di Michele CUPPONE
Una certa curiosità ha inevitabilmente suscitato la recente pubblicazione da parte di Michele Romano – al di là dell’assenza di indicazioni sulla provenienza, indispensabili per assicurarle una rilevanza sul piano scientifico – della riproduzione di un documento riferibile al soggiorno siracusano di Michelangelo Merisi da Caravaggio.(figg. 1 , 2 )
L’accademico ne ha offerto una trascrizione parziale e ha illustrato le implicazioni che la novità introdurrebbe negli studi, dando per scontata l’autenticità del ‘reperto’ benché conosciuto, è bene ricordarlo, solo in fotografia.
A stretto giro, in un mio articolo su questa stessa rivista fornivo una trascrizione integrale e riveduta del documento e ne tentavo un’esegesi più ampia specificando, tuttavia, che ne andava stabilita anzitutto l’autenticità, sulla quale nessun dubbio era stato sollevato fino a quel momento, né successivamente (vedi altro articolo su About Art e un’intervista a Romano su un’emittente locale). Avrei voluto dire di più in tal senso, ma i tempi ‘giornalistici’ – e, non trovo difficoltà ad ammetterlo, la rincorsa della notizia – hanno impedito di inserirvi ulteriori, importanti considerazioni, che qui recupero e sviluppo.
La prima cosa da ristabilire è che, quanto meno, non si può parlare di vera e propria trascrizione (del 1773-1801) da un documento del 1608 ma, semmai, della trasposizione moderna di un testo più datato che, se di fonte notarile o senatoriale, sarebbe stato scritto in latino almeno in alcuni passaggi. Che il linguaggio non sia quello dei primi del Seicento è piuttosto chiaro e qui il latino lo vediamo impiegato solo sulle congiunzioni («et»), il che è curioso, e su pochi vocaboli di facile comprensione generale come «testibus» (che compare in una posizione errata: dovrebbe stare alla fine di tutto): nulla di significativo ed è, anzi, una prima spia di possibile inaffidabilità.
D’altro canto, tenuto conto che solo nel 1679 Siracusa fu dichiarata piazza d’armi, alle soglie dello stesso secolo non era ancora così diffuso l’utilizzo di uno dei primi termini che si incontrano nella lettura, «piazza di Siracusa», da intendersi appunto in senso militaresco. (fig. 3)
Formule come «li quali spontaneamente etcaetera et con ogni meglio modo» fanno pensare a un originario atto notarile, i cui contenuti sono illustrati in un linguaggio più vicino ai nostri tempi. Che, del resto, la fonte, se (ancora) esistente, non sia da cercare tra gli atti senatoriali dovrebbe essere chiaro già dall’espressione iniziale «Codesto Senato», dove l’importante istituzione politica siracusana figura come un soggetto terzo rispetto a chi scrive.
A proposito del Senato, leggiamo che esso «dà mandato» a Caravaggio di realizzare una pittura per il «loco suddetto di Santa Lucia fori le mura» anche se, in verità, il luogo non è stato nominato in precedenza – a meno che lo fosse in una parte non ‘trascritta’. (fig. 4)
Si è tentati pertanto di identificare la committenza nel Senato che, però, forse si limitò ad autorizzare la commessa: tutta l’operazione, in realtà, risulterebbe gestita operativamente dalla «Camera», che è menzionata ben quattro volte (e sempre nella forma «tale Camera»). Non si comprende bene a cosa corrisponda tale soggetto, che non potrà essere la Camera reginale, abolita nel 1536. Si faccia caso, peraltro, che la stessa «Camera» finanziatrice dell’impresa artistica sembra corresponsabile, quasi due secoli dopo, dell’ordine vescovile di “affidare” la «scrittura» alla Deputazione di Santa Lucia (appunto sembra visto che qui, come altrove, la forma grammaticale non è impeccabile: «Tale Camera et illustrissimo et Reverendissimo et Vescovo Alagona ordina»). Si direbbe che la «Camera» sia da intendere come istituzione/organo (ancora da identificare bene), non come sua composizione specifica: quella del 1608 ovviamente non è la stessa che «ordina» sotto l’episcopato di Alagona, anche se a prima vista l’espressione «tale Camera», ripetuta sino alla fine, fa pensare al medesimo gruppo di suoi membri come soggetto principale in tutto il documento. Per concludere le riflessioni sul piano istituzionale, meraviglia quel «Reggio Senato», dicitura originale e anzi totalmente estranea al contesto aretuseo: non trova corrispondenza nel Senato cittadino, che non è mai stato appellato così, né tanto più in ambito vicereale.
