di Sergio ROSSI*
Con questo numero “speciale” iniziamo la pubblicazione degli scritti che il Prof Sergio Rossi (già La Sapienza Università di Roma) ha dedicato all’approfondimento di tematiche e valutazioni relative alla figura e all’opera di Caravaggio. Non si tratta di giudizi estemporanei che ormai troppi pseudo esperti -invariabilmente dilettanti- si ritengono in grado di dare, approfittando del grande seguito che la figura del genio lombardo assicura, bensì delle riflessioni che uno studioso assai noto, già assistente universitario di Giulio Carlo Argan e poi docente e collaboratore alla Facoltà di Lettere di Maurizio Calvesi, ha elaborato alla luce dei suoi studi e delle sue ricerche che oggi portano a riconsiderare -come potranno verificare i lettori- molti giudizi e a rivedere anche molti luoghi comuni scambiati spesso alla stregua di autentici verdetti. Abbiamo diviso in due parti molto sostanziose il primo di questi lavori, pubblicando oggi il testo relativo alle committenze Mattei pubblicando in esclusiva le analisi riflettografiche sulla Presa di Cristo e sul San Francesco in meditazione sulla croce, noto come ex Cecconi; nel numero di domenica prossima il proseguimento. A seguire altri importantissime novità.
*NB. Le immagini relative alla Presa di Cristo ex Sannini (ora coll. Mario Bigetti) sono quelle della fase di pulitura, quindi non sono abbastanza aderenti alla realtà.
Ancora su Caravaggio e i Mattei: addenda, verifiche e messe a punto.
Quello del rapporto del Caravaggio con la famiglia Mattei può considerarsi uno tra i legami più significativi di tutto il mecenatismo romano del primo Seicento. Su di esso un contributo molto importante, ma ad ormai ventisette anni dalla sua uscita bisognoso di alcune verifiche e alcune correzioni, lo ha fornito il libro di Francesca Cappelletti e Laura Testa Il Trattenimento dei virtuosi[1], che Maurizio Calvesi nell’Introduzione al volume, così presentava:
«L’aspetto più vistoso della ricerca documentaria condotta da Francesca Cappelletti e Laura Testa, nel ricostruire le collezioni di antichità e di dipinti dei Mattei, è costituito senz’altro dalle novità che riguardano il Caravaggio. Della Cena in Emmaus di Londra, dipinta secondo il Bellori per Scipione Borghese, non solo è chiarita l’originaria appartenenza a Ciriaco Mattei, ma viene acquisita l’esatta datazione al 1601 … La presa di Cristo nell’orto, recentemente ritrovata e in precedenza datata in vario modo … spetta al 1602. Il San Giovanni Battista delle collezioni capitoline è con ogni verosimiglianza da collegare a pagamenti della seconda metà del 1602. Su L’incredulità di San Tommaso, ricordata dal Baglione[2] fra le tele eseguite per Ciriaco non è emerso alcun documento, il che sembra indicare che in realtà fu eseguita per Vincenzo Giustiniani, che la possedeva già nel 1607».[3]
Questo solo per evidenziare alcuni dei contributi specifici del volume che naturalmente ha anche il merito di ricostruire il giusto peso che i Mattei hanno avuto non solo nell’ambito del mecenatismo ma anche in quello più vasto delle relazioni politiche, religiose e culturali della Roma seicentesca.
Se molto è stato detto, moltissimo rimane ancora da dire, come il presente saggio cercherà di dimostrare, attraverso conferme, ipotesi, approfondimenti. La conferma riguarda la Cena in Emmaus di Londra [fig. 1]
per la quale il libro delle due studiose rimane un punto fermo; l’ipotesi si riferisce al San Giovanni Battista capitolino, che secondo una recente analisi di R. Papa[4] sarebbe piuttosto un Isacco e secondo me una figura che partecipa ambiguamente di entrambi i personaggi [fig.2]; gli approfondimenti riguardano innanzi tutto un dipinto non preso in esame ne Il trattenimento e che invece considero, in base a recenti ed approfondite ricerche, legato anch’esso alla famiglia Mattei e cioè il San Francesco in contemplazione già nella collezione Cecconi[5] [fig. 3];
ed ancora La presa di Cristo nell’Orto, la cui versione originale, proprio in base ad una attenta lettura dei documenti pubblicati nel volume testé citato, e contrariamente a quanto pensavano le stesse autrici, non è la tela ora nella National Gallery di Dublino [fig. 4]
ma quella già appartenuta alla collezione Sannini[6] [fig.5].
Prima di analizzare nello specifico tutte queste opere occorre però spendere due parole introduttive proprio sui principali esponenti della famiglia oggetto di questo saggio e del ruolo da essi svolto nei più importanti ambienti religiosi, politici e culturali della Roma pontificia, ad iniziare da Girolamo Mattei, salito nel 1586 alla dignità cardinalizia:
«Esperto di diritto, egli faceva parte della Congregazione per l’attuazione e l’interpretazione dei decreti del concilio di Trento e venne incaricato dal pontefice di redigere, insieme ai cardinali Pinelli, Pietro Aldobrandini ed Ascanio Colonna una nuova edizione delle decretali. Deputato della Congregazione Francese e protettore dell’Irlanda, in stretti rapporti con la famiglia dei Medici…il cardinale era membro dell’Arciconfraternita del Gonfalone e protettore dei Francescani e del convento dell’Ara Coeli, che si preoccupa di far restaurare e ristrutturare tra il 1597 e il 1598. L’adesione alle concezioni evangeliche proprie dell’ordine dei mendicanti e della cerchia di Federico Borromeo, con il quale è in contatto epistolare, tese a salvare il valore delle opere e la promozione della carità, lo induce a fondare il Collegio Mattei, istituzione culturale preposta a fornire di un sostentamento adeguato i giovani poveri che volessero intraprendere gli studi ecclesiastici, e ad alloggiare nel suo palazzo in tempo di carestia “una quantità di poveri cui forniva di tutto l’occorrente”».[7]
Vedremo presto come queste sue relazioni privilegiate con i Francescani, gli ordini mendicanti e Federico Borromeo ci risulteranno preziose per collegare il già citato San Francesco in contemplazione proprio a lui ed al fratello Ciriaco.
Quanto a quest’ultimo, egli è stato, per cultura e ricchezze, un personaggio di prima grandezza nella Roma tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, legatissimo, tra l’altro all’ambiente degli Oratoriani ed in diretto rapporto con San Filippo Neri:
«Era proprio nella sua villa della Navicella che il santo si fermava in occasione del pellegrinaggio delle sette chiese e, appoggiato ad un sedile di pietra, “discorreva coi suoi discepoli delle cose di Dio”…mentre…ulteriori legami collegano Ciriaco non solo all’Oratorio, ma in generale ai circoli del settore più avanzato ed illuminato della riforma cattolica romana»[8].
E la sua predilezione per l’arte di Caravaggio, dovuta oltre che a preferenze estetiche anche a ragioni ideologiche e di comune sensibilità religiosa, appare evidente se si considera che egli era disposto a pagare cifre altissime per avere i suoi quadri.
Il Merisi dunque, come appare ormai inconfutabile sulla base degli studi più recenti, per quanto ribelle, peccatore, insofferente alle regole ed inviso a molti potenti era allo stesso tempo un appassionato credente “legato al settore più illuminato” del cattolicesimo romano, dotato di una cultura e memoria artistica prodigiosa e ricercato e protetto da alcune delle più influenti famiglie dell’Urbe. Eppure ancora oggi, non ostante tutte le evidenze, l’immagine di un Caravaggio ignorante e circondato da committenti e mecenati ignoranti quanto lui, eretico o addirittura ateo e capace di dipingere solo quello che aveva davanti agli occhi è purtroppo dura a morire.
Un ottimo esempio di come un eccessivo pregiudizio “anti iconologico” e negazionista di ogni significato allegorico, religioso e morale presente nella pittura del Merisi possa portare a dei veri e propri fraintendimenti storiografici lo abbiamo nel commento di Evelina Borea alle Vita del Caravaggio del Bellori,[9] certo ormai datato (1976) ma indicativo di quel “fanatismo” longhiano che ancora oggi pervade troppi studi sul Merisi e finisce per fare un pessimo servizio anche al pensiero del Longhi stesso, che del maestro lombardo rimane uno dei massimi e insuperati interpreti.
Valga su tutti questo brano:
«Il significato allegorico e i riferimenti culturali che si possono riconoscere in una figurazione caravaggesca sono sempre un fatto secondario [?? punto interrogativo mio] rispetto alla straordinarietà di quel modo di dipingere il mondo sensibile in presa diretta, in termini di fisica concretezza. Nell’epoca moderna, impostando su questa base [cioè del testo belloriano del 1672!] l’interpretazione dell’arte eversiva del Caravaggio, Roberto Longhi, non si discosta dall’impostazione dello scrittore seicentesco».
Come dire in sostanza che il Longhi è rimasto fermo al XVIII secolo! Ma la Borea prosegue additando secondo lei al pubblico ludibrio coloro che sostengono nientemeno che Caravaggio
«copiava i sarcofagi antichi, si proponeva sempre fini edificanti, era il Giordano Bruno della pittura, non dipingeva un quadro senza celarvi moralistiche allusioni e citazioni dal Ripa o dall’Alciati, traduceva in pittura i pensieri di Plotino, Sant’Agostino, San Filippo Neri, Federico Borromeo, celava sottofondi alchemici: particolarmente significativo della tendenza attuale delle ricerche su Caravaggio “esoterico” il saggio di M. Calvesi (Caravaggio o della salvazione “Storia dell’arte, 9-10, 1971, pp. 93-141) al di là di ogni limite di credibilità».[10]
A parte il malriuscito tentativo di fare una pessima caricatura del pensiero del Calvesi, che comunque lo studioso è andato poi man mano a precisare ed affinare, è evidente come sia proprio l’immagine del Merisi che ha la Borea (ma anche, ad esempio, Ferdinando Bologna a vent’anni di distanza) come di qualcuno che non sa dipingere se non ha un modello qualsiasi davanti agli occhi, ad essere ormai insostenibile.
