di Iacopo BENINCAMPI
Iacopo Benincampi è architetto laureatosi presso l’Università degli studi di Roma “Sapienza”, ha frequentato il dottorato di ricerca del Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura del medesimo istituto. Borsista di ricerca presso l’Università degli Studi di Parma nel 2018, è stato consulente per la diocesi di Viterbo e “visiting professor” presso il College of Architecture della University of Texas at San Antonio nel 2019. Autore di alcune monografie specialistiche, ha pubblicato contributi sugli sviluppi dell’architettura fra tardo Seicento e primo Ottocento. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con About Art
Tesori d’architettura tardobarocca nella Romagna papale
Fin tanto che esistette, lo Stato della Chiesa fu comunemente identificato con Roma e la motivazione è comprensibile[1].
Infatti, la capitale papalina non solo raccoglieva le vestigia di un passato glorioso, riconosciute a partire dal Rinascimento come riferimento linguistico fondamentale per qualunque nuova elaborazione artistica, ma – a partire dal XVII secolo – la città era diventata un vero e proprio centro avanguardistico di sperimentazione in cui tradizione e innovazione si alternavano e si confrontavano instancabilmente con risultati eccezionali, fonte di perenne dibattito negli ambienti accademici. Una simile gravitazione, però, aveva progressivamente adombrato i restanti domini ecclesiastici che, da sempre reputati accessori strumenti di sostentamento del sovrano e della corte, vennero di qui declassati a un ruolo subalterno.
Invero, nobili di origine feudale e alti prelati non avevano mancato di avviare virtuosi processi di rinnovamento locale. Ciò nondimeno, questi interventi erano stati di norma sporadici e troppo spesso legati a volontà singole. Pertanto, in epoca moderna tali operazioni condotte in economia avevano portato le province del papato sostanzialmente a confermare la loro condizione sub-regionale di perimetro amministrativo, rinunciando contestualmente a porsi quale pars construens dell’identità nazionale.
Tuttavia, il costante e inarrestabile indebolimento dell’autorità papale – in atto a partire dalle paci di Westfalia (1648) – stravolse a cavallo del secolo successivo questa consolidata tendenza e portò rapidamente l’interesse statale a spostarsi dall’Urbe alle aree più periferiche, onde costruire un sistema efficiente di movimentazione delle merci ed estrazione delle tasse. Ciò comportò una diffusa ripresa degli investimenti che, gradualmente, si accompagnò a un rilancio artistico con esiti di qualità spesso dimenticati per via della loro dimensione regionale. E, in questo frangente, la Romagna sembrerebbe costituire un valido exemplum virtutis, giacché rappresentò a quell’epoca un vero e proprio laboratorio culturale di decantazione delle ricerche artistiche precedenti.
Anzitutto si potrebbe discutere della sua architettura ad usum publicum, ossia di tutte quelle realizzazioni tese ad assolvere a un preciso scopo di servizio alla cittadinanza o, altresì, utili ai commerci e alla vendita al dettaglio dei prodotti: porti, strade, ponti, macellerie, pescherie, ospedali, uffici pubblici e magazzini. Tuttavia, più che esempi di queste tipologie, sono sopravvissuti fino a oggi solo le notizie attinenti alla loro messa in opera, occasionalmente accompagnate da disegni esplicativi. E questo perché la successiva antropizzazione del contesto, la mutazione della geografia costiera, il cambio d’uso di numerosi di questi stabili e la sostituzione delle attrezzature più desuete con nuove e più efficienti infrastrutture hanno determinato in molti casi un inevitabile smantellamento.
Lo stesso, però, non può dirsi per i luoghi di culto: un cospicuo numero di edifici che, in uno stato a guida religiosa, delineavano tanto quanto i palazzi del governo cittadino l’immagine del potere e che – una volta riconosciuti come presidi attivi sul territorio a garanzia della solidità del prestigio papale – divennero ben presto oggetto di migliorie, possibilmente nel tracciato delle novità provenienti da Roma.