Tornando alla natura della fonte e ammesso che sia di tipo notarile, si può constatare che del testo originario non apparirebbero né, come si dirà a breve, i nomi dei testimoni, né quello del notaio. Perlomeno, quest’ultimo non è indicato per esteso: resta pur sempre da indagare il significato della sigla SC inscritta nel cosiddetto segno tabellionale visibile nella prima immagine, in forma di foglia stilizzata, nell’eventualità che corrisponda alle iniziali del notaio (fig. 5). Ma nell’elenco dei “notari”, pubblicato nell’“Archivio Storico Siracusano”, tra quelli che rogarono a Siracusa tra 1608 e 1857 non ne figura nessuno con le iniziali SC (o CS). Nelle firme apposte in calce pare invece di riconoscere, rispettivamente, il nome e il cognome dei testimoni citati nell’atto, Francesco Moncada e il “giudice regio” Gaetano Abbela. È più probabile però che i due non fossero contemporanei di Caravaggio: compaiono infatti dopo le volontà del vescovo Giovanni Battista Alagona, con le quali dovrebbero cominciare le annotazioni allo scritto seicentesco. Né si comprende perché mai, nel riportare quest’ultimo, si sarebbe voluto imitarne le firme. Il fatto poi che i due nomi richiamino personaggi storici locali, il conte Francesco I Moncada (1510-1566) che fu capitano d’armi in città e il patriota Gaetano Abela (1778-1826), non giova a fugare i sospetti sull’attendibilità del documento. Di certo, a fronte dei tanti particolari riportati nel manoscritto, la mancata indicazione (per lo meno esplicita) del notaio che nel 1608 rogò l’atto originale, o comunque l’assenza di ulteriori indicazioni sulla fonte, sembra fatta apposta affinché il lettore non risalga a quest’ultima.
Mi ero chiesto se il testo si sviluppasse su una o due carte, visto che le macchie di inchiostro del supposto recto non trovano corrispondenza in quello che dovrebbe esserne il verso. La spiegazione mi giunge da nuove informazioni dirette, che ho potuto ora acquisire da chi ha avuto tra le mani l’oggetto, e che spiegano anche a cosa sia dovuto il forte ingiallimento generale che notavo nelle foto: non per l’invecchiamento della carta o per la qualità dello scatto, ma per l’insolito supporto, due pergamene (di circa 32×23 cm) utilizzate ciascuna su un lato soltanto. È davvero singolare appunto che, a cavallo fra i secoli XVIII e XIX, per conservare una copia dell’atto del 1608 si fosse adoperata la cartapecora, per di più in due distinte unità, come se, senza sforzarsi troppo nel cercare di meglio, si attinse a quanto era a portata di mano. Ma è altrettanto singolare che, a fronte di tanto interesse comunque dimostrato verso la fonte e dell’attenzione nello scegliere un materiale pregiato per riprodurla, una cura che doveva estendersi alla successiva fase di conservazione del nuovo manufatto presso la «deputazione interessata», siano poi presenti delle macchie di inchiostro. Troppo vistose, peraltro, per essere frutto di disattenzione (ovvero per non essere intenzionali), penseranno i più increduli.
Molte cose non tornano nella forma e nei contenuti. La più lampante è forse il titolo di «illustrissimo» riservato al pittore Mario Minniti: davvero eccessivo, si potrebbe dire una prova dirimente di come sia sfuggita la mano a chi abbia prodotto questo ‘facsimile’. Ho già scritto della densità di informazioni che soddisfano oltre ogni immaginazione la curiosità di chi ha studiato il soggiorno siracusano di Caravaggio e sperato che prima o poi saltasse fuori il contratto del Seppellimento di santa Lucia, tanto che si può arrivare a pensare a una burla, non del tutto riuscita (fig. 6).
