di Vittorio SGARBI
Nell’intervista di Marta Papini a Cecilia Alemani per introdurre la mostra madre della 59^ Biennale di Venezia “Il Latte dei Sogni“, la curatrice fa riferimento alla sua copia del catalogo della 24^ Esposizione internazionale d’Arte del 1948, già apppartenuta ad una ragazza di nome Lucia, ce ha asciato molti sapidi commenti, ingenui e gustosi, sugli artisti presenti in quella edizione.
Due appunti curiosi sembrano aver stimolato la Alemani. La “carne maledetta” recita uno, mentre l’altro è quanto mai chiaro e spietato: “Dove sono le donne?”. Dopo settantaquattro anni è a Lucia che la mostra della Biennale risponde, con una presenza preponderante, e spesso luminosa, di donne artiste, a partire da quella che dà il titolo di un suo libro alla mostra: Leonora Carrington.
La scelta è stata felice e l’attestano le tante belle opere di Paula Rego, di Claude Chaun, di Carol Rama, di Leonor Fini, di Dorotea Tanning, di Remedis Varo e quante altre ancora!
A questa feste risponde il funerale del padiglione Italia, un padiglione letteralmente tragico; ed è stato istruttivo partecipare alla inaugurazione.
Una sola opera di un solo autore maschio, Gianmaria Tosatti, scelto da un curatore maschio, Eugenio Viola, selezionato dal commissario maschio del padiglione Italia, Onofrio Cutaia, direttore generale della Creatività contemporanea del Ministero della Cultura. Alla cerimonia funebre della inaugurazione officiavano i tre, con il Ministro della Cultura, maschio, Dario Franceschini, che li ha voluti, affiancato dal sindaco di Venezia, maschio, Luigi Brugnaro, e dall’assessore alla cultura della Regione, maschio, Cristiano Corazzari. “Dove sono le donne?”. Erano tutti vestiti di nero e hanno ricevuto l’applauso convinto degli inutili presenti, invitati per ammirare l’eloquente padiglione. L’autore pretendeva il silenzio, indisponibile a spiegare le sue scelte per le quali si era riservato esclusivamente il discorso inaugurale, solenne e tragico, nella consapevolezza di illustrare, al pubblico che lo ascoltava, il nulla.
E molto denaro per quel nulla: due milioni di euro di finanziamenti pubblici e privati. Nel padiglione non c’era rigorosamente nulla, spiccavano le divise nere del curatore e dell’autore, con i loro impermeabili alla moda, sobri ed eleganti, di buon taglio. Scarpe e stivaletti neri. Il curatore senza barba con una cresta di capelli sulla nuca; l’artista con la barba. Il curatore con un solo orecchino nero: l’artista senza. Discorsi di circostanza, severi e compiaciuti, in particolare quello del curatore Viola che si concede termini come “condizione meta-pandemica” (con trattino) e “regime farmacopornocrativo”: parole ad effetto, ben collocate, insieme all’aggettivo “palingenetico” spiegato in catalogo alla nota 12: “Il termine ‘palingenesi’ compare nella filosofia stoica per indicare la rinascita dell’universo dopo la sua distruzione avvenuta attarverso il fuoco”. Spiegazione utile, in attesa di quello che il pubblico plaudente non andrà a vedere: ” Neo giorni in cui il lavoro prende forma mi accorgo di come il silenzio delle macchine, delle fabbriche vuote, tuttavia, oltre ad alludere al grande tema di fondo che informa il padiglione, sembra restituire con lancinante fedeltà il clima di una guerra che ci ha colti impreparati, quasi che l’opera trascenda le intenzioni del suo autore, guardando ancora più lontano, potendo già raccontare quel che l’artista non sapeva ancora. Stare dentro l’opera, nei sui brandelli di industrie ferme, con i banchi da lavoro lasciati vuoti da un’assenza insopportabile di uomini e donne, dà l’impressione di stare nel posto più vicino possibile a Kiev bersagliata o Odessa bombardata (entrambe le città care a Tosatti, che ci ha vissuto tra il 2019 e il 2022) coi loro posti di lavoro lasciati frettolosamente per fuggire”.