Al confronto, il pensiero del Bellori diventa un modello di obiettività. Il grande teorico seicentesco per giustificare le sue critiche al Caravaggio parte infatti da un assunto che è una sorta di summa dell’idealismo accademico e coniuga, anche se in maniera un po’ ingenua e come vedremo anche contraddittoria, platonismo ed aristotelismo:
«Quel sommo ed eterno intelletto autore della natura nel fabbricare l’opere sue maravigliose altamente in se stesso riguardando, costituì le prime forme chiamate idee; in modo che ciascuna specie espressa fu da quella prima idea, formandosene il mirabile contesto delle cose create».
Ma la natura, pur mirando sempre a “produrre gli effetti suoi eccellenti” è sottoposta “all’inequalità della materia”:
«Il perché li nobili pittori e scultori, quel primo fabbro imitando, si formano anch’essi nella mente un esempio di bellezza superiore, ed in esso riguardando, emendano la natura senza colpa di colore e di lineamento. Originata dalla natura […l’Idea…] supera l’origine e fassi originale dell’arte. Misurata dal compasso dell’intelletto, diviene misura della mano, ed animata dall’immaginativa dà vita all’immagine…Idea del pittore e dello scultore è quel perfetto esempio della mente, alla cui immaginata forma imitando, si rassomigliano le cose che cadono sotto la vista»[11].
E’ evidente qui la contraddizione del ritenere inizialmente l’Idea originata direttamente in Dio, e successivamente “originata dalla natura”, contraddizione che contraddistinguerà l’intero pensiero belloriano ma che non ha impedito l’enorme fortuna del testo e che ha comunque una sua logica ragion d’essere e cioè quella di contrapporre l’arte di Annibale Carracci, perfetto esempio di sintesi tra Idea e Natura, a quella del Caravaggio “puramente naturale”. Infatti, la semplice imitazione è tanto inferiore alla vera arte
«che gli artefici similitudinari e del tutto imitatori de’ corpi, senza elezzione e scelta dell’idea, ne furono ripresi: Demetrio ricevé nota di essere troppo naturale, Dionisio fu biasimato per aver dipinto uomini simili a noi, comunemente chiamato antropografos, cioè pittore di uomini. Pausone e Pirreico furono condannati maggiormente, per aver imitato li peggiori e li più vili, come in questi tempi Michel Angelo da Caravaggio fu troppo naturale, dipinse i simili, e ‘l Bamboccio i peggiori».[12]
Del resto qui Bellori ripete quanto già sostenuto da Aristotele nella Poetica, quando il filosofo, dopo aver osservato che i poeti imiteranno o uomini migliori di noi, o peggiori di noi o come noi, scrive:
«Così fanno i pittori. Polignoto, per esempio, raffigurò esseri migliori, Pausone peggiori, Dionisio simili … E’ questa è appunto la differenza onde anche si distinguono tragedia e commedia: chè l’una tende a rappresentare personaggi peggiori, l’altra migliori degli uomini d’oggi».
Pensiero ripreso agli inizi del ‘600 da G. B. Agucchi:
«Il Bassano è stato un Pierico nel rappresentare i peggiori…il Caravaggio, eccellente nel colorire si dee comparare a Demetrio, perché ha lasciato indietro l’idea della Bellezza, disposto a seguire del tutto la similitudine»[13].
Quanto al Bellori, nella Vita del Caravaggio egli aggiunge:
«Giovò senza dubbio Caravaggio alla pittura, venuto in tempo che, non essendo molto in uso il naturale, si fingevano le figure di pratica e di maniera, e sodisfacevasi più al senso della vaghezza che della verità. Laonde costui, togliendo ogni belletto e vanità al colore, rinvigorì le tinte e restituì ad esse il sangue e l’incarnazione… Sì come dunque alcune erbe producono medicamenti salutiferi e veleni perniciosissimi, così il Caravaggio, se bene giovò in parte, fu nondimeno molto dannoso e mise sottosopra ogni ornamento e buon costume della pittura. E veramente li pittori, sviati dalla naturale imitazione, avevano uno che li rimettesse nel buon sentiero; ma come facilmente, per fuggire un estremo s’incorre nell’altro, così nell’allontanarsi dalla maniera, per seguitare troppo il naturale, si scostarono affatto dall’arte, restando ne gli errori e nelle tenebre; finché Annibale Carracci venne ad illuminare le menti ed a restituire la bellezza all’imitazione»[14].
Questa radicale opposizione dei Carracci alla poetica caravaggesca è indubbiamente un elemento critico inconfutabile che può così sintetizzarsi: i Carracci sono i pittori del «verosimile», Caravaggio è il pittore del «vero», parafrasando la nota distinzione formulata da Aristotele nella Poetica, un testo, non dimentichiamolo, che ha conosciuto una nuova fortuna già a partire dalla seconda metà del XVI secolo, anche per quel che riguarda l’applicazione dei suoi principi all’arte figurativa.
Per Aristotele, infatti, la differenza tra lo storico e il poeta è che il primo narra gli avvenimenti così come sono realmente accaduti, il secondo come dovrebbero accadere “secondo verosimiglianza e necessità”. E se il poeta si trova a dover scegliere tra il descrivere un avvenimento realmente accaduto ma “inverosimile” o incongruente con la storia da narrare ed uno “verosimile” e logico anche se inventato deve scegliere senz’altro quest’ultimo.[15]
Applicato all’arte figurativa questo assunto coincide proprio col principio della “natura corretta dall’idea” teorizzato dal Bellori. Ora per l’appunto la natura dei quadri dei Carracci è una natura idealizzata e proprio per questo poeticamente “verosimile”. Al contrario Caravaggio racconta la realtà così come essa è senza sottoporla a nessun filtro di carattere poetico o storico così “vera” da divenire “inverosimile”.
Certo oggi noi sappiamo che questa analisi dell’arte del caravaggesca era frutto dei pregiudizi storiografici del classicismo seicentesco ma essa era pur sempre in grado di cogliere, sia pure in negativo, la sconvolgente carica rivoluzionaria del suo modo di dipingere che si contrapponeva alla controllata modernità della pittura carraccesca. Ed in questo ha certamente ragione la Borea, solo che la studiosa trasforma un pregiudizio critico (come ho appena rilevato) sia pure non privo di una sua intima verità in una impostazione tanto feconda da costituire la base stessa del pensiero longhiano non accorgendosi, così facendo, di rendere un pessimo servizio al suo Maestro.
Venendo finalmente ad analizzare nello specifico i dipinti del Merisi presenti nelle collezioni Mattei ed iniziando dalla Cena in Emmaus ora alla National Gallery di Londra, è ancora dal Bellori che dobbiamo partire:
«Alli signori Massimi colorì un Ecce Homo che fu portato in Ispagna, ed al marchese Patrizi la Cena in Emaus, nella quale vi è Cristo in mezzo che benedice il pane, ed uno degli apostoli a sedere nel riconoscerlo apre le braccia, e l’altro ferma le mani sulla mensa e lo riguarda con meraviglia: evvi dietro l’oste con la cuffia in capo ed una vecchia che porta le vivande. Un’altra di queste invenzioni dipinse per lo cardinale Scipione Borghese, alquanto differente; la prima più tinta e l’una e l’altra alla lode dell’imitazione del colore al naturale; se bene mancano le parti del decoro, degenerando spesso Michele nelle forme umili e volgari»[16]…E più avanti…«Nella Cena in Emaus, oltre le forme rustiche delli due apostoli e del signore figurato giovine senza barba, vi assiste l’oste con la cuffia in capo, e nella mensa vi è un piatto d’uve, fichi, melagrane fuori di stagione»[17].
A parte la confusione sui committenti ed il lapsus sulla “vecchia che porta le vivande” che è invece presente nella Cena in Emmaus ora a Brera, dovuta forse al fatto che il Bellori cita a memoria le opere magari viste molto tempo prima, la sua descrizione è però fondamentale per più di un motivo. Innanzi tutto egli non può fare a meno di lodare “l’imitazione del colore al naturale”, e da tutta la sua descrizione traspare una mal celata ammirazione per la resa naturalistica delle figure ed il pathos drammatico che esse emanano. Ma questi elementi positivi non riescono a bilanciare le critiche che sono comunque più ideologiche che stilistiche e si possono riassumere nel concetto che anche qui Caravaggio è talmente “vero” da risultare “inverosimile”, senza decoro e addirittura “volgare”: in pratica una summa di tutti i pregiudizi accademici.
Inoltre Bellori, in questo più lungimirante e avveduto di tanti storici dell’arte di oggi, sa benissimo cogliere il significato religioso del cesto di frutta posto in bilico sulla mensa, perché quando critica il fatto che «vi è un piatto d’uve, fichi, melagrane fuori di stagione» cioè con frutti tardo estivi e autunnali inseriti in un contesto indubitabilmente primaverile riconosce apertamente il valore simbolico da attribuire al cesto medesimo come allusivo alla morte e resurrezione di Nostro Signore.
Ma perché Caravaggio inserisce appunto questo elemento in un conteso “fuori di stagione”? Per lo stesso motivo per cui veste i protagonisti della scena con abiti moderni: perché il dramma religioso va sottratto alla contingenza del tempo e della storia e deve assumere un valore universale, come era già avvenuto ad esempio nel Martirio di San Matteo in San Luigi dei Francesi o avverrà di lì a poco nella Cattura di Cristo.
Nella Cena in Emmaus, comunque, siamo di fronte ad uno dei capolavori assoluti di tutta la pittura occidentale, sconvolgente per la sua modernità ed il suo realismo, come se una macchina da presa zummasse al rallentatore ed in presa ravvicinata sui protagonisti, illuminati dall’alto da una luce radente che sembra farli tutti uscire dalle tenebre del peccato. E lo spettatore viene quasi accompagnato verso Gesù Cristo dalle braccia aperte a forma di croce di San Giacomo, insieme apostolo e pellegrino, con un gesto che al contempo ribadisce il significato di morte e resurrezione del dipinto; mentre il Redentore, a sua volta, con la sua mano protesa in avanti verso l’altro discepolo che sta per alzarsi dalla sedia per lo stupore, ristabilisce mirabilmente l’equilibrio della scena.