Altra esagerazione appare, in tal senso, il fatto che la «Camera» potesse temere e si cautelasse in vista non di qualunque evento avverso, ma giusto di una nuova ripartenza improvvisa dell’artista. Ulteriore stranezza riguarda il termine di consegna previsto per il Seppellimento e cioè, genericamente, il mese di dicembre e non al più tardi il 13, come se, tutto sommato, per la committenza avrebbe fatto poca differenza celebrare la festività della santa patrona senza esporre la nuova pala d’altare richiesta. Altro ancora si potrebbe dire sul manoscritto, ma la cosa più eclatante resta la data. Mi riferisco non tanto alla forma (con l’anno che viene prima di tutto) e alla sua disposizione (su due righe, l’anno sopra e il giorno e il mese sotto, separate da un tratto orizzontale), ma proprio a quel 10 settembre 1608, che è incompatibile con quanto di acquisito sappiamo sull’arresto maltese di Merisi: la sua fuga, è noto sin dal 1935 ma evidentemente non a tutti, fu formalmente denunciata presso il Venerabile Consiglio dell’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni il 6 ottobre 1608. Dalla documentazione conservata non si ha conferma che l’evasione era, come deve essere stato, appena avvenuta. Ma, obbiettivamente, è arduo immaginare che tra di essa e la sua prima traccia d’archivio trascorse almeno un mese, per quanto l’allontanamento dall’isola debba essere stato agevolato e coperto da qualcuno all’interno dell’Ordine.
Non è semplice comprendere quando sarebbe stato prodotto quello che, con questi presupposti, si configura sempre più come un falso, ma in ogni caso bisogna considerare un momento successivo al 1801, anno della scomparsa del vescovo Alagona: un contraffattore, per ovvi motivi, non avrebbe mai fatto riferimento a personaggi viventi, che avrebbero reso palese l’imbroglio. È suggestivo pensare a un falso storico, realizzato magari con un preciso intento, quello di una rivendicazione da parte del Senato della proprietà della pala d’altare, tema su cui si discute ancora oggi (vedi recente articolo). Senza però avventurarsi in ipotesi più o meno creative, a ben vedere la grafia non appare tardo settecentesca né, si direbbe, ottocentesca.
È soltanto nel Novecento e in particolare dopo la grande mostra milanese del 1951 che si riscopre sempre più il genio lombardo e, parallelamente allo sviluppo della conoscenza delle sue vicende biografiche, cresce il mito e la speculazione che a esso si lega e che si è già manifestata, in particolare negli anni Novanta, nella pubblicazione di documenti inesistenti o comunque interpolati: molto probabilmente è in tempi relativamente recenti che qualcuno ha confezionato quello in oggetto.
Fonti alla mano, fino alle più trascurate, ho già dimostrato nella seconda edizione di Caravaggio a Siracusa. Un itinerario nel Seicento aretuseo come ci siano stati un generale disinteresse e disinformazione rispetto all’artista a livello locale e, in particolare, fra i secoli XVIII e XIX. Non sarà poi un caso se è soltanto nel 1960 che riemerge la biografia caravaggesca scritta attorno al 1724 da Francesco Susinno, l’unico autore cui avrebbe potuto attingere l’ignoto e piuttosto informato ideatore della doppia pergamena, per quel riferimento in essa contenuto all’intercessione di Mario Minniti presso il Senato cittadino (fig. 7). Nella pergamena accanto a Minniti appare, con analogo ruolo di ‘promotore’, Vincenzo Mirabella. Ma ammettendo per assurdo che vi sia un fondamento in quest’ultima notizia c’è da chiedersi, come è già stato osservato, come mai lo stesso Mirabella non faccia alcun cenno al Seppellimento di santa Lucia nei suoi scritti, nemmeno quando parla della sua frequentazione con Caravaggio. Suona comunque strano che in un atto formale, come doveva essere quello del 1608 e tanto più se di fonte notarile, si arrivasse a specificare un’informazione accessoria, cioè che la commissione del quadro si doveva alla «intercessione» di alcuni soggetti, esterni alla stessa committenza.
