di Antonio GASBARRINI
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo saggio di Antonio Gasbarrini che riprende il tema dell’identità del misterioso amico che compare nel Doppio Ritratto di Raffaello, oggi al Louvre, sollevato da un articolo Franco Luccichenti e che ha fatto molto discutere.
Antonio Gasbarrini, giornalista, critico d’arte e saggista, si è laureato all’Università di Roma. Ha collaborato, a contratto, con l’Università G. d’Annunzio di Pescara. Ha diretto, a L’Aquila, il Centro Arti Visive “Officina Culturale ’77″ e il Centro Documentazione Artepoesia Contemporanea “Angelus Novus” con sede nella stessa città (attualmente inagibile a causa del sisma del 2009), della cui casa editrice è stato direttore editoriale. Ha fondato e diretto varie riviste d’arte e per circa un quindicennio (1997-2010) la rivista internazionale di studi comparati e ricerche sulle avanguardie, Berenice e Inism magazine on line. Studioso delle avanguardie storiche e neo (con originali contributi saggistici sul Futurismo, Lettrismo, Situazionismo e Fluxus) ha approfondito con una serie di innovativi scritti i rinsaldati rapporti tra Arte e Scienza; è stato curatore in mostre personali, di gruppo e rassegne d’arte contemporanea. Autore di svariati saggi e pubblicazioni è autore per i tipi della casa editrice Edigrafital di Branconio dall’Aquila e Raffaello Sanzio da Urbino. Amici nella vita e nell’arte (Edigrafital, Teramo, 2005). Il volume è stato rieditato nel marzo 2020 in formato ebook Kindle Amazon.
Raffaello e Branconio nel Doppio ritratto del Louvre
Gentile Direttore,
ho letto con molto interesse il suggestivo articolo di Franco Luccichenti “L’amico di Raffaello” ( cfr. https://www.aboutartonline.com/enigmi-raffaelleschi-chi-e-lamico-nell-autoritratto-da-unacuta-osservazione-la-soluzione-di-un-rebus/ pubblicato lo scorso 18 aprile su About Art on line nel quale sostiene:
«L’amico di Raffaello è a mio parere una presenza simbolica e non una persona reale. Nessuno ne troverà mai il nome».
Al riguardo mi preme rilevare che il sentiero storiografico e iconografico che personalmente ho seguito mi ha portato invece a concludere che al Doppio ritratto può darsi un nome più che probabile: Giovan Battista Branconio “aquilanus”. Amico fraterno dell’urbinate e suo esecutore testamentario insieme a Baldassarre Turini, ha legato il suo nome a ben due altre opere di Raffaello attualmente esposte anch’esse alle Scuderie del Quirinale (La Visitazione e il Progetto architettonico per Palazzo Branconio), nonché all’affresco non più esistente dell’Elefante Annone.
Gli elementi probatori di una tale individuazione, sostenuta oltre che da storici di rango quali Chistoph Luitpold Frommel e John Shearman – peraltro condivisa nella scheda critica del catalogo relativo alla mostra allestita al parigino Grand Palais agli inizi degli anni Ottanta – sono stati rafforzati con i risultati di una serie di ricerche da me condotte in vari musei e biblioteche italiane ed europee confluiti nella stesura del capitolo “Il Doppio ritratto del Louvre” del mio libro “Branconio e Raffaello. Amici nella vita e per l’arte”.
Uscito in edizione cartacea nel 2005 con presentazione dello storico dell’arte Claudio Strinati, il libro è stato da poco ripubblicato in formato ebook kindle Amazon, nella coedizione di One Group e Angelus Novus. Nel testo che segue, per ragioni di spazio e di copyright, sono riproposte solo 10 delle 25 immagini dei numerosi riscontri iconografici a supporto della tesi sostenuta e sono omesse le numerose note chiarificatrici che figurano nel libro.