L’episodio è narrato come è noto solo nel Vangelo di Luca, cap. XXIV, e riferito a due discepoli dei quali solo uno viene citato per nome e cioè Cleopa o Cleofa. Per cui, proprio quest’ultimo, non meglio identificato, e Giacomo maggiore o di Zebedeo sarebbero, secondo l’esegesi più comune, i protagonisti della tela. Ma così facendo non si tiene conto del fatto che l’altro Giacomo, il minore, era figlio di un Cleofa, per cui è ipotizzabile che Caravaggio o i suoi consulenti abbiano fatto confusione tra i due Giacomi ed è dunque proprio con la figura del pellegrino con la conchiglia al petto e le braccia spalancate che il Cleofa di Luca deve essere identificato. In ogni caso, vista anche la data di esecuzione del dipinto, da porsi entro il 1601 e quindi in contiguità con l’Anno Santo di inizio secolo appena trascorso, è evidente e forse non abbastanza sottolineato dalla critica, lo stretto rapporto tra il dipinto e l’evento giubilare, ribadito dal volto imberbe del Cristo benedicente e che quindi rimanda all’iconografia cristiana del Buon Pastore e allude al contempo alla funzione evangelizzatrice della Chiesa che ha certo nei Giubilei un suo momento particolarmente significativo.
Anche la tavola imbandita, con la sua assoluta pregnanza visiva e simbolica diventa una sorta di quinto protagonista, e non certo il minore, della tela: ma quali sono, nel dettaglio, i frutti dipinti dal Caravaggio nella sua meravigliosa canestra, accanto al pane ed al vino sul cui significato eucaristico non credo che anche il più fanatico degli epigoni longhiani potrebbe avere qualcosa da obiettare? Mele, mele cotogne, pere, nespole, fichi, melograni ed uva bianca e nera strabordante dalla canestra, tutti frutti che solo in modo molto estensivo posso definirsi come autunnali perché potevano essere raccolti in un arco di tempo che va da agosto a novembre avanzato [fig.5 bis].
Più esattamente: la mela (malus domestica, di origine centro-asiatica) va da fine agosto a metà ottobre; la mela cotogna (cydonia oblonga, di origine anatolico persiana) va da settembre a fine ottobre; la pera (pyrus compunsi, di origine europea e asiatica) va da fine luglio a fine settembre; la nespola (mespilus germanica, di origine caucasica e dell’Asia Minore) si raccoglieva tra ottobre e novembre; il fico nero (ficus carica, di origine anatolica) a settembre; la melagrana (punica granatum) va da ottobre a novembre e infine l’uva bianca e nera (vitis vinifera silvestris, di origine caucasica) va da inizio agosto a fine settembre.
In altre parole, visto che ai tempi di Caravaggio non esistevano né i frigoriferi, né i congelatori e nemmeno le serre, è da escludere che egli avesse potuto avere realmente davanti a sé un canestro con tutta la frutta che poi ha trasferito sulla tela. Pertanto dobbiamo concentrarci piuttosto sul significato simbolico, religioso ed escatologico dei “pomi” intesi in senso lato e cioè non solo le mele, ma anche le pere, i fichi e le pesche (che avevamo già visto nel Bacchino malato della Borghese e ritroveremo nella Canestra di frutta dell’Ambrosiana).
Su di essi ha già scritto parole decisive Maurizio Calvesi, parole che non ostante i tanti maldestri tentativi di denigrazione rimangono un punto fermo nell’analisi di questi dipinti caravaggeschi: «Non è solo la mela il simbolo della redenzione operata dal Cristo cancellando il peccato originale, e quindi capovolgendo il significato negativo del frutto, ma anche la pesca (o mela persiana) e la pera [ed i fichi, aggiungo appunto io]» e «trovo ora ciò confermato- continua lo studioso- dal Friedmann e dall’esemplare libro di M. Levi D’Ancona:
“somethings the peach appears in painting of the Virgin and Child, in place of the apple, to symbolize the fruit of Salvation …”
Comunque le canestre del Caravaggio sembrano soprattutto celebrazioni dei “frutti” del Cristo, i frutti di Grazia da lui portati. Contestuali accenti di morte sono tuttavia intimamente connessi, come appunto l’ombra alla luce. Ed è paradigmatica in questo senso l’uva: allude al martirio [quella nera], ma al tempo stesso alla vita che dal martirio scaturì [quella bianca]»[18]. Duplice allusione confermata dai melograni aperti con la pienezza dei semi in evidenza, che simboleggiano l’amore misericordioso che si dona, ma attraverso il loro colore rosso sangue alludono anch’esse al martirio del Cristo ed alla sua resurrezione.
E’ comunque da rimarcare come il Merisi riesca a conferire pregnante attualità e assoluto spessore drammatico a tutto ciò che raffigura, perfino alla solo apparentemente inanimata Canestra di frutta dell’Ambrosiana di Milano del 1597/99 circa, che merita qualche osservazione aggiuntiva [fig.6].
Appartenuta al cardinal Federico Borromeo, essa non può essere considerata un semplice quadro “dal vero”, come pure qualcuno ancor oggi sostiene, mentre è evidente il suo significato allegorico, proprio del resto a tutte le nature morte di quest’epoca. Ma ad esso va sotteso anche, sulla scorta degli studi di Maurizio Calvesi già da me appena citati, un messaggio di natura religiosa confermato anche da Rodolfo Papa che osserva come l’opera riposi «non soltanto sull’evidenza dei frutti rappresentati, ma sfrutta il loro significato, che allude a qualcosa di ulteriore, come la mela allude al peccato, l’uva al vino e quindi per stensione al sangue di Cristo»[19] e in definitiva al suo sacrificio e alla sua redenzione.
La conferma più inequivocabile che siamo di fronte ad una allegoria cristologica viene comunque dal confronto tra questa natura morta e quella che compare in bella vista nella Cena in Emmaus di cui ci stiamo occupando. Intanto i due cesti di vimini sono praticamente identici ed entrambi posti quasi in bilico sulle tavole che li sostengono; ma anche la frutta che essi contengono è praticamente la stessa e per di più collocata nella medesima posizione, con solo qualche piccola differenza: la presenza di una pesca (prunus persica, di origine cinese, che a seconda delle varietà si può cogliere in luglio e agosto) nella versione dell’Ambrosiana al posto del melograno e il maggior risalto dell’uva bianca sull’uva nera nel dipinto ora a Londra, come a voler rimarcare l’elemento della Rinascita rispetto a quello del sacrificio, ben comprensibile dato che il soggetto complessivo dell’opera rimanda all’apparizione ai discepoli del Cristo risorto.
Al di là di questo, però, è quasi come se Caravaggio, nel dipinto Mattei, mettendo così in evidenza proprio il cesto di frutta, avesse voluto ribadire il significato “cristologico” della “Fiscella” dell’Ambrosiana; e sono convinto che tale significato fosse del tutto pacifico per il committente e gli osservatori dell’epoca, sicuramente assai più abituati a cogliere questo tipo di rimandi e dotte allusioni di quanto non lo siano tanti esegeti attuali.[20]
Tornando ora al rapporto della Cena in Emmaus con la famiglia Mattei, la ricostruzione che ne da Laura Testa è talmente esaustiva che non mi resta che citarne integralmente i punti salienti:
«Il 7 gennaio 1602 Ciriaco Mattei, di suo pugno, annota l’uscita di 150 scudi“per darli a Michel Angelo da Caravaggio pittore” come pagamento di un “quadro de N[ostro] S[ignore] in fractione panis”. Queste tre ultime parole del documento consentono di abbandonare ogni residuo dubbio sull’identificazione del quadro Mattei con la Cena in Emmaus conservata a Londra, nato dall’ambigua descrizione del Baglione, il quale ricorda che per Ciriaco Mattei il Caravaggio aveva dipinto un quadro raffigurante “quando N. Signore andò in Emmaus” e dall’ancor meno precisa testimonianza del Celio, assiduo frequentatore di Palazzo Mattei, che segnala presso i Mattei un quadro “de Emaus”.
Questa imprecisa definizione del soggetto ha indotto alcuni studiosi a postulare l’ipotesi che il dipinto Mattei raffigurasse un’Andata in Emmaus, di cui la tela di Hampton Court sarebbe una copia. In realtà il pagamento specifica che il dipinto raffigura il Cristo in “fractione panis” e la frase è analoga a quella impiegata dal Cavalier d’Arpino nel 1624 per descrivere la Cena in Emmaus del Caravaggio di proprietà del marchese Costanzo Patrizi, oggi a Brera: “un quadro grande di una cena quando cognoverunt eum in fractione panis mano del Caravaggio”, che già il Mancini, nel ricordarne l’esecuzione durante la fuga del pittore nei feudi dei Colonna a Zagarolo, aveva descritto come un “Christo che va in Emmaus”. Poiché non è menzionata nell’inventario di Giovan Battista Mattei del 1616, né in quelli successivi, bisogna supporre che la Cena in Emmaus, databile con certezza al 1601, venne presto ceduta al potente cardinale Scipione Borghese, giunto a Roma nel 1605, nella cui collezione è ricordata dal Manilli nel 1650, dallo Scannelli nel 1657 e dal Bellori nel 1672».[21]
Passiamo ora al San Giovanni Battista dei Musei Capitolini (v. fig. 2) che in realtà, secondo la recente acuta analisi iconografica di Rodolfo Papa rimanda anche alla figura di Isacco, ma che tutte le fonti antiche, tranne Gaspare Celio, interpretano appunto come il cugino di Gesù, e seguiamo sempre la ricostruzione di Laura Testa:
«Tra le opere eseguite per Ciriaco Mattei dal Caravaggio, il quale “intaccò quel signore di molte centinaia di scudi”, il Baglione ricorda un S. Giovanni Battista» e la sua testimonianza è confermata dalla guida di Gaspare Celio che elenca tra le opere del Merisi nel palazzo Mattei-Caetani, un “pastor friso” che la critica ormai unanimemente identifica con il San Giovanni Battista capitolino. Nel libro dei conti di Ciriaco due pagamenti di 60 e 25 scudi, effettuati al Caravaggio rispettivamente il 26 luglio 1602 ed il 5 dicembre dello stesso anno potrebbero essere collegati, anche per ragioni stilistiche, all’esecuzione del dipinto raffigurante S. Giovanni Battista, santo eponimo del figlio primogenito di Ciriaco. Alla morte del committente il quadro passò al figlio Giovanni Battista, nel cui Inventario della Guardaroba, redatto il 4 dicembre 1616, è descritto chiaramente: “Un quadro di San Gio: Battista col suo agnello di mano del Caravaggio con cornice rabescata d’oro”»[22].
