di Marco Fabio APOLLONI
In un famoso foglio di Parmigianino assieme a delle teste ideali maschili e femminili è disegnato, nella meravigliosa maniera sua, un sorcio morto. Maurizio nel suo libro sul geniale pittore di Parma intossicato dall’alchimia, prese il topo e lo mise al centro di una qualche complicata ed ermetica teoria di metempsicosi perché aveva creduto di vedere lo stesso roditore in quel ritratto di collezionista, un tempo invisibile presso Lord Stafford, e ora invece visibilissimo alla National Gallery di Londra. Come giovane facchino alla Christie’s nel 1977 ho avuto il privilegio di reggere il ritratto mentre veniva battuto per una cifra allora straordinaria. L’avevo ben guardato e non c’era nessun topo, nelle brutte fotografie che Maurizio aveva potuto studiare quello che gli era sembrato un topo era in realtà un bronzetto rinascimentale di Cerere Fortuna riverso sul tavolo del collezionista ritrattato. Roba da stroncare una carriera, un libro rovinato. Chiunque altro degli storici dell’epoca sarebbe diventato ancora più arrogante e borioso, invece lui fu il primo a riderci su. Ecco, in questo, nell’allegra ammissione della propria fallacia sta la grandezza umana di Maurizio Fagiolo dell’Arco. Era il tempo in cui a Roma dominava Argan, che, nessuno lo ha notato finora, aveva lo stesso nome del più ciarlatano dei medici del “Malato immaginario” di Moliere, quello che noi chiamiamo Argante in italiano. Marcello era uno dei suoi discepoli preferiti, eppure ebbe il coraggio di rifiutare la cattedra universitaria che pure aveva vinto, scegliendo una sua via di libertà. Nello studio dell’arte italiana del Novecento egli portò le regole della filologia storico-artistica finora applicata all’arte antica. I documenti le foto, i vecchi cataloghi, gli articoli di giornale, le lettere, le testimonianze orali dei vecchi sopravvissuti erano la base su cui ordire i cataloghi degli artisti. In questo fu il primo e il migliore. Ed è tutt’ora maestro. Oltre al Novecento, Bernini e gli studi sul Barocco e le sue effimere feste. La sua collezione è uno degli elementi di ricchezza che ha lasciato al Museo di palazzo Chigi di Ariccia. Un polo importantissimo ma misconosciuto che Roma dovrebbe proteggere e coccolare in quanto sede berniniana extra moenia, fuori le mura del consueto e del troppo conosciuto.
Marco Fabio APOLLONI Roma 22 novembre 2019