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Se è data per certa dal Frommel (1982), ed è prima sostenuta, ma poi in parte ridimensionata dallo Shearman (1982 e 1992), l’identificazione del più che probabile ritratto di Giovan Battista Branconio affiancato a quello dell’urbinate nel dipinto del Louvre Raffaello e un amico (o Doppio ritratto (fig. 1) che dir si voglia, meglio conosciuto con il titolo Raffaello e il suo maestro d’armi), ha posto e continua a porre agli storici d’arte una serie d’interrogativi, in parte sciolti con l’avanzare degli studi specialistici dedicati ad una delle più alte vette raggiunte dall’arte raffaelliana.
Interrogativi cominciati dall’attribuzione del dipinto, in una prima fase assegnato agli inizi del XVII secolo subito al Pordenone e poi al Pontormo, presunti autori dello stesso, autoeffigiatisi con Raffaello. L’attribuzione definitiva al Sanzio si deve finalmente a Le Brun (1683), mentre per quanto riguarda la data di esecuzione, la più accreditata è quella dell’ultima produzione, e pertanto tra il 1518 ed il 1520, biennio coincidente, tra l’altro, con l’elaborazione del progetto architettonico di Raffaello per “casa Branconio” ultimata nello stesso anno (il palazzo recava nel fregio la data del 1520) in cui il Maestro moriva.
Una serie di “pesanti” interventi sulla tela, hanno modificato, nel corso dei secoli, sia le dimensioni (con ingrandimenti e successive riduzioni: le misure attuali sono di 98×83 cm.; le dimensioni originali dovevano essere più piccole, 94×78 cm; nell’inventario di Le Brun del 1683 sono alquanto diverse, 81×65 cm.; Paillet nel 1695 e Bailly nel 1709-10 annotano che la tela fu allargata fino a raggiungere le dimensioni di cm. 119×108; nel 1788 fu deciso di riportare il dipinto alla sua grandezza primitiva) che lo stesso impianto formale, alquanto divergente – rispetto all’originale del Louvre – in alcuni “d’après” attualmente presenti a Parigi (incisione di Nicolas IV de Larmessin, Bibliothèque Nationale de France, Cabinet des Estampes), Rotterdam (disegno di Jan de Bisschop, Museum Boijmans Van Beuningen), ed in altre raccolte pubbliche.
Perché propendere per il ritratto di Giovan Battista Branconio (dato per certo e «raffigurato per amicizia e devozione», Frommel) e non Pinturicchio, Castiglione, Aretino, Giovanni da Udine … ? La nostra attenzione, finalizzata al rafforzamento della “tesi branconiana”, sarà concentrata sul confronto tra la tela del Louvre ed i “d’après” di Jan de Bisschop e di Nicolas IV di Larmessin.
Già lo Shearman, nel sostenere l’identificazione dell’amico di Raffaello con Branconio manifestata al convegno su “Raffaello architetto” tenutasi a Roma nel 1984, ha affermato: «La figura in primo piano con la spada “Il maestro di scherma di Raffaello” nelle descrizioni popolari a partire dal XVIII secolo, è passata volta a volta per Pordenone (Giorgione?), Pontormo, Pinturicchio, Castiglione, Peruzzi, Giulio, Polidoro e Aretino; nessuna di queste identificazioni sopravvive al confronto con le sembianze documentate. Avanzerei l’ipotesi che il committente e primo proprietario dell’opera del dipinto sia Giovanni Battista Branconio dell’Aquila. L’ipotesi si fonda in prima istanza sull’anonimo busto, dei primi del XVII secolo, sulla tomba di Giovanni Battista nella cappella Branconio a l’Aquila (Fig.2):
la somiglianza fa pensare che il busto sia basato sul ritratto del Louvre o una sua copia; secondariamente questa identificazione, a differenza delle altre finora avanzate, è adeguata alla posizione psicologica e sociale della figura in questione, che è chiaramente un amico intimo e pari dell’artista, un gentiluomo e non molto lontano da lui per età».