Per i successivi passaggi di proprietà dell’opera fino al suo approdo attuale presso i Musei Capitolini rimando sempre alla ricostruzione che ne fa Laura Testa.
Riguardo al soggetto della tela, viene subito da chiedersi se il S. Giovannino sia in effetti tale. Non la pensa così, ad esempio, Rodolfo Papa che osserva innanzi tutto come manchino alla figura in questione alcuni fondamentali attributi del Battista, su tutti la croce e la scodella e poi che essa sia completamente nuda e non ricoperta da una pelle di agnello o di capretto. Anche la sua espressione sorridente fa piuttosto propendere verso il figlio di Abramo:
«Isacco, infatti, è la forma abbreviata di jçhq’el, ovvero” Dio sorrida, sia favorevole”, oppure ancora “Dio ha sorriso, si è mostrato favorevole”. Inoltre, la storia di Isacco, fin dall’annuncio della sua nascita, è legato al riso e al sorriso».
Ancor più decisivo, secondo Papa è l’abbraccio della nostra figura ad un tenero ariete:
«L’animale, infatti, è un simbolo di Cristo, più specificamente di Cristo crocifisso; per esempio, come è stato già da altri sottolineato [Röttgen, Calvesi], negli Hieroglyphica di Pietro Valeriano del 1575 l’ariete è definito “geroglifico” della croce, ma della Croce della redenzione: quell’ariete infatti, che al posto di Isacco viene oblato (f.77v.). Isacco e l’ariete insieme sono simbolo di Cristo, in quanto, come si evince per esempio dalla lettura dei Sermones di Sant’Agostino, l’avvento di Cristo nell’accezione sacrificale è prefigurato da Isacco unito all’ariete. Del resto la rappresentazione del sacrificio di Isacco come prefigurazione del sacrificio di Cristo, con l’immagine dell’ariete posta accanto a Isacco, è frequente nell’arte catacombale»[23].
E’ tuttavia ovvio che anche Giovanni Battista è una prefigurazione del Cristo e mi sembra altresì inequivocabile che la tela ora ai Musei Capitolini sia quello indicato negli inventari del 1616 come “Un quadro di San Gio. Battista col suo agnello di mano del Caravaggio con cornice rabescata d’oro” e da collegare altresì ai pagamenti che Ciriaco Mattei fece a Caravaggio nel 1602.
Che l’iconografia del dipinto fosse tutt’altro che pacifica lo dimostra però il fatto che nel 1638 Gaspare Celio parla del quadro come raffigurante “un pastor frisio” e che nell’inventario Pio del 1641 si parla di “un giovane nudo à sedere mezzo colco, quale tiene con braccio dritto abbracciato un agnello, e se lo accosta al viso”.
Mentre in effetti sia il Baglione nel 1642, sia il Bellori nel 1664 e nel 1674 descrivono la figura come quella del Battista[24]: e a far propendere verso quest’ultimo vi è anche la pelle di cammello sulla quale siede il giovane.
Per porre ordine in questo complicato intrico di inventari, descrizioni e analisi iconologiche si può avanzare l’ipotesi, che per il momento non può che rimanere tale, che il dipinto sia in effetti una raffigurazione volutamente e semanticamente ambigua, che rimanda contemporaneamente a Isacco e a San Giovanni Battista, entrambi del resto ritenuti delle prefigurazioni di Cristo. E’ dunque proprio il suo sostrato “cristologico” a caratterizzare in ultima analisi la nostra tela. Del resto non aveva già il Merisi dipinto nel cosiddetto Bacchino malato un giovane che assommava in sé le figure di Bacco e di Gesù? Per completezza d’informazione bisogna comunque riportare anche l’interpretazione del Moir[25], che riprende del resto precedenti osservazioni di altri studiosi ed afferma come il giovane in questione «nonostante sia stato accettato come San Giovanni, non è che un monello pagano, non toccato dal sentimento religioso» e quella di Clovis Whitfield che identifica la figura in quella di Coridone, il pastore omosessuale collegato con il segno astrologico dell’Ariete all’inizio dell’anno alchemico.[26]
Per quel che riguarda le nuove proposte, iniziamo da un dipinto non preso in considerazione nel Trattenimento dei Virtuosi e che in un mio recentissimo saggio ho invece collegato, con solidi argomenti[27], proprio alla famiglia Mattei e cioè il S. Francesco in contemplazione già nella collezione Cecconi [v. fig.3]. In effetti la Cappelletti e la Testa pubblicano un “Caravaggi S. Francesco [scudi] cinquecento” riportato in una stima posteriore al 1802 senza alcun commento[28]; notazione opportunamente ripresa da Jacopo Curzietti[29] che parla però di “un quadro attribuito al Merisi, non rintracciato” omettendo che in quella nota viene esplicitamente indicato un S. Francesco che, secondo me, è proprio il dipinto ex Cecconi.
Recentemente Giacomo Berra ha censito ben otto dipinti raffiguranti S. Francesco in meditazione (o forse sarebbe meglio dire in contemplazione) attribuiti, più o meno con fondamento al nostro pittore: quello già della collezione Cecconi, [v. fig.3] che io considero il prototipo autografo da cui derivano poi tutte le altre repliche o copie antiche; quello ora presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini di Roma in deposito dalla chiesa di S. Pietro di Carpineto Romano [fig.7]; quello della chiesa romana di Santa Maria della Concezione, nota anche come chiesa dei Cappuccini [fig.8];
quello di una collezione privata maltese; quello della collezione Lampronti e quello già nella chiesa del Suffragio a Sant’Arcangelo di Romagna e altre due – nè si può escludere che ce ne siano altre – (29 bis) .
Un discorso a parte è quello relativo alle molte tele in cui il grande artista lombardo si identifica con la figura di S. Francesco. A questo proposito, già nel 1990 Alessandro Zuccari[30] vi aveva dedicato pagine decisive, precisando che «il pittore lombardo sembra aver fatto sue le istanze pauperistiche dei cappuccini non soltanto per ragioni di committenza, ma anche al motivo di una sua personale attrazione per quel filone di spiritualità che vedeva accomunate da vicendevoli simpatie figure autorevoli e popolari come Carlo Borromeo, Filippo Neri e Felice da Cantalice. Un indizio del suo interesse per il più povero degli ordini sorti nel Cinquecento è fornito da una testimonianza di Orazio Gentileschi che dichiarò-nel famoso processo del 1603 intentato dal Baglione contro lo stesso Caravaggio-di aver prestato “una veste da cappuccino” al suo amico Merisi, che gliela restituì dopo alcuni mesi».
Siamo esattamente il 14 settembre del 1603 ed il Gentileschi interrogato circa i suoi rapporti col Baglione e con Caravaggio e quando fosse stata l’ultima volta che li aveva visti risponde che è molto tempo che non parla col primo
«perché nell’andare per Roma lui aspetta che io facci di berretta, et io aspetto che facci di berretta a me et anco il Caravaggio, se bene m’è amico, aspetta che io lo saluti et se bene me sono amici tutti doi ma non c’è altro tra noi; ma deve essere sei o otto mesi che io non ho parlato al Caravaggio, se bene à mandato a casa mia per una veste da cappuccino che gliela imprestai et un paio d‘ale, che la veste deve essere da diece giorni che me la remandò a casa»[31].
Ed è proprio nell’ottica delineata da Zuccari che vanno inseriti i numerosi esempi in cui il nostro pittore non solo aderisce in modo generico alle istanze dei cappuccini ma addirittura si identifica, o se si preferisce si auto raffigura nelle vesti del santo d’Assisi. Come ha osservato di recente Carla Rossi, infatti, «il San Francesco in contemplazione non è l’unico dipinto in cui il pittore volle evidenziare il proprio rapporto empatico con il poverello di Assisi…e…la scelta di assimilarsi a Francesco, figura Christi, non fu occasionale ma è anzi indicativa della spiritualità del Merisi…che abbraccia, già alcuni anni prima della condanna capitale, la paupertas altissima francescana»[32].
Ora, fra i vari dipinti in cui Caravaggio per così dire si immedesima nei panni del Santo, l’unico in cui autoidentificazione ed autoritratto vero e proprio vengono quasi a coincidere è proprio il San Francesco in contemplazione ex Cecconi, molto vicino, seppure in controparte, all’autoritratto che compare nel fondo del Martirio di S. Matteo di S. Luigi dei Francesi, anche se con lievi differenze: la barba appena più lunga, il volto appena più emaciato.
Come osserva ancora Carla Rossi, il pittore, autoritraendosi tra i peccatori testimoni del martirio del santo, aveva già voluto sottolineare, attraverso il proprio sguardo carico di pietas per Matteo, la sua capacità di salvazione, ribadita ora, a non più di tre anni di distanza, nella tela oggetto della mia analisi. Essa, infatti va posta senza ombra di dubbio intorno al 1603 e non certo al 1606 che è la datazione ormai quasi unanimemente accettata per il Francesco in meditazione già a Carpineto Romano ed ora in deposito a Palazzo Barberini, ritenuto da una parte consistente dell’attuale storiografia (ma con autorevolissime eccezioni che presto analizzeremo) come l’unico autografo caravaggesco del soggetto in questione.