Per questo importante risultato è occorso il contributo del Ministero nell’ordine di 600 mila euro, mentre i restanti degli sponsor principali, coma San Lorenzo e Valentino, e degli sponsor tecnici come Folio, Italstage, fpt, Bonotto,, Laterlite, Mercegaglia, Fondazione Morra, Mosaico Studio, con il “maggior” supporto di Bareva Foundation Furstentum del Liechenstein, di Dedar, della Fondazione Sandretto Re Baudengo, di Giuseppe Iannaccone, di Francesca Lavazza, di Palazzo Bentivoglio, di Spada Partners, di Nicole Saikalis Bay e Matteo Bay, e il ‘gentile’ supporto di Margherita Barberis Canonico, di Bulgari, di Mauro De Jorio, della Fondazione Ferrarelle, dei Marchesi Frescobaldi, di Palazzo Luce a Lecce, di Sotheby’s, di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci, di Tosetti Value, di Catherine Vautrin e Tiziano Vudafieri, e l’ “ulteriore” supporto di Giovanna Fornarelli Rovati, di Immobiliare Cortina, di Magaldi Power, di MZR Gedenkstiftunga Zurich e l’affetto di Lia Rumma, di Olimpia Fischetti e Massimo Moschini, di Giorgio Fasol, di Gisella e Massimo Filippa, di Carla Tosi Pamphili. Non ci è cascato Massimo Bray della Treccani, che ha fatto un catalogo povero, con una confezione costosa in una solida scatola con i nastrini.
Fra i tanti contributori mi chiedo cosa avranno pensato di sostenere Giuseppe Iannaccone e Giorgio Fasol, e cosa avranno visto o vedranno i visitatori, rigorosamente in fila, per entrare in padiglione come in fabbrica, timbrando il cartellino, cinque alla volta in rigoroso silenzio. Dentro il padiglione non c’è niente di più di quello che c’era prima che l’opera, dall’ambizioso titolo “storia della notte e destino delle comete” fosse allestita con la desolazione e l’abbandono di una fabbrica e di un appartamento povero dopo un bombardamento. Abbandono e desolaxione come dentro lìacciaieria di Mariupol: questo hanno visto e vedranno i visitatori del padiglione Italia.
Per lo stesso risultato sarebbe stato sufficiente non allestirlo. Identica, e forse anche più assoluta, sarebbe stata la tragica visione. Se lo chiede il Ministro con una domanda ingenua: “Ma questi macchinari c’erano?”. La risposta dell’artista è “Naturlamente no!” Altrimenti perchè lo avrebbero sostenuto i Frescobaldi, Bulgari, Fasol e Valentino? Non è sufficiente trovare la desolazione in un luogo abbandonato. Bisogna crearla. Non basta quella che c’è, disseminata nel mondo, attraverso insensate guerre e anche fallimenti, decadenza, distruzioni. L’Italia è piena di luoghi come quello inutilmente ricreato nel padiglione, basta andare alla centrale Enel di Polesine Camerini; ma per tanta desolazione ci vuole molto impegno.
L’interrogatvio è: “Ora che la Montedison è andata, possiamo avere indietro anche quella sola lucciola?”. Per questo sarebbe stato sufficiente mandare i visitatori della Biennale in un prato in una sera d’estate. Pochi spettacoli della natura sono ancora intensi come il bagliore delle lucciole. Una festa di luci nelle notti estive. I coleotteri della famiglia Lampyridae brillano di luce propria grazie ad una reazione chimica: una molecola chiamata luciferina si trasforma emettendo luce. Questi insetti notturni usano la luce per la comunicazione sessuale. Da noi le lucciole si accoppiano tra giugno e luglio, ma anche fino ad agosto. Troppo facile. E’ la seduzione della dichiarazione di Pier Paolo Pasolini: “Darei l’intera Montedison per una lucciola “. Tutto parte da lì ed è poetico. Ed è bello trovare le lucciole in un prato d’estate. Nel Padiglione non vedrete “La storia della notte e il destino delle comete”, bensì il triste e inutile paradosso della ricostruzione della fabbrica che non c’è più, nella spietata e costosa ambizione dell’impresa gratuita.
Tosatti e Viola, nell’imbarazzo di Cutaia e nello sconcerto di Franceschini, hanno dato tutte le lucciole (e i piccioli) per ricostruire la Montedison. Tanto rumore per nulla. Non ci resta che rifugiarsi nel padiglione polacco, pieno di artiste e di signorine, di lucciole in una rinnovata Schifanoia.
Vittorio SGARBI Venezia 24 Aprile 2022