Le principali obiezioni sull’abbigliamento dell’amico, il taglio della barba, e soprattutto la differenza d’età (10 anni) tra Raffaello e Branconio possono essere validamente contrastate se a fondamento dell’ipotesi dello Shearman si pone a raffronto, com’è stato poi suggerito da alcuni studiosi, il disegno di Jan de Bisschop ed il busto marmoreo nella cappella di famiglia, alla chiesa di S. Silvestro all’Aquila (fig. 3) fatto erigere nel 1625 nel presunto centenario della morte di Giovan Battista (che è avvenuta invece, sulla base delle ricerche d’archivio a suo tempo condotte da Luigi Rivera, nel 1522) dal nipote Girolamo, abate di S. Clemente a Casauria.
La sorprendente somiglianza somatica tra la tela ed il marmo è puntualmente rilevata nella scheda critica stesa per Raphaël et un ami, nel catalogo della mostra raffaellesca tenuta al Grand Palais di Parigi nell’ ’83-’84: «Le buste anonyme et posthume de Branconio dans la chapelle funéraire de San Silvestro à L’Aquila ne contredit pas cette identification: même chevelure crepue, même dessins des sourcils, même yeux largement ouverts, seule la barbe paraît plus fournie sur le tableau du Louvre et différement taillée. Cependant cette partie du tableau a été trop restaurée sur les usures: sur la copie dessinée de Jan de Bisshop [sic] (Rotterdam, Musée Boymans) la barbe ressemble à celle du buste (figg.4-5-6). Il disegno di Jean de Bishop ridimensiona l’obiezione fatta allo Shearman sull’età dei due
personaggi: qui, l’amico di Raffaello (che si è deliberatamente “autoinvecchiato”), mostra molti anni di più di quanto non appaia nella tela del Louvre, prima dei tanti restauri che hanno avuto, come risultato finale, una sorta di falsificante romanticizzazione degli effigiati (si confrontino in modo particolare, colore e taglio di barba e capelli sia di Raffaello, che dell’amico). Anche le forti riserve del Gould sull’identificazione della figura in Branconio (ricondotta invece dallo studioso a Pietro Aretino), oltre che sull’età, si basano sul fatto che l’aquilano sia stato un prete, e pertanto non poteva essere vestito o rappresentato in modo poco ufficiale così come avviene nel dipinto.
Ebbene, anche in questo caso, l’alquanto “laicizzato” busto marmoreo dell’Aquila contraddice in buona sostanza queste perentorie affermazioni, mentre il sorriso dell’amico nel Doppio ritratto potrebbe alludere proprio al riuscito camuffamento (ringiovanimento e travestimento).
Quanto all’elsa della spada, che ha “suggerito” per moltissimi anni il deviante titolo Raphaël et son maître d’armes, abbandonato poi per il più generico ma pertinente Autoportrait avec un ami, interessanti ci sembrano queste argomentazioni:
«l’ami désigne-t-il a Raphaël quelque chose ou quelqu’un?… ou bien s’apprête-t-il à saisir son épée pour défendre son ami si attaqué dans toute cette période?».
Ebbene, se lo Shearman mette in discussione la sua precedente ipotesi di Branconio nel 1992, giacché: «l’identificazione dell’amico, che serve da intermediario tra Raffaello ed “un altro amico nella nostra situazione”, sfugge ai critici moderni», la materia del contendere viene a cambiare natura se la scena “interna” della tela del Louvre, si apre ad un’ambientazione “esterna” come di fatto avviene nella corretta grafica di Le Fort e nell’incisione al “rovescio” di Nicolas IV de Larmessin pubblicata da Crozat: «Bien après l’inventaire de le Brun, Paillet (1695) et Bailly (1709) notent que le tableau fut allongé de «9 pouces et demi » et élargi de «11 pouces» pour arriver aux dimensions suivantes «3 pieds et 8 pouces sur 3 pieds et 4 pouces [119 x 107 cm., NdA]». La version agrandie du portrait apparaît sur une gravure de Nicolas IV de Larmessin, datée de 1729, figurant dans le Recueil Crozat (1729-1742, I, nº 9), qui montre la composition (inversée) avec l’ajout d’un parapet devant les personages et d’une colonne sur la gauche».