Inizierò dall’analisi dello stile ripetendo quando già scritto recentemente:
«il luminismo avvolgente, la morbidezza dell’impasto cromatico e della resa delle stoffe, come anche il particolare delle mani, analizzato fin nelle minime rughe con finezza descrittiva, avvicinano il nostro dipinto soprattutto al Sacrificio d’Isacco ora agli Uffizi: e si osservi ancora come il perfetto semicerchio della manica destra di Francesco sia identico a quello della piega della medesima manica di Abramo. Ma anche il S. Matteo e l’angelo di San Luigi dei Francesi (appena precedente) rivela notevoli concordanze stilistiche col dipinto ex Cecconi, mentre le tele databili intorno al 1606 evidenziano dei contrasti luministici e delle accentuazioni drammatiche estranee alla nostra tela e già presenti invece in quella ex Carpineto che è appunto del 1606».[33]
Fermo restando che sia la tela ex Cecconi, sia quella già a Carpineto, sia quella del Museo dei Cappuccini in Santa Maria della Contemplazione (ritenuta ormai da molti studiosi una copia quasi coeva all’originale), sono di altissima qualità, anche se con differenze non marginali, la prima delle tre, come ho ripetutamente rimarcato, si distingue proprio per il pathos che sa esprimere ma che viene sapientemente controbilanciato da una particolare morbidezza dell’impasto cromatico. In questo io sono confortato dal parere del massimo studioso della pittura del ‘600 italiano, sir Denis Mahon, che già il 7 gennaio 2007, in una lettera indirizzata al proprietario dell’opera e commentando una recente esposizione a Düsseldorf in cui la tela veniva giudicata un prototipo autografo del Merisi[34] scriveva parole decisive al riguardo:
«Dear Mario, it was good to see the St. Francis you showed me, after its return from the Dusseldorf Caravaggio. The results of the cleaning has been very positive, and the pentimenti revelead show that is, in my opinion, the original of the Cappuccini version at santa Maria della Concezione, and carpineto Romano (now in Palazzo Barberini, Rome) versions».
E Mina Gregori, nella Prefazione al Catalogo della mostra Caravaggio[35]a proposito del nostro dipinto scriveva:
«The essay [di Whitfield] also points to Caravaggio’s early activity, as we are coming to know it, as a copyist, wich he continued to exploit later. This has made it possible to attribute to him with good reason further versions of works that are already known. An instance of this is the brilliant Saint Francis at Prayer in the exhibition: a subjet known from various examples, among them the canvas from Carpineto Romano, usually located at palazzo Barberini. The example shown here differs from the others because it has numerous important pentiments».
Analisi sviluppata dallo stesso Whitfield, che del S. Francesco ex Cecconi così scriverà solo poco tempo dopo:
«Dans le présent tableau, dont les repentirs révélées par un nettoyage récent montrent qu’il s’agit de la première version de l’interprétation du thème par le Caravage, l’artiste souligne l’humilité et la souffrance de l’homme que beaucoup considéraient comme un alter Christus, dans un paysage rocailleux, sans recourir aux éléments sensationnels, tels les stigmates, quel les protestants attaquaient violemment en raison de leur idolâtrie supposée. Le naturalisme développé par Caravage était en parfaite harmonie avec le besoin de réalisme défini par Roberto Bellarmino sous l’expression de “vera rei similitudo”, et qui constitue une importante caractéristique des peintures florentines conservées à Rome … Chez le Merisi ce réalisme etait perçu notamment par des commanditaires tels quel les Mattei, comme une forme d’expression miraculeuse, bien plus impressionante que l’imitation minutieuse des détails proposées par la concurrence. Les Mattei semblent avoir possedé un Saint François de sa main, qui fit l’objet d’une évalutation bien plus élevée que celle de l’Arrestation du Christ vendue par la famille en 1802 (Dublin). Le réalisme développé ici est proche de celui de la Madone des pèlerins, conçu pour transmettre la simplicité de la pauvreté du saint. Cette version récemment découverte se caractèrise par des vastes repentirs visibles aux rayons X, qui illustrent les étapes de l’élaboration de l’image par le Caravage»[36].
Giudizio ribadito anche da Claudio Strinati che parla di
«magistrale versione, ritenuta con fondamento del Caravaggio, improntata a una tessitura cromatica più chiara e delicata, tendente a evidenziare la pacata luminosità promanante dal gesto del santo che unisce in sé le virtù teologali della Fede, Speranza e Carità in base alla impostazione che rifulge nel prototipo dei Cappuccini di S. Maria della Conciliazione, mettendo in evidenza il carattere intimo e sereno che porta il pittore ad ammorbidire il contrasto della luce e dell’ombra».[37]
Ricapitolando, a mio parere e come preciserò tra brevissimo, la tela ex Cecconi è del 1603, quella dei Cappuccini è coeva o di poco posteriore, quella di Carpineto è del 1606.
Entrando ancora più nello specifico e ritenendo giusta l’ipotesi del Cantalamessa di riferire proprio al S. Francesco la testimonianza di Orazio Gentileschi del prestito a Caravaggio di un saio da cappuccini[38], possiamo collocare questo dipinto entro un arco di tempo che va all’incirca dal febbraio al settembre del 1603, mentre riteniamo che il Merisi abbia poi abbia ripreso a memoria l’immagine di S. Francesco nelle successive tele in cui si è occupato dell’Assisiate, e segnatamente nel San Francesco in preghiera della Pinacoteca Civica di Cremona e nell’altro San Francesco in contemplazione già a Carpineto Romano, entrambi del 1606.
Ma, in definitiva, chi è stato il committente della tela di cui ci stiamo occupando? A mio parere si tratta di Ciriaco Mattei, che ha ospitato nel suo palazzo il nostro artista fin dal 1601 e che nel corso del tempo gli verserà centinaia di scudi e gli commissionerà almeno quattro dipinti certi di cui siamo a conoscenza ed altri che possiamo solo ipotizzare. Del resto
«la predilezione di Ciriaco per l’arte di Caravaggio, era dovuta oltre che a preferenze estetiche anche a ragioni ideologiche, di comune sensibilità religiosa»[39],
che ci riportano proprio nell’ambito della spiritualità francescana. Già il cardinale Girolamo, fratello di Ciriaco, come abbiamo osservato in precedenza, era membro dell’Arciconfraternita del Gonfalone e protettore dei Francescani e del convento dell’Aracoeli, così come Ciriaco, amico personale, fra l’altro, di san Filippo Neri. Se poi aggiungiamo che Girolamo muore proprio nel 1603, allora possiamo ritenere che il S. Francesco in contemplazione sia stato commissionato dai parenti del cardinale come una sorta di ex voto per celebrare la sua devozione verso l’Assisiate.
Devozione confermata dai soggetti che il cardinale ha voluto per gli affreschi dell’anti cappella e della cappella del suo palazzo, ora Caetani, i cui disegni sono di Cristoforo Roncalli (legato da amicizia personale con Girolamo ma anche particolarmente vicino alla spiritualità degli oratoriani) e la cui esecuzione spetta ai suoi collaboratori Giuseppe d’Aiello e Alessandro de’ Presciati; si tratta di S. Girolamo, eponimo del prelato, di S. Matteo e, naturalmente, di S. Francesco, raffigurato mentre riceve le stimmate e mentre vede approvata la sua regola[40].
Ma è anche sulla Vocazione di S. Matteo che vorrei spendere due parole: nel piccolo riquadro si vede infatti chiaramente Gesù Cristo che irrompe nella scena dal lato destro e chiama imperiosamente a sé il pubblicano Matteo che si volge verso di lui e fa lo stesso identico gesto con la mano destra che Caravaggio (che evidentemente conosceva bene questo affresco) ripeterà nella Cappella Contarelli, indicando in maniera inequivocabile sé stesso e non chissà quale altra figura alla sua sinistra e intenta a contare i denari sul tavolo, come da qualche studioso ancora oggi improvvidamente ipotizzato. [41]
Tornando al S. Francesco in contemplazione, il recente ottimo studio di Marco Pupillo su Francesco de’ Rustici, il committente della copia dei Cappuccini[42], avvalora sia pure indirettamente la mia ricostruzione circa il collegamento tra la versione ex Cecconi e la famiglia Mattei. Il de’ Rustici, infatti, risulta assiduo frequentatore della SS. Trinità dei Pellegrini, ed in contatto con l’ambiente oratoriano legato a S. Filippo Neri e con molti committenti del Caravaggio, come le famiglie Massimi e Cavalletti; ma soprattutto egli era in strettissimo rapporto con Ciriaco Mattei e proprio nel periodo 1601-1603, quando Caravaggio abitava nel palazzo del nobile romano.
Per cui, secondo me, Francesco ha potuto vedere l’originale caravaggesco proprio presso i Mattei e farlo copiare a Prosperino Orsi, definito già ab antiquo dal Baglione col termine di “turcimanno del Caravaggio” ed in contatto anch’egli con la famiglia Mattei. Scrive infatti il Pupillo:
«Certo è che [l’autore della versione della Chiesa dei Cappuccini] dette un’interpretazione estremamente personale del dipinto, non solo “addolcendolo”, come ha osservato la Vodret, ma anche modulandolo secondo gli stilemi della pittura caravaggesca dei primissimi anni del secolo e producendo un curioso effetto di retrodatazione (di qui la collocazione al 1603 circa, prevalentemente riferita dagli studiosi all’esemplare, quando ancora lo si credeva un originale)»
e poco più avanti aggiunge
«Non è facile avanzare ipotesi su quando fu commissionata la copia, ma è certo che dovette essere eseguita poco dopo l’esecuzione del dipinto [di Carpineto], che chi scrive ritiene databile intorno al 1606».[43]
Ora, se il prototipo non è quello ora a Palazzo Barberini, che del resto se è stato dipinto a Paliano, presso i feudi Colonna, come tutta la critica è ormai orientata a ritenere non so proprio quando e dove il supposto copista avrebbe potuto riprodurre, ma quello ex Cecconi, che ho datato con buoni argomenti al 1603 e di cui ho già evidenziato la maggiore morbidezza dell’impasto cromatico rispetto alla versione del 1606, ne consegue allora che la copia dei Cappuccini è stata eseguita sì poco dopo l’originale, ma proprio nel 1603 quando il de’ Rustici può averla vista in palazzo Mattei, e che il suo carattere “addolcito” non è l’effetto di alcuna “retrodatazione” ma semplicemente è in linea con lo stile caravaggesco di quel periodo, proprio come rimarca Pupillo.
Sono comunque proprio le analisi tecniche e radiografiche della nostra tela [vedi figg di seguito] che hanno evidenziato tanti pentimenti (non semplici correzioni) e di tale portata da rendere improponibile l’ipotesi di trovarsi di fronte ad una copia, come risulta benissimo dalla lucida scheda della restauratrice Silvia Cerio:
«Dagli esami diagnostici eseguiti sul dipinto sono apparsi evidenti aspetti molto interessanti riguardo alla tecnica pittorica. E in questo senso appare ben leggibile il processo del pittore, abile ad evolvere e piegare il disegno all’impeto creativo che si manifesta libero dai vincoli di un disegno predefinito, mentre la composizione si adatta progressivamente ai limiti della tela per raccontare meglio allo spettatore l’emozione del racconto.
