di Sergio ROSSI
«Ci sono i pittori della notte, come Rembrandt o George de La Tour; ma ci sono pochissimi pittori dell’alba: perché l’alba è l’ora della morte, l’ora della luce glauca. C’è Géricault, ma soprattutto c’è Caravaggio».
Nel film Il declino dell’impero americano del franco canadese Denys Arcand, uno dei protagonisti, un professore di storia dell’arte, pronuncia queste parole nel corso di una lezione. Ma ancor più dei pittori prima citati io includerei Jacopo Pontormo ed Edward Münch come i più autentici esponenti della “luce glauca” come metafora della morte. Si tratta di due artisti che appartengono ad epoche e latitudini assai lontane tra loro ma che sono legati da un doloroso “vissuto” che misteriosamente li accomuna.
Quanto al primo, non a caso Giorgio Vasari, come è noto, ce lo descrive come perennemente ossessionato dal tema della morte:
«Ebbe il Puntormo bellissimi tratti, e fu tanto pauroso della morte, che non voleva, non che altro, udirne ragionare, e fuggiva l’avere a incontrare i morti. Non andò mai a feste, né in altri luoghi dove si ragunassero genti, per non essere stretto nella calca e fu ogni oltre tendenza solitario».
D’altro canto, per chi aveva perduto, in drammatica sequenza, la madre all’età di sei anni, il padre a quella di undici, il nonno e la nonna cui era stato affidato da orfano rispettivamente a tredici e quindici e infine la sorella, unica superstite della famiglia a diciotto, non ci si poteva certo aspettare un sereno atteggiamento nei confronti della vita. Forse messer Giorgio esagera un po’ quando afferma che l’abitazione che ad un certo punto il Pontormo s’era fatto costruire aveva
«più tosto la cera di casamento da uomo fantastico e soletario che di ben considerata abitura: conciò sia che alla stanza dove stava a dormire e tal volta a lavorare si saliva per una scala di legno, la quale entrato che egli era, tirava su con una carrucola, a ciò nessuno potesse salire da lui senza sua voglia o saputa».
Mentre per quel che riguarda Edward Münch (1863-1964), anch’egli fin dalla prima infanzia fu provato da una serie interminabile di lutti familiari: la madre morì di tubercolosi quando egli aveva solo cinque anni, la sorella Johanne Sophie, cui era particolarmente legato, nove anni più tardi, sempre per la stessa malattia. Anche il padre, che insieme alla zia Karen si prendeva cura di lui, cadde presto vittima di una sindrome maniaco-depressiva. E come se non bastasse l’altra sorella Laura, di quattro anni più giovane, fu afflitta da crisi psichiche che la portarono alla pazzia ed infine anche il fratello Andreas morì immediatamente dopo il suo matrimonio. E infine Edward, che nel 1914 aveva acquistato una proprietà ad Ekely, alla periferia di Oslo, trascorse praticamente gli ultimi trent’anni in perfetta solitudine come un recluso. Ora, per quanto io sia sempre stato cauto nel collegare automaticamente vita e opere dei grandi artisti o nell’esercitarmi in analisi psicologiche a buon mercato, è del tutto evidente, come anche nel caso del Pontormo, che tutti questi traumi non abbiano potuto non influenzare il Münch pittore, che del resto lucidamente scriveva:
«Ho ereditato due dei più spaventosi nemici dell’umanità: il patrimonio della consunzione e la follia». E ancora: «Così vissi con i morti…mia madre, mia sorella, mio nonno e mio padre, soprattutto con lui» o: «La seconda parte della mia vita è stata una lotta per rimanere in equilibrio…ho dovuto seguire un sentiero lungo un precipizio, una voragine senza fondo. Ho dovuto saltare da una pietra all’altra. Qualche volta ho lasciato il sentiero per buttarmi nel vortice della vita. Ma sono sempre dovuto ritornare su questo sentiero sul ciglio del precipizio».
E di citazioni come queste si potrebbero riempire interi volumi, perché il nostro artista, oltre che un irrefrenabile pittore, incisore e fotografo (specie di sé stesso) era anche un autentico grafomane.
Tutto questo viene splendidamente illustrato nella bella mostra Munch. Il grido interiore, che dopo il grande successo di pubblico ottenuto al Palazzo Reale di Milano è ora approdata a Roma, Palazzo Bonaparte, dove rimarrà aperta fino al 2 giugno. L’esposizione si snoda attraverso sette sezioni benissimo articolate tra loro: Allenare l’occhio, dove si evidenzia come Münch ritenesse che la mente individuale, le visioni interiori e il recupero cosciente dei ricordi dessero forma alla percezione diretta della realtà, fino a sostituirla: “non dipingo ciò che vedo, ma ciò che ho visto”; Quando i corpi si incontrano e si separano, che sottolinea come in un’epoca di promiscuità tanto pubblica quanto privata, la determinazione di Edward a rendere visibile quella che lui definisce la “grandiosità della sessualità” è comunque avanguardistica e controversa; Fantasmi: che analizza l’importanza dei ricordi nella sua produzione pittorica: l’atto di richiamare le proprie memorie gli consente di liberarsi dei dettagli superflui e identificare i momenti più significativi e importanti del suo passato: quasi una caccia ai fantasmi, per esempio in occasione della realizzazione della scenografia per la rappresentazione berlinese della sceneggiatura di Henrik Ibsen intitolata, appunto, Spettri; Munch e l’Italia, che ho trovato particolarmente nuova e stimolante e che ricostruisce i suoi vari viaggi a Firenze, Milano, Roma dove annota:
“Dato che sto lavorando con i grandi formati, per me è fondamentale poter ammirare gli affreschi di Michelangelo e Raffaello”