Non conosciamo le prove (documentali o d’altro tipo), avallanti quest’interpretazione, e cioè l’aggiunta dei dettagli architettonici effettuata in concomitanza dell’allargamento della tela: le manipolazioni subite ed i restauri effettuati hanno alterato, e di molto, i connotati cromatici e grafici originari. Nella nostra ricerca siamo quindi stati “costretti” ad esaminare – anche se in modo sommario – alcune radiografie del quadro disponibili al Centre de Recherche et de Restauration des Musées de France.
In queste, il pathos di Raffaello è molto più accentuato di quanto non appaia sulla tela, mentre il volto dell’“amico” ha un’espressione di sorpresa, anziché quella di un amicale sorriso. C’è di più. Sulla destra dell’amico sembra affiorare, anche se prospetticamente più ravvicinata, una colonna, mentre sullo sfondo potrebbe individuarsi anche uno scorcio paesaggistico. In attesa che studi specialistici confermino questa provvisoria diagnostica, resta un dato di fatto: nelle repliche del dipinto “più scenografico” la mano dell’amico si protende, sopra un parapetto, verso l’esterno, mentre alla sua destra sembra stagliarsi una colonna.
A questo punto del nostro ragionamento non è difficile chiamare in causa le logge vaticane ed il loggiato di Palazzo Branconio. Nel percorso alternativo che stiamo battendo, rispetto a quello più familiare, ci aiutano alcune considerazioni di Pier Nicola Pagliara: «Nel 1518 Giovan Battista Branconio dell’Aquila, cortigiano di Leone X, dispone ormai di consistenti entrate annue assicurategli da numerosi benefici ecclesiastici e da altre rendite e può decidere di costruirsi un’abitazione confacente al suo rango. A tal fine sceglie un terreno visibile dalle logge del palazzo papale nel tratto appena ultimato di Borgo Nuovo, quello più vicino a S. Pietro, terreno che gli è concesso in enfiteusi il 30 agosto 1518 dal Priorato dei Cavalieri di Rodi», loggiato iniziato dal Bramante e completato da Raffaello, il cui aspetto originario, alquanto diverso dall’attuale, è visibile nella pressoché coeva Veduta delle Logge Vaticane (1534-1535) di Marten van Heemskerck, ora all’Albertina di Vienna.
Dalla predetta loggia l’amico di Raffaello potrebbe indicare, di conseguenza, non una persona, com’è stato finora condiviso da tutti gli specialisti, ma un oggetto: il Palazzo Branconio appena ultimato o in via di ultimazione. Non può farsi a meno di evidenziare un particolare architettonico significativo: anche Palazzo Branconio (fig.7) , come si leggerà oltre, aveva un suo loggiato nel cortile, e ciò può ben vedersi dal “rilievo in prospetto del fronte settentrionale di Palazzo Branconio, con loggia del cortile e sezione delle pareti laterali” (anonimo italiano del XVI secolo, Firenze, Biblioteca Nazionale, M. s. II-429, f 4 v).
Nel caso specifico sorprende una sostanziale coincidenza iconografica (senz’altro casuale) tra le due figure delle incisioni in questione e quelle stilizzate dall’anonimo italiano (questa volta un uomo barbuto avvolto in un mantello, molto probabilmente un prelato seduto, ripreso frontalmente, ed una figurina stilizzata sulla sua destra, ripresa di fianco). Senz’altro suggestiva, ma bisognevole di convalide provenienti da ulteriori approfondimenti scientifici da parte di studiosi e storici d’arte (in primis un più adeguato esame radiografico rispetto al nostro o altro procedimento d’indagine capace d’individuare le correlazioni esistenti tra la tela del Louvre ed i “d’après” ricordati sopra), la suddetta ipotesi, anche se opinabile o smentibile, non farà in ogni modo venir meno l’assunto fondamentale del presente scritto: l’inossidabile amicizia tra il Sanzio ed il Branconio che proprio nel biennio 1518-20 è il committente-mecenate della Visitazione, del progetto di Palazzo Branconio e, perché no, del Doppio ritratto in questione.
