di Giulio de MARTINO
La complessa e completa riproposizione delle molte e variegate opere e dei progetti dell’artista Emilio Leofreddi (Roma, 1958 – 2023) – visitabile al WeGil di Roma fino al 31 agosto 2024 – ha posto ai curatori questioni di metodo filologico e di ricostruzione cronologica e storica.
La mostra è stata curata da Giuseppe Stagnitta, in collaborazione con l’Archivio Emilio Leofreddi, ha avuto il contributo di Amnesty International Itali ed è stata patrocinata dalla Regione Lazio, in collaborazione con LAZIOcrea, e prodotta dalla Clode Art Gallery con la partecipazione della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale e di Poema.
La mostra espone 150 opere su supporti diversi – tele, disegni, installazioni, video, appunti, fotografie – che documentano e illustrano il percorso dell’arte e della vita di Leofreddi, in particolare dagli anni Novanta fino alla morte[1].
È articolata sulla base di un criterio biografico e cronologico che evidenzia la trasformazione delle tecniche e dei supporti in connessione all’evoluzione dell’idea di arte praticata da Leofreddi. Evidenzia anche la sua collocazione ideologica all’interno degli sviluppi di quella galassia Terzomondista e irenista sorta negli anni ’60 e sfociata nel movimento No-global della fine del XX secolo.
L’arte di Leofreddi, per paradosso, si è diffusa all’interno degli stessi canali della mondializzazione e della globalizzazione di cui scorgeva e denunciava le contraddizioni ed i suoi linguaggi hanno attinto sia alle molte lingue del Pianeta sia alle forme estetiche della comunicazione occidentale.
Negli anni ’70, alcuni artisti si erano calati all’interno della dimensione tecnologica e scientifico-industriale dell’arte contemporanea, diffusa da aziende e istituzioni private. Altri, invece, avevano operato attraverso vivaci gallerie d’arte sperimentale, finanziate dal collezionismo e dall’attivismo di alcuni mecenati, coinvolgendo il pubblico della contestazione e della controcultura, pensiamo a Franco Angeli ([2]).
Alcuni artisti, fortemente attratti delle nuove ideologie politiche e dalle gruppalità del movimento di contestazione – tra questi Leofreddi -, sono usciti dal «sistema dell’arte» e si sono impegnati ad utilizzare i linguaggi e i supporti artistici (poster, locandine, fotografie, installazioni, video, disegni, tele) come forme di divulgazione di una visione del mondo «alternativa» e di una azione artistica di tipo contro-culturale.
In questa battaglia a favore della «World Culture» – e contro le pervasive «Global Culture» ed «E-Culture» – Leofreddi, nel diporto fra arte e storia dell’arte, ha inteso di muoversi nel solco del «surrealismo distopico» di Marcel Duchamp (1887-1968): sospeso tra il vecchio mondo dell’Europa e il nuovo mondo degli Stati Uniti. Così ha unito l’arcaico e il postmoderno come simboli di un’arte ubiqua, transculturale e policroma.
Il viaggio, il sogno, l’immaginario psichedelico sono stati i temi centrali della sua poetica: sognare, coltivare la speranza di un mondo «diverso». Proclamando che tutti: «siamo cittadini del mondo», Leofreddi postulava un Pianeta senza prevaricazioni, fatto di pace e di rispetto per lo straniero, per il «diverso».
Cercando di oltrepassare il percorso analitico dell’«arte sull’artista» degli anni ‘70 – visto come pericolosamente autoreferenziale[3] – Leofreddi denunciò le forme fruitive consumistiche e consolatorie rivolte all’arte classica e moderna e, propose la vitalità e il dinamismo delle «esperienze della transizione» (il viaggio interiore ed esteriore) come territorio autentico della creatività artistica.
Nel 1977, dopo esser stato in India, Leofreddi cominciò a fotografare e a disegnare. Suoi fumetti, vignette, immagini furono pubblicati sulle riviste italiane «underground» e orientaliste: Re Nudo, A’ Faidda. Nel 1980, dopo la partecipazione al lavoro del gruppo teatrale “Teates” a Palermo, riparti per l’India dove si trattenne per un anno e mezzo in una casa sul Gange a Banares. Nel 1983 si trasferì per due anni a Berlino, ritornando a Roma nel 1985 per lavorare come fotografo di moda e come assistente della fotografa Cristina Ghergo. All’inizio degli anni ‘90 iniziò a progettare istallazioni con video e performance sui temi dell’ambientalismo. Nel 1992 collocò sul Tevere la sua installazione Balene, contro la caccia alle balene, che fu patrocinata da “Greenpeace” e finanziata da Mario Schifano.