Mi si consenta a questo punto una divagazione. Sarà un caso, ma l’intera vicenda trova più punti di contatto con tre invenzioni letterarie di altrettanti scrittori siciliani, ciascuna con un fondamento di verità. Leonardo Sciascia pubblicava nel 1963 Il Consiglio d’Egitto, ispirato alla storia di don Giuseppe Vella (fig. 8). Alcune coincidenze fanno pensare: il prete (nel cui nome si ritrova una vaga assonanza con il già incontrato Gaetano Abbela), trasferitosi in Sicilia da Malta, mise in atto un grande inganno con le sue pseudo-trascrizioni dall’arabo, e ciò accadeva intorno al 1784-1788. Nel 2002, anno in cui Emidio Greco, a sua volta, traeva dal racconto sciasciano l’omonimo film, usciva il romanzo storico di Pino Di Silvestro La fuga e la sosta. Caravaggio a Siracusa, dove Vincenzo Mirabella diviene colui che ha protetto e ospitato Merisi e ha perorato la committenza del Seppellimento presso il Senato. Infine, ne Il colore del sole del 2007 Andrea Camilleri immagina, a seguito di un suo viaggio a Siracusa, di aver avuto la possibilità di trascrivere parzialmente degli scritti autografi di Caravaggio, relativi ai suoi soggiorni maltese e siciliano, che erano giunti per eredità a una lontana discendente di Mario Minniti.
Mi perdoni il lettore se solo ora presento la prova del nove, cui in effetti sono arrivato da ultimo e dopo le ‘elucubrazioni’ di cui ho voluto rendere partecipi e che, forse, non sarà stato vano esporre. La questione si chiude infatti con l’individuazione della matrice utilizzata per forgiare il “documento” in oggetto (non si faccia troppo caso se, per praticità, continuo qui a definirlo tale): il contratto del 7 febbraio 1602 con cui si affidava a Merisi l’esecuzione del secondo San Matteo e l’angelo per la cappella Contarelli (fig. 9) Una lettura ‘sinottica’ dei due testi, facilitata di seguito dal grassetto su termini ed espressioni ricorrenti in entrambe le scritture, parla da sé.
Pergamene di Siracusa:
«[…] una pittura con l’effigie et imagine di Santa Lucia […] questa pittura il Michel Angelus la debba aver finita con tutta perfetione et con quella eccellentia d’artificio che potrà maggiore et così finito et perfetto collocarlo nel loco suddetto di Santa Lucia fori le mura […] Tale Camera promette et si obbliga pagare al detto pittore Michel Angelus la somma qaranta onze sempre come di sopra consegnato et finito et perfetto da ogni parte debba come promette debba esecuire il Michel Angelus. Tale Camera promette otto onze acconto et fornire presso bottega del Minniti tutti li colori necessari di olio finissimo et più la tela et telaro […] l’illustrissimo Francesco Moncada siracusano testibus et illustrissimo Gaetano Abbela iudex Reggio».
Contratto del San Matteo e l’angelo di Caravaggio (7 febbraio 1602):
«[…] promettae depingere in tela et ad oglio con tutto quello artificio magiore che egli sapia […] il qual quadro contengha l’effigie et imagine di San Mattheo […] questo quadro il detto signor Michelangelo lo debba havere finito con tutta perfettione et con quella eccellentia d’artificio che potrà maggiore et così finito et perfetto da ogni parte consegnarlo et collocarlo nel loco sudetto […] quadro da collocarsi come di sopra finito et perfetto da ogni parte debba come promette et si obliga pagare al detto signor Michel Angelo praesenti […] il detto signor Michel Angelo debba fornire tutti li colori necessarii, quali debbano essere finissimi et di quella qualità che conviene et più la tela et telaro […] reverendo domino Pompeo Guiducci de Nursia et Francisco Ianni de Balneo Reggio testibus».
Come si vede, interi passi sono stati ricopiati fedelmente (o quasi) e davanti all’evidenza mi limito a rilevare come si possano finalmente chiarire alcuni specifici punti. Ad esempio, si comprende come l’espressione «nel loco suddetto» sia stata riportata passivamente, senza riflettere che nelle pergamene, come visto, non era stata ancora nominata la basilica di Santa Lucia extra moenia. Il falsario ha poi ripreso da altri atti notarili romani coevi il termine «Camera», dove con esso si intendeva sempre la Camera apostolica. Inoltre, l’aggettivo «Reggio» riferito alla professione di giudice esercitata da Gaetano Abbela deriverebbe, niente meno, dalla città di Bagnoregio («Balneo Reggio») di cui era originario Francesco Ianni, testimone nel contratto del 1602.
Sfugge il profilo dell’ignoto cagliostro caravaggesco, ammesso che abbia agito in solitaria (il che è poco verosimile). Sicuramente non un esperto di diplomatica o altra figura con specifiche competenze tecniche né, in fondo, un grande conoscitore della vita dell’artista. Né forse, aggiungerei, una persona con un grado di istruzione particolarmente elevato, come si vede dai tanti svarioni.