e dove dipinge nel 1927 La tomba di P. A. Münch, che ritrae uno scorcio del cimitero acattolico dove è sepolto lo zio, storico considerato il fondatore della scuola di storia norvegese; L’universo invisibile, che analizza la cosmologia personale dell’artista, che come molti altri intellettuali del suo tempo segue il dibattito in corso in merito al rapporto tra scienza, tecnologia, religione e misticismo, essendo attratto dalla dottrina del monismo, secondo la quale la mente e la materia, le forze invisibili e il mondo materiale convergono; Di fronte allo specchio (autoritratto) che analizza la vera e propria ossessione di Münch, come Pontormo, Rosso Fiorentino (che si ritraeva sempre come Cristo), Caravaggio, Rembrandt, Picasso, per la propria immagine; L’eredità di Munch:
«Dopo aver studiato con attenzione la grande tradizione rinascimentale nei suoi viaggi in Italia e aver assorbito le novità dirompenti del Postimpressionismo di Cézanne, Gauguin e Van Gogh, dopo aver interagito con la generazione emergente degli espressionisti, Münch riesce ad inaugurare un linguaggio personale, in cui applicare con una certa libertà controllata regole geometriche inedite, dove il colore, steso in campiture ampie e decise, assume un potere straordinario»,
così nella cartella stampa dell’esposizione.
Si diceva all’inizio dell’ossessione del nostro artista per la malattia e la morte e in quest’ottica un dipinto che lo stesso Edward considerava un momento cardine della sua evoluzione pittorica è la prima versione (1885) de La bambina malata, ispirato alla lontana da un quadro del suo maestro ed amico Kristian Krog, dal soggetto analogo, ma dalla resa stilistica molto differente.

Nel quadro di Münch (come sottolinea G. Bruno nel 1886)
«l’impianto plastico e materico dell’opera è pervaso di tremori di luce, una luce che trapassa in zone d’ombra profonde, esce in chiarori che illuminano la superfice corrosa dal sovrapporsi degli strati di pittura e dai tracciati graffianti del segno. E il profilo trepido del volto, le mani tremanti, il baluginare dell’alba sul trattenuto biancore del cuscino, trasmettono un’emozione profonda».
Nella Morte nella stanza della malata, di quasi vent’anni posteriore e presente in mostra nella versione del Munchmuseet, la stesura cromatica si rassoda e si ricompatta, dominano l’ocra del pavimento, il verde del muro, il blu tendente al nero dei vestiti dei protagonisti con il solo piccolo squarcio di bianco del braccio della giovane defunta Sophie che spunta da una poltrona in fondo alla scena.