Né bisogna dimenticare che in Borgo Nuovo Raffaello e Branconio erano vicini di casa, condizione ideale per sviluppare rapporti personali che troveranno la loro controprova nella nomina ad esecutore testamentario di Giovan Battista. Certamente questa amicizia si basava su ben altri valori, di stima reciproca, anzitutto, fiorita forse con la vicenda dell’affresco dell’Elefante Annone (fig. 8), ma soprattutto con la realizzazione di Palazzo Branconio, nella cui fantasmagorica facciata riccamente decorata con gli stucchi di Giovanni da Udine, marmi pregiati policromi e sculture, andavano a far convergere l’estro di Raffaello e l’ottima competenza antiquaria di Giovan Battista. Una reciproca intesa, quindi, d’impronta neo-umanistica e più largamente estetica, in sintonia con la ragguardevole posizione d’un aquilano temuto e riverito consigliere di Leone X, coinvolto (in modo certo dopo la morte di Raffaello, e non è da escludere anche precedentemente) nella direzione dei lavori delle stanze vaticane.
Questo ruolo di Giovan Battista, poco conosciuto e scarsamente approfondito dagli storici d’arte, è rilevabile da una lettera scritta da Sebastiano del Piombo a Michelangelo il 10 ottobre del 1520, nella quale gli descrive il dialogo avuto con il pontefice: «Sua Santità apprese molto benignamente, che con voi io me gli mettevo a disposizione per ogni sorta di servizio che gli piacesse; gli chiesi dei soggetti e delle misure e di tutto il resto. Sua Santità mi rispose così: Bastiano, Giovanni dell’Aquila m’ha detto che nella sala inferiore non può farsi nulla di buono in causa della volta, che vi hanno fatta, in quanto che là dove termina la volta nascono delle lunette, che vanno fino al mezzo della superficie, sulla quale devonsi fare le pitture. E poi ci sono anche le porte, che conducono alle stanze di monsignor de’ Medici. Sì che quindi non è possibile fare una pittura per ogni parete, come propriamente dovrebbe essere, mentre al contrario potrebbesi farla in ogni lunetta, essendo queste larghe 18 e 20 palmi e potendosi dar loro l’altezza necessaria. Però in una stanza così ampia quelle figure apparirebbero troppo piccole. Aggiunse ancora Sua Santità che quella sala era troppo pubblica. Indi nostro signore mi disse: Bastiano, in coscienza, non mi piace ciò che coloro fanno, né è piaciuto ad alcuno, che ha visto l’opera […]».
Va ancora rilevato, circa la competenza branconiana in materie artistiche, che negli scritti di Leonardo da Vinci risulta (c. a. 287 r. a) la seguente annotazione: «Messer Battista dell’Aquila, cameriere secreto del Papa, ha il mio libro nelle mani “de vocie”».
Tornando ancora alle fonti iconografiche del busto funerario di Branconio all’Aquila, possono combinarsi, rispetto a quelle precedenti, altre ipotesi spazianti dalla trasmissione orale sulle fattezze dell’avo da parte dei familiari, proprietari del Palazzo di Borgo Nuovo fino al 1553 (data in cui è venduto dai nipoti a Baldovino del Monte), a qualche miniatura dipinta o rilievo numismatico realizzato ad hoc direttamente da Giovan Battista, attesa la sua esperienza d’orafo.