Ad esempio, le forme della chiesa forlivese di Santa Maria della Visitazione del Suffragio (dal 1723), idea del bresciano monaco camaldolese dell’abbazia ravennate di Classe Giuseppe Antonio Soratini (1682-1762), furono mutuate direttamente dalla chiesa di Sant’Andrea al Quirinale (dal 1656) di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680): una semplificazione e regolarizzazione che saggiava le potenzialità dell’archetipo di partenza nel tentativo di definirne una sua versione adeguata alle limitate finanze della località romagnola (fig. 1).
D’altra parte, la cronica assenza di coperture economiche e la scarsità delle disponibilità private non consentivano di certo di intraprendere cantieri particolarmente onerosi e complicati sul piano costruttivo, senza considerare – inoltre – la limitata capacità operativa delle maestranze in situ, meno esperte di quelle romane. Così, a fronte di alcune invarianti progettuali, sembra intendersi che a Forlì si rinunciò a diversi elementi caratteristici del prototipo capitolino – come l’orientamento trasversale, i coretti, e la lanterna – in favore di una più coerente organizzazione globale, rispettosa della longitudinalità propria della liturgia cattolica controriformista e della destinazione parrocchiale della stessa. In aggiunta, attenzioni particolari si riservarono pure alla solidità della struttura, risolvendola secondo criteri di massimo risparmio e minimo impegno di risorse; nella fattispecie, adottando una cupola in legno non bisognosa di contraffortature.
La centralità, però, rimaneva un criterio essenziale: non solo perché era alla base della maggior parte delle originali invenzioni seicentesche in circolazione e sinonimo di immediata attualità ma, soprattutto, perché ancora nel primo Settecento costituiva il tema informante anche i più recenti organismi sacri locali di matrice romana, come la chiesa del Suffragio di Ravenna (dal 1701). Opera di Francesco Fontana (1668-1708) – esperto perito camerale e già vice-Principe dell’Accademia di San Luca (1703) – questa fabbrica venne commissionata al figlio del «celebre architetto»
Carlo Fontana (1638-1714) precisamente negli stessi anni in cui il giovane era attivo sul litorale romagnolo nella ricostruzione del borgo di Cervia (dal 1698), rifondato in un luogo più salubre che consentisse uno sfruttamento intensivo delle sue saline senza conseguenze sulla salute degli abitanti.
Regolare e chiaramente scandita nelle sue apparecchiature, la moderna chiesa dedicata a tutte le anime del Purgatorio si pose dunque in questo momento di trasformazione come il termine discriminante la rinascita della regione la quale, dopo la decadenza dei secoli precedenti, si apprestava ora ad affrancarsi dal passato con un progetto in grado di fondere la tettonicità delle masse propria dei monumenti antichi – su tutti il vicino San Vitale (dal 525 d.C.) – con la libertà espressiva dell’indagine barocca, secondo una naturalezza intesa quale razionalità di struttura e funzionalità di disposizione (fig. 2).
In questa maniera, la magniloquenza e la magnificenza emergevano dalla stessa nobiltà e classicità dell’impianto, ribadite da soluzioni severe come il tiburio (posto a dissimulare all’esterno la cupola) e la ferma gerarchia delle componenti parietali, mentre la pluralità di accenti dell’ornato interno conferivano parallelamente leggerezza e plasticità: un bilanciamento teso a delineare un’architettura che fosse sia decorosa nel suo complesso sia idonea a porsi quale paradigma dell’intera collettività che la medesima polarizzava. Ciononostante, l’individualità eccezionale di un unico episodio non poteva sintetizzare da solo il sentimento di generale riscatto di una società sempre più parte integrante dello Stato Ecclesiastico; a maggior ragione se questo si trovava in una città lontana dalle principali vie di comunicazione.