La figura del santo avvolge il teschio portandolo a sé: questo movimento è evidenziato nella sua progressione dallo spostamento del punto vita con il cordone più volte segnato con inclinazione diverse. La manica destra, in primo piano, ha lunghezze e pieghe modificate. Il cappuccio del saio cambia leggermente forma. Queste correzioni ci raccontano l’evolversi di un gesto del santo che attira a sé, in un profondo empito di compassione, il teschio. L’area del teschio stesso, invece, ci racconta un altro momento creativo: sotto la pellicola pittorica si rilevano delle tracce molto leggibili di un libro, come se all’inizio il pittore avesse immaginato che il santo mediasse la meditazione sulla morte del Cristo attraverso il Vangelo e poi, in una fase successiva, avesse scelto un colloquio più diretto. Forse, nella fase “del libro”, il teschio era abbozzato in basso a destra sotto la croce, dove ora è raffigurato un sasso. Osservando le radiografie, però, si intuiscono le ombre delle orbite. Infine, i bracci della croce lignea sono stati spostati con una prospettiva più esasperata verso lo spettatore per coinvolgerlo nella scena». E con un effetto ottico sorprendente la croce stessa sembra raddrizzarsi man mano che lo spettatore procede da sinistra a destra.[44]
Anche la posizione della testa del santo risulta leggermente spostata verso destra rispetto alla versione iniziale; ed inoltre, sotto il saio, tra la croce ed il braccio si intravede un ginocchio, segno evidente che l’intera postura di Francesco era stata concepita in un primo momento in modo del tutto differente. Più che di semplici pentimenti siamo dunque in presenza di una vera e propria ridefinizione, plastica e poetica, dell’intero dipinto, del tutto impossibile in una copia; alcuni pentimenti,[45] sia pure marginali, li ritroviamo invece nella versione di Palazzo Barberini, compatibili in questo caso con una replica autografa; nessun pentimento, infine, compare nella tela dei Cappuccini, proprio perché si tratta di una copia, sia pure antica e di ottima qualità.
Riassumendo, il parere di alcuni dei massimi studiosi di Caravaggio quali Mina Gregori, Denis Mahon, Claudio Strinati, le ricerche documentarie, le indagini diagnostiche ma soprattutto quello che il grande Roberto Longhi definiva “il documento di prima”, ossia un’indagine stilistica e formale condotta senza pregiudizi e avendo davanti agli occhi il dipinto e non una sua riproduzione fotografica spesso scadente, tutti questi elementi convergono nel ritenere il San Francesco in contemplazione ex Cecconi come un autografo del Merisi.
Anzi a mio parere esso è il prototipo, mentre il dipinto ora a palazzo Barberini, probabilmente eseguito nel 1606 mentre Caravaggio, in fuga da Roma, era ospite dei feudi Colonna a Paliano, è una replica, comunque autografa e di ottima fattura, naturalmente eseguita a memoria (cosa che comunque il Merisi faceva spesso) e senza avere il modello davanti agli occhi, il che spiega anche le leggere differenze esistenti tra le due versioni.
Un’ultima osservazione riguarda la cosiddetta “tecnica al risparmio” usata dal Caravaggio per rappresentare la toppa del saio posta al disotto del cordone e le abrasioni di alcune parti dello stesso indumento: essa consiste nell’impiegare come colore la preparazione sottostante della tela, lasciandola a vista con un effetto “rosso mattone” particolarmente efficace e pertinente all’abito lacero e sdrucito del Santo d’Assisi. E’ inoltre evidente come un tale espediente pittorico sia legato ad una gestualità istintiva e sia dettato dall’immediatezza dell’urgenza creativa, confermata dalla stesura delle rocce e del sasso dove è posta la croce direttamente sulla preparazione col nero carbone: sono caratteristiche che possono trovarsi solo in un prototipo e non in una replica o, men che mai, in una copia e sono un’ulteriore prova dell’autografia del S. Francesco ex Cecconi.
Occupiamoci ora, al termine della mia disamina, della Presa di Cristo nell’Orto, la cui versione conservata presso la National Gallery di Dublino [v. fig.4]), non è il prototipo caravaggesco, come affermato nel Il Trattenimento[46], ma una copia antica di Gerrit van Honthorst, mentre l’originale del Merisi è quello già appartenuto alla collezione Sannini [v. fig.5].
Esso viene citato per la prima volta nell’inventario di Ciriaco Mattei:
«Adj 2 di Genn.o 1603 e pui devono havere sc.cento vinticinque d mo.ta di iulij x p. sc.o.p. tanti pagati à Michel Angelo di Caravaggio p. un quadro con la sua cornice depinta d’un Cristo preso all’orto devo sc. 125».[47]
Della questione si è recentemente occupato Jacopo Curzietti con un’analisi che confermo in pieno e che mi tocca citare interamente per la sua chiarezza:
«Con l’eccezione della Cena in Emmaus, presumibilmente entrata a far parte della collezione del cardinale Scipione Borghese, nei cui inventari è ripetutamente menzionata, il San Giovanni Battista e La presa di Cristo nell’Orto[48] compaiono in data 1616 tra i beni del figlio di Ciriaco, Giovanni Battista Mattei. Questi, nelle proprie volontà testamentarie redatte tra il 1623 e il 1624[49], aveva disposto di donare il San Giovanni Battista al cardinale Francesco Maria Del Monte e nella stessa occasione aveva stabilito di donare al cugino Paolo Mattei la Presa di Cristo nell’Orto. Stando a quanto stimato dalla critica[50], quest’ultima tela sarebbe riconoscibile nel quadro citato nell’inventario di Paolo del 1638, in quello menzionato nel 1676 tra i beni di suo fratello Girolamo, ancora nella stima dei quadri di proprietà di Alessandro, figlio di Girolamo, redatta entro il 1729, infine nell’inventario dei beni di Girolamo II nel 1753 e in quello del duca Giuseppe nel 1793».[51]
Interrompiamo ora per un attimo l’analisi del Curzietti per osservare invece come tutte le ricostruzioni presenti nei saggi citati prima citati in nota contengano delle imprecisioni che finiscono per rendere non più condivisibile la loro analisi: infatti, il quadro “con la cornice nera rabescata d’oro col suo taffetà rosso, e cordoni di seta rossa, e fiocchi pendenti”, che è proprio “il Cristo preso nell’orto con cornice depinta” pagato 125 scudi da Ciriaco Mattei nel gennaio del 1603 e presente negli inventari di Giovanni Battista Mattei del 1616, in quelli del Guardaroba di Asdrubale Mattei del 1631 e del 1638, che ricompare nel 1729 tra i beni di Alessandro Mattei e nel 1753 nell’inventario di Girolamo II[52] ed è infine confluito nella collezione Sannini, viene confuso con “un quadro del Caravaggio della Prisa di Christo con cornice dorata e sua tendina di taffetà verde” presente nell’inventario di Paolo Mattei del 1638, in quello del duca Girolamo del 1676 ed infine in quello del Duca Alessandro del 1729 col valore di 500 scudi[53] e che è invece il dipinto ora esposto a Dublino.
Riprendendo l’analisi del Curzietti, osserviamo infatti con lui come «recentemente è stata avanzata l’ipotesi[54] che la tela del Merisi possa essere entrata precocemente a far parte della quadreria di Asdrubale Mattei, fratello di Ciriaco: in una postilla aggiunta posteriormente al 1624 al suo inventario dei beni è menzionata infatti, seppur in assenza di riferimenti al Caravaggio, La presa di N.S.re con cornice nera rabescata d’oro, ovvero con l’identica cornice con cui era stato registrato il quadro del Merisi nell’inventario di Giovanni Battista Mattei del 1616; la tela in questione è nuovamente citata negli inventari di Asdrubale del 1631 e del 1638, rispettivamente con cornice d’oro rabescata e con Cornice nera indorata. E’ poi interessante considerare che, ancora nel 1729, nell’inventario di Alessandro Mattei, accanto al quadro assegnato al Caravaggio con cornice dorata, è presente il quadro precedentemente appartenuto ad Asdrubale, valutato in questa circostanza ben 200 scudi, cifra assai considerevole trattandosi di un’opera di cui non è menzionato l’autore. La probabilità che la tela del Caravaggio fosse effettivamente confluita nella raccolta di Asdrubale è confermata da Giovan Pietro Bellori, che la ricorda tra i quadri del marchese sia nella Nota delli Musei, Librerie, Gallerie et ornamenti di statue e pitture ne’ Palazzi, nelle Case, e ne’ Giardini di Roma (1664), sia nella biografia del pittore. Particolarmente illuminante si rivela proprio la descrizione fornitaci dall’erudito romano nelle Vite, dove si ricorda nella scena la figura di San Giovanni con le braccia aperte, pertanto con una gestualità più espansa dimensionalmente, tale da prevedere un formato rettangolare di misura superiore rispetto alla tela di Dublino; escludendo che l’opera possa essere stata ritagliata intorno al 1624, data in cui la Presa di Cristo nell’orto compare tra i beni di Giovan Battista Mattei per la prima volta con una cornice dorata, occorre considerare anche che, laddove negli inventari settecenteschi si indichi esplicitamente il quadro in questione come riquadrato, si deve correttamente intendere un formato non palesemente rettangolare del quadro e non una presunta riquadratura. E’ probabile dunque che la tela con la Presa di Cristo nell’orto del Merisi, transitato già alla fine degli anni Venti del Seicento dalla quadreria di Giovanni Battista Mattei a quella di suo zio Asdrubale, vada identificato in una redazione diversa rispetto a quella di Dublino; a tal proposito si propone di riconoscere l’originale del Caravaggio nel quadro conservato alla metà del Novecento in collezione Sannini a Firenze e recentemente riapparso sul mercato antiquario romano»[55].