Qualora il Doppio ritratto del Louvre sia stato nella disponibilità dell’aquilano e dei suoi eredi, altre ricerche, oltre a quelle già effettuate, vanno condotte per stabilire le modalità d’acquisizione della tela, molto probabilmente, da parte di Francesco I o dei suoi successori, atteso comunque che tra la morte di Francesco I avvenuta nel 1547 e quella di Enrico IV nel 1610, non si conosce l’inventario della collezione reale a Fontainebleau, dove, per la prima volta, è stata documentata la presenza di quest’opera. Quasi certo, è che il quadro non facesse parte del dono diplomatico effettuato nel 1518 da Leone X al re di Francia in cui figuravano diverse opere di Raffaello, come si arguisce da alcune lettere di Baldassarre Turini dirette a Goro Gheri, segretario di Lorenzo dei Medici. Dalla lettera del 7 maggio si rileva come ben 10 casse contenenti dipinti, ubicate in casa di Raffaello, dovevano essere inviate, via mare, in Francia (come effettivamente lo furono, in numero di cinque o sette).
Non conosciamo il ruolo svolto da Branconio in questa vicenda. Coinvolto in più occasioni in legazioni ed ambascerie, incontrò molto probabilmente lo stesso Francesco I. Questa notizia, del tutto sottovalutata dagli studiosi ed attinta da un passo dei manoscritti del Crispomonti (1629) («lo mandò Leone ambasciatore al re di Francia»), è stata da noi ulteriormente approfondita per riscontrarne la fondatezza. In una cinquecentina della Biblioteca Provinciale dell’Aquila, Breve descrittio di sette città illustri d’Italia di Jeronimo Pico Fonticulano – poliedrica figura di matematico, architetto, scrittore umanista, inseribile a pieno titolo tra le figure di primo piano del secondo cinquecento aquilano, ma non solo – stampata a l’Aquila nel 1582, è testualmente scritto (nella prima pagina dedicata agli «Huomini gravi e senatori»): «Jo. BaptistaBranconio cameriere secreto di Leone decimo, e suo ambasciatore al Rè di Francia» (il corsivo è dell’autore).
La fonte di quest’ultima affermazione del Fonticulano («suo ambasciatore al rè di Francia»), da ritenersi più che attendibile, può gettare una luce determinante sulle oscure modalità di acquisizione della tela raffaellesca da parte di Francesco I. Gli ulteriori più aggiornati riscontri documentali da noi rintracciati (la nomina è avvenuta con Bolla del 1517), ci hanno consentito d’ipotizzare l’effettuazione di un “dono personale” che, nel documentare visivamente mediante i due ritratti del dipinto l’amicizia tra l’urbinate e l’aquilano, veniva a conferire una maggiore capacità contrattuale all’ambasciatore Branconio sia nei confronti del re di Francia che dello stesso pontefice. Un altro particolare può avvalorare la nostra tesi: il Doppio ritratto alla pari del Ritratto di Baldassarre Castiglione (sempre al Louvre) è tra le rare opere di Raffaello dipinte su tela e non su tavola. Il che consentiva una estrema facilità nel trasporto, cosa che ad esempio non era avvenuta per la tavola de La Visitazione (fig.9) che nel suo viaggio da l’Aquila a Napoli, per essere poi trasferita a Madrid, fu portata, con tutte le precauzioni del caso, «a schiena d’homini».
Allo stato delle ricerche storiografiche sino a qui condotte, si può solo affermare con certezza di una prima inventariazione del dipinto a Fontainebleau avvenuta agli inizi del XVII secolo. Il lungo arco temporale intercorso tra questa data e quelle della morte di Raffaello e Branconio, ci fa aprire le porte ad un’altra possibilità: e cioè, quella della vendita della tela da parte degli eredi, vendita databile tra il 1522 ed il 1553 (ma anche successivamente).
Come abbiamo già sottolineato, le notevoli risorse finanziarie di cui disponeva Giovan Battista Branconio, gli consentivano d’essere committente-mecenate nei confronti di Raffaello e di realizzare contemporaneamente prestigiose abitazioni all’Aquila e Roma, riccamente arredate, con l’innato gusto e la competenza di un orafo antiquario il quale più di un suggerimento dovette dare ai vari Maestri coinvolti nella fabbrica di Borgo Nuovo e nelle stesse stanze vaticane.