Nel 1993 realizzò l’installazione e la performance Contact contro la pena di morte, che fu patrocinata da “Amnesty International” e da “Nessuno tocchi Caino”. La denuncia si basava su di una sedia elettrica e una telecamera che inquadrava gli spettatori e che mescolavano i linguaggi audiovisivi tecnologici nell’effetto «choc» della propaganda.
Nel 1994 realizzò Im-Media, un’istallazione di opere su tela che evocavano in maniera anti-pop-art le tecniche visuali delle affissioni pubblicitarie. Nel 1996, al Palazzo delle Esposizioni, realizzò Caos e, l’anno successivo, la sequenza fotografica Mangiate Pietà. In essa, la statua michelangiolesca della Pietà (pietas) diventava prodotto consumistico ed edibile: il cucchiaio con dentro la Pietà era alimento e non più messaggio morale.
Nel 1999 espose la personale Human Being al M.O.C.A. (Museum of Contemporary Art) di Washington D.C. (USA). Nel 2001 presentò la personale: Non calpestate le aiuole utopiche alla “Campus Galerie” dell’Università di Bayreuth (Germania) e, nel 2003, alla “Mary Ogilvie Gallery”, del St. Anne’s College (Oxford, UK).
Nel 2004 focalizzò la sua attività artistica sull’Oriente e realizzò un insolito diario di viaggio dipingendolo su tappeti tibetani e tende indiane. Prese forma così il progetto Dreams che lo riportò a vivere in India.
Le opere furono esposte alla Galleria “Santo Ficara” di Firenze e all’Art Basel di Miami (USA) e, nel 2007, alla Biennale del Cairo (Egitto).
Nel 2009 ha esposto al Vittoriano di Roma, a cura della “Galleria La Nuvola”, una mostra dal titolo Il respiro del mondo, realizzata con tele cucite a Goa (India).
La scelta di questo tipo di tendaggio come medium artistico lo collega alle esperienze dell’«arte povera». Essendo un materiale d’uso quotidiano, la tenda va percepita come sinonimo di nomadismo, ma anche di rifugio e di comunità.
Nel 2012 con il progetto Land-E-Scape si è ispirato ai cieli turbolenti di William Turner, alla “Gioconda” di Leonardo e alle imprese acrobatiche di Philippe Petit.
Leofreddi ha dipinto la tensione tra l’aspirazione ad ascendere verso l’alto e il timore di cadere nell’abisso della realtà.
Da artista, diceva: “Io mi sento come quell’equilibrista”, sempre in bilico tra il desiderio di raggiungere il cielo, con l’infinito e con le sue nuvole, e la paura panica di sprofondare nel caos sotto di me. Nel 2015, presso la galleria SMAC (Segni Mutanti Arte Contemporanea), ha inaugurato la personale Gea Mondi Colori [4]. Nel 2016 ha realizzato il logo ed il manifesto per la città di Aarhus (Danimarca) “Città Europea della Cultura 2017”.
Nel 2018 – ritornando sul tema della globalizzazione economica e finanziaria, oltre che digitale – ha lavorato ad un progetto dal titolo l’Economia del Nulla nel quale banconote tagliuzzate in piccole particelle diventavano un mare incerto su cui navigare per il mondo.
di Giulio de MARTINO
LA MOSTRA
Emilio Leofreddi
WEGIL – Trastevere, Largo Ascianghi n° 5, Roma
dalle 10.00 alle 19.00 fino al 31 agosto 2024
a cura di: Giuseppe Stagnitta
con la collaborazione dell’Archivio Emilio Leofreddi di Asia Leofreddi e di Marina Mesnic.
Produzione: Clode Art Gallery con la partecipazione della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale e Poema
Patrocinio: Assessorato alla Cultura della Regione Lazio in collaborazione con LAZIOcrea
Catalogo: Magonza Editore
NOTE
[1] Nella mostra si vedono anche i 3 video: Im Media, Contact e Caos acquisiti dal Palazzo delle Esposizioni di Roma.
[2]https://www.aboutartonline.com/franco-angeli-una-storia-di-neoavanguardia-la-mostra-antologica-al-wegil/
[3] Elisa Francesconi, Franco Angeli e Tano Festa. Pittori con la macchina da presa, Roma, Postmedia Books, Milano, 2018.
[4] Emilio Leofreddi, Gea. Mondi, colori, a c. di Graziano Manolascina, Iemme Edizioni, 2017.