Proviamo ora a sciogliere l’intricatissima questione: La Presa nell’Orto già Sannini, è l’unica che conserva la sua cornice originale (quella “nera rabescata d’oro”) ed è l’unica versione del dipinto presente in tutti gli inventari Mattei fino al 1616 e successivamente in quelli del 1631,1638, 1729, 1753 e di conseguenza è l’unica autografa del Merisi.[56] Si tratta dello stesso dipinto che il Bellori vede presso Asdrubale Mattei:
«Concorsero al diletto del suo pennello altri Signori Romani e trà questi il Marchese Asdrubale Mattei gli fece dipingere la Presa di Christo. Tiene Giuda la mano alla spalla del maestro, dopo il bacio; intanto un Soldato tutto armato stende il braccio, e la mano di ferro al petto del Signore, il quale si arresta patiente, e humile con le mani incrocicchiate avanti, fuggendo dietro San Giovanni con le braccia aperte. Imitò l’armatura rugginosa di quel soldato coperto il capo, e’ l volto dall’elmo, uscendo alquanto fuori il profilo; e dietro s’innalza una lanterna, seguitando altre due teste d’armati».[57]
Proprio questa accuratissima descrizione è a mio parere risolutiva. Non vi è infatti alcun dubbio che essa si riferisca al dipinto ex Sannini e non a quello ora a Dublino, così come attesta indirettamente che questa “Presa di Cristo” è sempre appartenuta ad Asdrubale Mattei, tanto che Bellori ritiene quest’ultimo il committente dell’opera. Invece l’altro dipinto di analogo soggetto con “cornice dorata e tendina di taffetà verde”, che compare per la prima volta nel 1638 nell’inventario dei beni di Paolo Mattei con l’attribuzione al Caravaggio ed è la stessa tela lasciata in eredità nel 1624 da Giovan Battista al medesimo cugino[58] è con tutta probabilità la copia dipinta dall’Honthorst ma ritenuta già ab antiquo di mano del Merisi; dipinto che aveva fin dall’origine una forma quadrata e che quindi non è stato “riquadrato” successivamente, come opportunamente osservato dal Curzietti; per complicare ancora le cose bisogna aggiungere che è per l’appunto da questa versione “quadrata” che verrà fatta fare proprio da Asdrubale una copia allo sconosciuto pittore Giovanni di Attilio nel 1626, copia che era collocata nella camera da letto di Paolo Mattei[59], il che conferma ulteriormente che Asdrubale non si è mai voluto privare, fino alla sua morte, dell’originale caravaggesco: si tratta con molta probabilità dello stesso dipinto conservato presso il Museo Statale d’arte Occidentale e Orientale di Odessa e a lungo considerato il prototipo del Merisi[60].
Dunque, la Testa scrive il vero quando afferma che «Il 2 gennaio del 1603, tramite il banco Doni, Ciriaco Mattei effettua un altro pagamento al Caravaggio di 125 scudi “per un quadro con la sua cornice dipinta di un Cristo preso nell’Orto”» ma poi finisce per confondersi nel commentare i documenti che lei stessa ha trovato quando prosegue:
«il quadro, che recentemente è stato rintracciato in Irlanda, venne eseguito nel corso del 1602 dal pittore ormai giunto, dopo le importanti commissioni pubbliche per S. Luigi dei Francesi e per Santa Maria del Popolo, all’apice della fortuna e della fama. Registrata nell’inventario del 1616 e in quella del 1624, la tela fu lasciata da Giovan Battista al cugino monsignor Paolo Mattei, figlio di Asdrubale e, alla morte di questi, nel 1638, confluì nelle collezioni di Asdrubale»[61],
che però, stando alla stessa studiosa, era morto quattro giorni prima del figlio! .
Ora, non solo il dipinto in questione non è quello “recentemente rintracciato in Irlanda”, ma inoltre esso è entrato a far parte della collezione di Asdrubale in una data di poco posteriore al 1616 e da lì non si è più mosso fino alla morte del proprietario che ne ha potuto così godere per circa un trentennio, contrariamente a quanto scritto sia dalla Testa che dalla Cappelletti[62]. Dunque, le “Presa di Cristo” citate negli inventari del 1616 e del 1624 non sono assolutamente lo stesso quadro; il primo, con “cornice nera rabescata d’oro” è l’unico autografo del Caravaggio; il secondo, con “cornice dorata e tendina di taffetà verde”, donato nel 1624 da Giovan Battista al cugino Paolo, come ho appena osservato, era già una copia, molto probabilmente quella ora a Dublino, ed essa confluirà poi nelle collezioni di Asdrubale, e successivamente in quelle di Girolamo, che alla fine si troverà dopo il 1638 ad avere ben tre versioni principali (oltre ad alcune minori) dello steso dipinto: quella già nella collezione Sannini, che è il prototipo, la copia di Honthorst ora a Dublino e la copia di Giovanni di Attilio che è con tutta probabilità quella ora conservata ad Odessa.
Un ulteriore conferma di questa mia ricostruzione viene proprio da un attento confronto stilistico tra la pala di Dublino e quella ex Sannini: e, paradossalmente, è proprio la descrizione che la Testa fa della prima delle due opere a far propendere per l’autografia della seconda. Scrive infatti la studiosa:
«La struttura chiusa, ellittica, della composizione centrale è simile a quella di altre opere del periodo tra il 1600 e il 1602, come la Deposizione o L’incredulità di S. Tommaso ed è rotta sulla sinistra dal personaggio che fugge con il braccio alzato e la bocca spalancata nell’urlo che costituisce un sicuro richiamo al Martirio di S. Matteo della Cappella Contarelli, mentre il volto appuntito del Cristo, l’affollamento della composizione, si avvicinano alla prima versione della Caduta di Saulo, al clima di quel primo registro lombardo e manierista che convive, a quest’epoca ancora non del tutto abbandonato, nello stile del Caravaggio con l’impostazione semplificata e monumentale di cui egli aveva già dato prova nelle commissioni pubbliche»[63].
Peccato che questa descrizione si adatti alla perfezione alla tela ex Sannini molto più che a quella di Dublino. Infatti in quest’ultima il volto di Cristo non è affatto appuntito, emaciato e segnato da profonde rughe come nell’altro dipinto ma piuttosto è plasticamente definito e più melanconico che sofferente; il S. Giovanni che fugge urlante non segue in modo coerente l’andamento ellittico della composizione, quasi prolungando all’infinito il semicerchio di braccia che si accalcano al centro della scena, come appunto nella versione già Sannini, ma sembra quasi una figura aggiunta a posteriori e che interrompe più che incrementare il pathos drammatico dell’evento.
Ancora, come osserva opportunamente Curzietti tutta la narrazione del Bellori prima citata si adatta molto meglio ad un formato rettangolare che ad uno quadrato. Quanto alla “presunta riquadratura” a posteriori, ossia una “decurtazione dei lati” cui sarebbe stata sottoposta la tela,[64] è francamente assai difficile pensare che chiunque sia stato il possessore di quest’importantissimo originale caravaggesco abbia potuto decidere di menomare la figura del giovane S. Giovanni fuggente, tanto da farlo apparire quasi monco, con l’ovvio risultato di deprezzare irrimediabilmente il dipinto. La versione dublinese era dunque già all’origine di formato quadrangolare ed opera di un copista, che per quanto di altissima qualità (Gerard van Honthorst) non aveva comunque compreso a pieno il senso ultimo del capolavoro del Merisi. Quest’ultimo, infatti, non avrebbe mai ipotizzato di dipingere il S. Giovanni così platealmente “mutilato” e infatti, nella versione ex Sannini, che è senza dubbio quella originale, l’evangelista appare in tutta la sua interezza, con solo la mano sinistra appena ai margini della tela, proprio per accrescere il senso di fuga vertiginosa ed il ritmo incalzante della composizione.
Veniamo ora all’uomo di profilo con la lanterna in mano che appare sul lato opposto del dipinto, che è un sicuro autoritratto e che l’artista replicherà “a memoria” nel sublime e tardissimo Martirio di Sant’Orsola. Come gli capiterà anche in altre occasioni Caravaggio si raffigura qui come testimone di un tragico evento e nella versione ex Sannini egli appare con la figura interamente e plasticamente definita e sovrastante in maniera netta la selva di elmi luccicanti che gli si parano davanti; inoltre, il deciso contrasto di chiari e di scuri ne acuiscono la portata drammatica, come di colui che vuole sottrarsi alle tenebre del peccato ed abbeverarsi alla luce salvifica della grazia che gli illumina parte del volto. Nella versione dublinese, al contrario, i suoi lineamenti sono come addolciti rispetto alla prima versione e quindi egli appare meno coinvolto nel furor drammatico dell’insieme.
Anche la luce della lanterna tenuta dall’armigero al fianco di Caravaggio, nel dipinto di Dublino sale verso l’alto, come è tipica dei dipinti di Gherardo, risultando pericolosamente vicina alla mano del soldato, mentre nella versione ex Sannini rimane giustamente circoscritta entro il suo involucro e determina un contrasto di luci ed ombre molto più accentuato e drammatico: e ancora, nella tela dublinese, sopra la testa di Giuda è rappresentato un albero, mentre in alto a destra spuntano delle lance, elementi che non sono rappresentati nella versione Sannini e non sono citati da Bellori. Le “mani incrocicchiate” di Cristo, nella versione dublinese, sono quasi esangui e sembrano appena uscite da una manicure e non hanno la portata drammatica di quelle ex Sannini. Quanto ai colori, i rossi violenti e fiammeggianti, quasi intrisi di sangue, ed i neri gagliardi e “rinvigoriti”, come fatti di pece, della prima versione, si ammorbidiscono a Dublino in passaggi tonali di ocra, di rosa, di terra di Siena, di lapislazzuli, molto più consoni ad Honthorst che a Caravaggio.
Un’analisi, la mia, che coincide per molti aspetti con quella già formulata da Clovis Whitfield nel 2006[65] e poi perfettamente sintetizzata in un successivo volume: «Questa versione [ex Sannini] è quella originale fatta per Ciriaco Mattei, distinguibile per i molti pentimenti che mostrano le difficoltà dell’artista nell’organizzare una composizione così grande con tante figure. Negli inventari Mattei è contraddistinta dalla cornice nera e oro con decorazione arabescata fornita originariamente da Caravaggio stesso insieme al quadro. Ognuna delle figure centrali è dipinta sopra quella fatta in precedenza tanto che il giallo della veste di Giuda traspare attraverso le perdite di colore dell’armatura del soldato. La figura di Cristo è stata dipinta due volte, la seconda per far spazio al drammatico gesto di San Giovanni sulla sinistra: un profilo di donna è visibile sulla destra, e fu eliminato perché inappropriato al soggetto»[66].