Ed è ancora il Pagliara a renderci partecipi di questa assonanza: «monete e medaglie della collezione del Branconio, che stando ad una lettera di un suo amico ornavano come gemme un ambiente imprecisato del suo palazzo, possono aver ispirato alcuni dei tondi con rilievo a stucco». Una considerazione finale, legata a Raffaello ed ai suoi due amici-esecutori testamentari Branconio e Turini (fig. 10), potrebbe avvalorare ulteriormente la tesi del ritratto dell’aquilano nella tela del Louvre.
Com’è noto, l’identificazione di Raffaello nel Doppio ritratto è avvenuta, tra l’altro, ponendo a confronto la sua immagine – fortemente invecchiata rispetto all’effettiva età e molto probabilmente suggestionata dall’Autoritratto con pelliccia, del Dürer, raffiguratosi nelle vesti del Salvator mundi – con la somiglianza fisiognomica di un medaglione affrescato in Villa Lante a Roma sul Gianicolo, disegnata da Giulio Pippi (Romano) per il Turini.
È quindi accostabile un’analoga presenza dell’“amico” a Palazzo Branconio, con l’urbinate malinconico, forse già malato, ritratto a fianco dell’aquilano pieno d’energia e vitalità, in quella stupefacente torsione michelangiolesca di uno scattante e rassicurante (la metafora della spada) volto scultorizzato (si veda il parziale d’après della bella grafica di La sicurezza, tav. XXX).
La domanda, senz’altro retorica, meriterebbe da parte degli storici e degli specialisti qualche indagine in più per sciogliere uno dei più avvincenti misteri (il quadro del Louvre, appunto) dell’arte raffaelliana, in quella sorta d’instantanea fotografica ante litteram in cui il freddo taglio realistico dell’immagine è in parte attenuato dallo spleen di Raffaello, dialetticamente controbilanciato dalla rassicurante presenza dell’amico.
Sempre a proposito del Branconio e del Turini, molto interessanti sono le notizie riferiteci dal Rivera (sulla base di documenti e studi riconducibili a Raffaello ed ai due esecutori testamentari), riguardo alla vendita del Palazzo bramantesco al cardinal Pietro Accolti ed alla definizione d’alcune pendenze finanziarie del Sanzio con il duca di Ferrara il quale gli aveva commissionato un quadro versando un anticipo di cinquanta ducati.
Assai difficili furono le trattative per il recupero del credito, il cui buon esito veniva comunicato, dall’agente Enea Pio, al duca di Ferrara con una lettera del 17 gennaio 1521: «cum grandissima faticha ho habiuto li cinquanta ducati per conto di Raphaele da Urbino, perché li eredi diceano che il discto Rafaelle avea dato certe cose a v. E. et M. Jo. Batista da l’Aquila uno de’ comissarii per niente volea consentire che si pagassero».
L’episodio ricordatoci dal Campori, ripreso da Adolfo Venturi e riproposto dal Rivera si riferisce al quadro del Trionfo di Bacco in India che Raffaello s’era impegnato a dipingere, ma che, a causa dei tanti lavori intrapresi come pittore ed architetto in quel periodo, non potette mai onorare. Per lenire la contrarietà del committente (documentata da una fitta corrispondenza) e per non far venir meno i suoi favori a causa dell’inadempienza, Raffaello inviava al duca un primo cartone nel 1517 (la Battaglia di Ostia) ed altri due nel novembre dell’anno successivo (San Michele) e nel marzo del 1519 (Giovanna d’Aragona). Le resistenze alla restituzione dell’acconto (da parte degli eredi del Sanzio e dello stesso esecutore testamentario “M. Jo. Batista da l’Aquila”) dovevano scaturire dalla valutazione monetaria fatta dei predetti cartoni («li eredi diceano che il discto Rafaelle avea dato certe cose a v. E.»).
Anche in questo caso lasciamo agli specialisti il compito di approfondire la questione.
Antonio GASBARRINI L’Aquila 23 maggio 2020