Conseguentemente, anche in altre località della provincia si avvertì l’opportunità di competere sul piano artistico, ingaggiando, laddove possibile, architetti di spicco in qualità di progettisti o, quanto meno, di supervisori. Una situazione di questo tipo si presentò a Cesena, dove Luigi Vanvitelli (Napoli, 1700 – Caserta, 1773) – futuro direttore dei lavori della Reggia di Caserta (dal 1750) – venne coinvolto nell’aggiustamento del disegno in itinere della chiesa di Sant’Agostino (dal 1747): un cantiere la cui ricostruzione ab imis fundamentis si era arenata allorché dispute sulle forniture avevano sollevato il dubbio di illeciti guadagni (fig. 3).
Invece, diversa si configurò la crescita di Rimini, la quale non si avvalse di consulenti forestieri se non raramente. D’altra parte, predominava allora in città l’influenza del «Cavalier dello Speron d’Oro» Giovan Francesco Buonamici (1692-1759), responsabile del rifacimento della chiesa Metropolitana di Ravenna (dal 1734) e – in seguito – dell’ottimizzazione del porto di Pesaro (1754): un professionista la cui assidua partecipazione alla quotidiana gestione della municipalità se da una parte orientò le scelte dell’amministrazione verso un più netto funzionalismo – morigerato nei paramenti e connotato da una sobria articolazione lessicale –, dall’altra ne rivoluzionò la percezione, introducendo stratagemmi spaziali di diretta provenienza romana.
Più nello specifico, a San Bernardino (dal 1757) il progettista introdusse dei diedri concavi a smussare gli angoli della sala (fig. 4) seguendo le orme di quanto, pochi decenni prima, aveva operato Giovan Battista Contini (1642-1723) nella chiesa capitolina delle Santissime Stimmate di San Francesco (dal 1704) e già Francesco Borromini (1599-1667) aveva ininterrottamente sperimentato durante tutta la sua esistenza.
Eppure, proprio l’osservazione di un esito di rilievo come questo tradisce oggi, in realtà, il limite della ricerca di molti esperti romagnoli i quali, incapaci di coordinare tutti gli elementi in una ferrea sintassi, diedero luogo a prodotti il più delle volte eterogenei e privi di quella coerenza viceversa accertabile nelle formulazioni degli architetti papali: una composizione per successive aggregazioni fondata su una disinvolta elasticità che, sebbene talvolta connotata da sgrammaticature, ciononostante riuscì comunque di tanto in tanto a giustapporre in maniera convincente sequenze estrapolate da distinti exempla, come testimoniano le chiese faentine dell’Umiltà (dal 1740) e dei Ss. Ippolito e Lorenzo (dal 1770).
Autori della prima costruzione (fig. 5) furono presumibilmente i capomastri del luogo Giovanni Battista Boschi (1702-1788 ca.) e Raffaele Campidori (1691-1754), i quali aggiornarono il perimetro interno dell’aula unica in esecuzione avvalendosi di alcuni espedienti direttamente tratti dal campione eccezionale del San Carlino borrominiano, ampiamente riprodotto nelle pubblicazioni in circolazione.
Tuttavia, i due non interpretarono l’archetipo nella stretta consonanza delle parti e reciproca fusione delle componenti quanto, piuttosto, nella sua plasticità spaziale, a sua volta amplificabile attraverso la moltiplicazione delle decorazioni. Allo stesso modo, nel secondo caso (fig. 6), l’anonimo inventore del disegno di progetto (forse, nuovamente, Soratini?) propose sì un impianto tradizionale impostato su una monoaula priva di cappelle laterali, ma lo nobilitò mediante motivi ornamentali meccanicamente desunti dalla navata centrale della basilica di San Giovanni in Laterano.
In definitiva, distinto emerse nel Settecento romagnolo un tentativo diffuso di avvicinamento all’architettura romana: una serrata presa in esame e discernimento delle conquiste barocche e precedenti che, svolta secondo un processo di emulatio e non di imitatio, condusse a risultati utili e – al tempo stesso – di qualità.
Iacopo BENINCAMPI Roma 19 dicembre 2021
NOTA