Analisi che viene confermata dal compianto Vincenzo Pacelli: «Recentemente, all’esposizione celebrativa del Caravaggio ospitata alle Scuderie del Quirinale, l’opera è stata riproposta con l’attribuzione al Merisi, ma qualche dubbio è stato avanzato da più parti e si è ritornato a fare il nome di Gherardo delle Notti, che risulta sempre più convincente per motivi stilistici, specie al confronto con la tela di analogo soggetto di collezione romana-ovvero l’esemplare già nella raccolta Sannini-di 8 cm e mezzo più alta e ben 47cm più larga-[67], fatta conoscere inizialmente dal Longhi nel 1943, recentemente esposta alla mostra di Düsseldorf del 1996 e ripubblicata nella monografia di Sebastian Schütze. Inoltre, una serie di pentimenti rivelati all’esame radiografico, su cui si è appuntata l’attenzione del Whitfield, sembrerebbe dover decidere per accreditare l’autografia dell’esemplare romano…
[Nella tela dublinese] la costruzione molto fiamminga delle armature non sembra quella tipica del Merisi, specie se messa a confronto con l’armatura del soldato dell’Incoronazione di spine del Kunsthistorisches Museum di Vienna … Nel dipinto di Dublino la luce si riflette sul metallo senza esserne assorbita e creando una coloritura anche più chiara; in Caravaggio la luce viene al contrario accolta dal ferro, che la introita e ne ammorbidisce la forza, lasciando un colore più caldo e nero. Insomma è come se Gherardo…abbia in buona sostanza non copiato, ma interpretato il testo caravaggesco fornendone una versione più ingentilita e congeniale alla sua sensibilità espressiva e alla sua tradizione pittorica…In definitiva, le due opere al confronto denunciano una ulteriore sostanziale differenza: i tratti fisiognomici appaiono diversi, e soprattutto le figure della tela romana si muovono agevolmente in uno spazio meno costretto e più rispondente al vero, che di conseguenza accentua la loro grandezza naturale»[68].
Nello stesso volume la restauratrice Carla Mariani offre spunti di lettura molto interessanti sulla tecnica pittorica del Merisi e sugli interventi conservativi compiuti sul dipinto ex Sannini, cominciando dalla fondamentale analisi della cornice dell’opera, che è quella originale “negra rabescata d’oro”, [fig.19] la medesima della Medusa degli Uffizi, ad ulteriore riprova dell’autenticità della nostra versione. E proseguendo osserva:
«La tecnica del dipinto, che si è rivelato nella sua straordinaria qualità, si sviluppa attraverso stesure sovrapposte di colore che denunciano un lucido progetto espositivo. Ad esempio, alla figura di Giovanni si sovrappone quella di Cristo, in quanto dal rosso cinabro della sua veste traspaiono il verde della manica dell’apostolo e le ciocche della capigliatura di Cristo che, girando in spirali scultoree, quasi metalliche, sono diventate trasparenti e permettono la lettura del rosso sottostante. Il nero di vite del guanto di metallo dell’armigero ci consente di vedere le pieghe del mantello al quale si sovrappone. Per dipingere il manto di Cristo, il pittore, che [a differenza di Honthorst] non usa quasi mai il blu, ha adoperato lo smaltino, colore piuttosto inusuale, ottenuto macinando un materiale vetroso pigmentato con l’esito di una materia spessa e di un tono grigio bluastro, che però ossida sensibilmente girando verso il bruno»[69].
Numerosi sono poi i pentimenti (che riguardano l’impostazione stessa dell’intera struttura compositiva e che sarebbero impossibili in una copia): ne citiamo solo i principali. Le diverse posizioni della mano dell’armigero che sorregge la lanterna; le significative correzioni dell’occhio, dell’orecchio e del braccio lungo il fianco dell’autoritratto del pittore; il fatto che dalla riflettografia [v. figg. di seguito] si evince che alle spalle di Caravaggio, nello spazio ora buio era stato ideato un altro armigero ed in lontananza comparivano le silhouettes due donne ora cancellate;
e poi ancora lo spostamento di circa 15 centimetri del mantello rosso di Giovanni e delle sue mani protese verso l’alto; il mutamento di posizione della mano di Pietro poggiata sulla spalla del Cristo.
Essa inoltre presenta una curiosa protuberanza [fig.20] che (anche se allo stato rimane solo una mia ipotesi da approfondire) potrebbe fare riferimento alla nota frase della Lettera di Giuda[70]:
«Si sono infiltrati infatti tra voi alcuni individui, i quali sono già stati segnati da tempo per questa condanna», identificando appunto nell’Iscariota, il traditore per eccellenza, uno tra quelli “già segnati” da Dio.
Prima di chiudere mi preme di sottolineare come tutti coloro che hanno pensato di usare le parole di Roberto Longhi, che riteneva una copia la versione Sannini, per promuovere invece quella di Dublino, che naturalmente il grande studioso non poteva conoscere, hanno compiuto un clamoroso autogol. Scrive infatti Longhi: «Fra le copie che ottenni di esporre a Milano nel ’51 era la “Presa di Cristo” da casa Sannini a Firenze. Ed essa era quasi la sola ad essere presa in seria considerazione dalla critica fiorita intorno alla mostra [sott. mia], ma, io temo, soltanto per la sua comoda conformità con la particolareggiata descrizione che il Bellori aveva dato del perduto originale di casa Mattei».
Dopo aver reso conto delle numerose copie del dipinto “fiorite” negli anni successivi, tra le quali egli riteneva qualitativamente superiore a tutte quella di Odessa pubblicata nel 1956 da X. Malitzkaia, lo studioso proseguiva: «La mia scarsissima conoscenza della lingua russa non mi ha concesso di riscontrare se e come la Malitzkaia spieghi la maggiore estensione in larghezza della copia Sannini che è la sola a darci quasi per intero le braccia del giovane fuggente a sinistra [sott. mia]; un particolare che, a parte il carattere pienamente caravaggesco delle pieghe ricercate, corrisponde alle parole del Bellori “fuggendo dietro con le braccia aperte”; e che, nello spaziare il gruppo sui due lati, gli dà un senso di tragico carosello avvolto di buio. Nessun dubbio che la copia Sannini sia l’unica a darci completo lo sviluppo dell’invenzione dell’originale del quale si deve perciò credere venisse decurtato assai presto (per renderlo forse più conforme ai normali formati di galleria) e, in tal stato ridotto, servisse poi per tutte le altre copie finora rintracciate». Inoltre, parlando dei personaggi intorno al portatore di lanterna, definisce la tela Sannini “troppo guasta in questa zona”, ammettendo dunque che essa non era allo stato completamente giudicabile in alcuni punti molto importanti.
L’attenta lettura di queste pagine ci suggerisce le seguenti considerazioni: 1) Il Longhi ammetteva che ancora nel ‘51 la “versione Sannini” versava in precario stato di conservazione, ma che non ostante questo la maggior parte della critica “l’aveva presa in seria considerazione” come autografo caravaggesco; 2) che essa era l’unica, per dimensioni e ampiezza di resa pittorica, conforme alla descrizione che nel ‘600 ne aveva fatto il Bellori e quindi conforme al prototipo che egli riteneva perduto; 3) che tutte le tele di forma quadrata e misure ridotte, come quella di Odessa, erano da considerarsi comunque delle copie e come tale avrebbe dunque giudicato anche la tela di Dublino, che naturalmente, come ho già scritto, ancora non poteva conoscere. Ora, dal momento che la “Presa di Cristo” Sannini ha avuto nel tempo radicali puliture che ne hanno restituito l’antico splendore e che a distanza di settant’anni dalla mostra milanese, non ostante le accanite ricerche, nessuna altra versione con le sue dimensioni è emersa, ne consegue che essa deve essere riconosciuta come quella originale e di mano del Caravaggio in prima persona.
Veniamo ora alla presunta “riquadratura”, ossia alla decurtazione a posteriori del dipinto su cui mi sono già espresso in precedenza; ebbene, essa è clamorosamente smentita proprio dallo scopritore del dipinto di Dublino, Sergio Benedetti che scrive: «Sugli aspetti più esattamente tecnici della sua esecuzione, si è riscontrato che il dipinto ha un supporto formato da una singola tela di canapa, la cui tramatura, per numero di fili, appare identica, a un confronto radiografico, a quella del San Giovanni Battista della Pinacoteca Capitolina. I lati della stessa appaiono rifilati in passato, poco sopra la linea dei chiodi d’ancoraggio al telaio originale. Ciò è constatabile ancora attraverso l’esame delle radiografie, che mostrano intatte le arcature provocate dalla iniziale tensione dei bordi. Pertanto, l’area dipinta della tela non ha subito alcuna riduzione o alterazione di proporzioni».[71]
Ma così facendo Benedetti deve ammettere che Caravaggio avrebbe dipinto un’opera “mutilata” nella sua tensione creativa e completamente diversa dalla descrizione dell’opera che ne aveva fatto il Bellori, che era proprio il motivo per cui la Cappelletti e la Testa, arrampicandosi sugli specchi, avevano provato a sostenere la successiva mutilazione della versione di Honthorst. In definitiva, la versione di Dublino (realizzata su un’unica tela di cm 139,5×169,5) non può essere considerata, per dimensioni, per stile, per la documentazione di casa Mattei, come il prototipo caravaggesco, che va invece restituito, proprio per i motivi sopra elencati, alla versione ex Sannini (165×225 cm.).
E che la questione sia stata fin dalle origini molto complicata lo conferma l’intrico in cui si è avviluppato il compianto Maurizio Marini, che nella sua prima monografia sul Merisi si dimostra convinto sostenitore del dipinto di Odessa; dopo la scoperta della tela di Dublino declassa a semplice copia quella versione e promuove, pubblicandola come autografa del Caravaggio, la versione di Dublino, ritenendola decurtata dallo stesso Caravaggio [sic!!]; infine rivede ulteriormente il suo giudizio e promuove ad originale la versione Sannini, che considera un prototipo completato diversamente rispetto alla tela dublinese.[72]
Sergio ROSSI Roma 26 maggio 2021 (Parte I^)
NOTE