E c’è da pensare, a questo punto, che egli abbia utilizzato il vocabolo «codesto» dandogli impropriamente lo stesso significato di «questo», come se il primo fosse una forma arcaica del secondo: questo spiegherebbe meglio la disposizione finale «codesta scrittura venga per intero affidata alla deputazione interessata», se con «scrittura» sono da intendersi le stesse pergamene; ma soprattutto, se così, non ci sarebbero più ostacoli a identificare la «Camera», termine che tanta perplessità aveva suscitato, con il Senato, come per un lapsus, imperdonabile e reiterato, che avrebbe portato a fare un collegamento con l’odierno Senato della Repubblica come una delle due “camere” del nostro Parlamento.
Ma non è finita qui. Altri brani delle pergamene risultano ripresi dal contratto del 12 febbraio 1596 che impegnava il fiammingo Jacob Cobaert a completare il gruppo scultoreo del San Matteo e l’angelo, inizialmente destinato allo stesso altare di San Luigi dei Francesi che nel 1602 ospiterà invece la pala caravaggesca (fig. 10)
Pergamene di Siracusa:
«[…] li quali spontaneamente etcaetera et con ogni meglio modo et decoro et dichiarano che tutto quello che si contiene nella certa diligenza dello illustre maestro et particola existente in ditto istrumento et di più convengono insieme che in evento che esso partisse prima di aver finito la pittura medesima tale camera sarà onorata et satisfacta etcaetera da lor medesimi et non dichino un altro modo ma nel modo infrascritto […] tale mandato possa testare in quassivoglia modo la gioia dei fedeli tutti».
Contratto del gruppo scultoreo del San Matteo e l’angelo di Cobaert (12 febbraio 1596):
«[…] con ogni meglior modo etcaetera et dicono et dechiarano che tutto quello che si contiene nella sopraddetta particola existente in detto instrumento […] et de più convengono insieme che in evento che esso messer Iacomo Cobart morisse […] non dichino in quel modo, ma nel modo infrascritto […] non possa testare, né in qualsivoglia modo […]».
La documentazione sull’impresa decorativa della cappella Contarelli è stata dunque di grande aiuto per chi ha architettato l’aretusea impostura, tanto per parafrasare la definizione coniata per quella (arabica) di Vella. I due atti del 1596 e del 1602 furono pubblicati integralmente per la prima volta nel 1971, nell’appendice di Mia Cinotti al volume di Gian Alberto Dell’Acqua Il Caravaggio e le sue grandi opere da San Luigi dei Francesi, la cui consultazione, giusto al termine della presente ricerca, ha regalato un tassello inaspettato (fig. 11). E la ‘sorpresa’ risiede in un ulteriore modello per la contraffazione, un’immagine riproducente la cedola bancaria con cui Tiberio Cevoli si impegnava, il 6 novembre 1597, a saldare al Cavalier d’Arpino le pitture per la cappella Contarelli (fig. 12). Nel foglietto, infatti, compare in analoga posizione l’identico segno tabellionale visto nella prima pergamena, con la sola differenza che le iniziali TC del banchiere Cevoli sono state poi sostituite con SC.
Anche se le trascrizioni dei due atti romani del 1596 e del 1602 sono state riportate in altre sedi dopo l’uscita dell’opera di Dell’Acqua, è certamente quest’ultima quella letta e presa a riferimento dalla “mente” che si cela dietro l’operazione truffaldina: a nostra conoscenza la foto della cedola bancaria non era mai stata pubblicata prima del 1971, né lo fu dopo. Ecco così che abbiamo individuato un termine cronologico al di sotto del quale non è possibile immaginare che sia stato fabbricato l’apocrifo siracusano. Come ho potuto apprendere, nemmeno una decina d’anni fa (2013) vi sono stati più tentativi di immetterlo nel mercato antiquario, motivo per cui ne circolano ancora delle immagini. Chi lo deteneva all’epoca mi comunica che non è più nelle sue disponibilità e che non lo ha mai sottoposto a una perizia paleografica e tecnico-diagnostica qualificata, della quale ormai non si sente più la necessità. Di una cosa, senza dubbio, il falso “documento” è sincero testimone: della mai appagata sete di conoscenza che caratterizza appassionati e studiosi di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Anche se per un momento, è stato bello crederci.
Michele CUPPONE Roma 7 agosto 2021