La famiglia è tutta riunita: vicino alla morta la zia Karen e il padre Christian con le mani giunte come in preghiera, il fratello Peter vicino a un muro, Edward di spalle al centro della scena, la sorella più piccola Laura seduta su una poltrona in primo piano e l’altra sorella Inger in piedi e spettrale come un angelo della morte. Ma la cronaca si trasforma in mito o per meglio dire in un sogno come di dormiveglia, i volti, tranne quello di Inger, sono come cancellati o impercettibili ed è il dolore straziante della perdita che tutto domina e confonde.
Il tema della malattia e della morte si confonde indissolubilmente con quello dell’amore, vissuto con slancio sensuale ma anche come sofferenza ineluttabile, dato che Münch
«nonostante la misoginia di alcune sue immagini e la frequenza con cui rappresenta il rapporto tra uomini e donne come una battaglia tra i sessi, esprime empatia nei confronti di tutte le persone che, indipendentemente dal genere, vengono irretite dalla seduzione e rovinate dalla dissoluzione dell’amore».
Ed è qui che si pone il rapporto decisivo e devastante con Tulla Larsen, la “donna vampiro” dai capelli colore del fuoco da cui era irresistibilmente attratto e da cui contemporaneamente sempre cercava di fuggire, che compare in molte bellissime tele e litografie presenti in mostra e conferma come il pittore ancora sia sopraffatto dal suo ricordo ancora a molti anni dalla loro separazione.
La Larsen era una bella e sensuale giovane proveniente dall’alta borghesia norvegese, e le poche foto che la ritraggono con una menomazione alla mano sinistra che lei mostra senza la minima esitazione. Münch l’aveva conosciuta sul finire del secolo, dando inizio ad una tormentatissima storia d’amore che trovò il suo culmine nel 1902, esattamente nella notte tra l’11 e il 12 settembre, quando il pittore venne ferito da un colpo di rivoltella alla mano sinistra, in circostanze ancora non chiarite.
Pare che Tulla avesse fatto finta di soccombere a una dose di morfina e si fosse fatta trovare distesa in una bara circondata da candele, forse per un gioco erotico o più probabilmente per attirare di nuovo a sé l’amante che si era allontanato. Fatto sta che quando la donna riprese conoscenza la macabra messa in scena scatenò in Edward una violenta crisi di collera: ne seguì una colluttazione dai contorni ancora sfuggenti e al termine della quale da una pistola custodita dalla Larsen partì un colpo che trapassò la mano sinistra dell’uomo. Ancora non si sa se a sparare sia stata la stessa Tulla o Edward, certo che il fatto che al termine dello scontro Münch si ritrovò una menomazione alla mano sinistra proprio come quella della sua amata accresce ancor di più il mistero di quel drammatico evento di cui troviamo traccia evidente ne La morte di Marat, presente in mostra nella versione del 1907. Naturalmente il dipinto si ispira a quello celeberrimo di David, ma al posto di Carlotta Corday, ritta in piedi, nuda, sensuale e dagli inconfondibili capelli rossi abbiamo Tulla, ancora una volta angelo della morte, e disteso sul letto insanguinato, al posto di Marat lo stesso Edward.

Ma l’arte di Münch conosce anche dei momenti più lirici e melanconici, quelli che io ho definito all’inizio del mio scritto della “luce glauca”, l’inconfondibile luce scandinava del sole di mezzanotte, che solo chi ha personalmente provato può effettivamente comprendere. Da noi la luce è luce ed il buio è buio senza mezzi termini e senza mediazioni, in Scandinavia no; anche la più cupa notte invernale può essere rischiarata dai bagliori argentini delle distese immense di neve e di ghiaccio così come la luce estiva delle notti bianche è una luce azzurra che sa di mistero.

E Münch, insieme forse al finlandese Akseli Gallen-Kallela, ne è l’interprete più autentico, come dimostrano le numerose opere in mostra dedicate a questo tema, a cominciare da Melancholy del 1900-1901, per passare a Notte stellata del ’22-24, fino all’iconico Le ragazze sul ponte nella versione del 1927 e diventato insieme all’Urlo il simbolo stesso dell’arte munchiana. Eppure, tornando a Melancholy, il dipinto nella sua prima versione del 1892 venne molto criticato per la presunta approssimazione delle cose lasciate a metà, con i colori spalmati tra loro e grandi parti della tela lasciate incompiute. Solo Christian Krohg, che insieme a sua moglie appena si intravede nella coppia sul molo in fondo alla scena, si espresse a favore: “è un dipinto davvero commovente, è solenne e quasi religioso”.

Ed in effetti è proprio questa capacità rivoluzionaria di semplificare al massimo la stesura pittorica resa per grandi campiture, come i protagonisti della Scuola di Pont Aven, ma con una carica simbolica e intellettuale ancora più accentuata, a rappresentare uno dei più significativi contributi di Münch all’innovazione artistica a cavallo tra Ottocento e Novecento, che però, evidentemente, solo in pochi potevano allora comprendere.
In altri termini Edward sa come pochi altri cogliere l’essenza spirituale delle cose, coinvolgere direttamente lo spettatore in un’esperienza che non esiterei a definire quasi mistica di contemplazione e al contempo interazione emotiva con l’artista stesso. Perdersi nelle sue tele è come affrontare un labirintico percorso: vederne una attira immediatamente e al contempo lascia insoddisfatti; subito si va alla ricerca di un’altra e un’altra ancora, si viaggia all’indietro e in avanti nello spazio e nel tempo; ed è la stessa sensazione che ho provato visitando anni fa il Munchmuseet di Oslo e ho ritrovato alla fine anche in questa esposizione: la consapevolezza cioè che quando si esce si è diversi da quando si è entrati e in un certo senso spiritualmente arricchiti. Ed è per questo che consiglio vivamente chi non l’avesse ancora fatto di andare a vedere Munch. Il grido interiore in mostra a Palazzo Bonaparte fino al 2 giugno.
Sergio ROSSI Roma 2 Marzo 2025