tondo, attraversa il mondo reale e illumina il volto, le mani e gli oggetti del vivere quotidiano della Madonna.
Tra le opere esposte ci colpisce anche la Morte di Lucrezia (1475-1480, olio su tavola cm 42 x 126, Firenze, Gallerie degli Uffizi), raffigurante l’episodio del suicidio della matrona romana in seguito alla violenza di Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo. In questo caso la storia è divisa in tre parti entro un’ambientazione caratterizzata da astratte geometrie architettoniche.
Nel 1487 Filippino riceve la commissione da parte del potente banchiere Filippo Strozzi per la Cappella Strozzi in Santa Maria Novella a Firenze, ma un anno dopo deve interrompere i lavori, perché chiamato a Roma dal cardinale Oliviero Carafa per dipingere la sua monumentale cappella privata nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva. L’esperienza romana segna un’ulteriore tappa nell’invenzione figurativa di Filippino e il fascino delle antichità lo condurrà verso una pittura piena di capricci e bizzarrie, come dimostrerà anche negli affreschi fiorentini. Del resto egli fu tra i primi pittori a calarsi nelle “grotte” del Colle Oppio (ovvero gli ambienti della Domus Aurea di Nerone) e a riprodurre le grottesche che proprio da quegli ambienti trassero il nome.
Negli affreschi della Cappella Carafa possiamo individuare diverse citazioni dell’antico che egli ha inserito nel suo lavoro.
Sulla parte superiore della parete principale, alle spalle dell’altare, è raffigurata l’Assunzione della Vergine (con uno spettacolare contorno di angeli musicanti) e al di sotto, all’interno di una cornice di marmo, l’Annunciazione, premessa di ciò che è dipinto in alto. Con un sofisticato gioco illusionistico, il corridoio con la volta a botte, dipinto nell’Annunciazione, richiama la volta di un cubicolo segreto adiacente alla Cappella Carafa, decorata a grottesche ispirate ai soffitti della Domus Aurea.
Nella lunetta a destra dell’altare è raffigurato il Miracolo del Crocifisso. In questa scena il bambino che gioca col cane è ispirato alla statua classica Fanciullo che gioca con l’anatra.
Una finta trabeazione dipinta con un fregio all’antica, tratto da quello che nel XV secolo si trovava nella basilica di San Lorenzo (oggi conservato nei Musei Capitolini), divide la lunetta dal riquadro in basso, dove è dipinta la Disputa di San Tommaso in Cattedra.
In questa scena Tommaso d’Aquino, seduto entro una nicchia sormontata da una conchiglia, schiaccia la personificazione dell’Eresia, il cui aspetto è preso dalla Statua di Re barbaro prigioniero, oggi nel cortile del Palazzo dei Conservatori ai Musei Capitolini.
Il cartiglio nella mano del barbaro recita: Sapientia vincit malitiam – “La sapienza vince la malizia”, mentre sul libro di Tommaso si legge una frase di san Paolo: Sapientiam sapientium perdam (“Distruggerò la sapienza dei sapienti”, Cor. I.19). Ai lati del santo siedono le personificazioni della Filosofia, della Teologia, della Dialettica e della Grammatica, al di sotto vi è un consesso di studiosi che discute sulle eresie, rappresentate da bizzarri personaggi vestiti all’orientale e all’antica.
Sullo sfondo a sinistra vi è una veduta di Roma in cui appare la Statua equestre di Marco Aurelio, all’epoca collocata davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano, prima del suo spostamento nel 1538 nella piazza del Campidoglio.
Tra le opere dell’ultimo periodo di Filippino, oltre agli affreschi della Cappella Strozzi, terminati nel 1502, mi piace ricordare un’opera legata alla città dove era nato. Si tratta del Tabernacolo affrescato del Mercatale, eseguito nel 1498, che era collocato, come testimonia anche Vasari, “sul canto a Mercatale…dirimpetto alle monache di Santa Margherita”, ossia il monastero in cui il padre aveva incontrato Lucrezia Buti. Anche questa volta D’Annunzio si è lasciato avvincere dai suoi ricordi nel V dei suoi già citati sonetti dedicati a Prato:
“Filippino, in sul canto a Mercatale / quante volte intravidi pe’ razzanti / vetri del Tabernacolo i tuoi Santi / come i fiori d’un orto angelicale! / Fiori tu désti alla città natale: / freschi petali i volti, aiuole i manti. (…)”.
Nica FIORI Roma 19 ,maggio 2024
“Filippo e Filippino Lippi. Ingegno e bizzarrie nell’arte del Rinascimento”
Musei Capitolini – Palazzo Caffarelli, Piazza del Campidoglio 1
15 maggio – 25 agosto 2024
Orario: tutti i giorni ore 9,30 – 19,30. Info: tel. 060608 www.museicapitolini.org