P d L / Fabio SCALETTI
Colloquio con Fabio Scaletti
Fabio Scaletti (Milano, 1964), scrittore e critico d’arte, è esperto di Caravaggio, del quale ha pubblicato il Catalago ragionato delle opere autografe, attribuite e controverse (2 volumi, Napoli, 2017). Sul Merisi ha scritto anche Caravaggio. Il pittore della luce (Torino, 2020). È altresì autore di una serie di libri sui grandi maestri del Rinascimento, tradotti in diverse lingue: Leonardo 500 (Bologna, 2019), Raffaello 500 (Bologna, 2020) e Michelangelo 500 (Bologna, 2021). Con Claudio Strinati ha scritto Caravaggio Vero (Reggio Emilia, 2014) e Il Rinascimento nei Musei Italiani (Bologna, 2017). Ha in preparazione una monografia sul Tintoretto.
-Come esperto della tematica attributiva caravaggesca, su cosa si basa oggi l’assegnazione di un dipinto al grande maestro lombardo?
Innanzitutto una premessa: per Caravaggio non esiste (né allo stato attuale può forse esistere) un’istituzione ufficiale o riconosciuta che rilascia la patente di autenticità, ma solo studiosi più o meno autorevoli che esprimono la loro personale opinione, e l’inclusione di un dipinto nel corpus degli autografi dipende dal prestigio, dal numero e dalla continuità nel tempo dei pareri favorevoli formulati (questa è peraltro la ratio del mio lavoro di catalogazione).
Ad ogni modo, come ho già avuto modo di affermare in altre occasioni, i fondamenti che regolano l’attribuzione di un quadro a Michelangelo Merisi da Caravaggio possono essere ridotti a tre. Per esigenze di marketing linguistico, essi potrebbero essere icasticamente sintetizzati come le “tre P” dell’expertise caravaggesca, ossia Perizia (il giudizio stilistico, che a sua volta comprende i confronti morfologici e lo studio dell’agire pittorico a livello macroscopico, la composizione e l’iconografia, insomma ciò che nella scrittura corrisponderebbe a una perizia calligrafica), Pedigree (la ricerca storica, che raccoglie e raffronta le testimonianze antiche sull’opera, valutandone inoltre gli incartamenti di accompagnamento, il suo percorso nelle collezioni private, in pratica quelle che potrebbero essere definite le sue credenziali scritte) e Prove (le ricognizioni diagnostiche, cioè gli esiti delle indagini radiografiche, riflettografiche e chimiche che, spesso nell’ambito di un restauro, possono a livello scientifico indicare o meno la compatibilità del manufatto con l’esclusivo modus operandi del Lombardo, ovvero una sorta di prova del DNA), il tutto da ponderarsi congiuntamente, anche se negli ultimi tempi ciò non è sempre possibile (quello che manca più spesso è un curriculum vitae “lungo”, che risale sensibilmente indietro nel tempo, fino, nel caso ideale, all’“atto di nascita”).
-Tu hai pubblicato alla fine del 2017, in due volumi, il Catalogo ragionato del Caravaggio, di cui è in corso di preparazione l’edizione in lingua inglese. Da quella data sono emerse delle novità sul fronte attributivo? La citata edizione inglese si arricchirà di nuovi Caravaggio?
Nel mio prossimo intervento del 19 gennaio al convegno “1951-2021. L’Enigma Caravaggio” affronterò proprio questo scottante argomento attraverso alcuni casi che hanno tenuto banco di recente, quelli apparsi o comunque a me giunti a un più approfondito grado di conoscenza dopo appunto la pubblicazione nel 2017 del mio Catalogo ragionato del Caravaggio, esaminando, sia pure in modo sintetico, tanto i quadri di nuova iconografia attribuiti da una parte più o meno consistente della critica quanto quelli confluiti nella attualissima e altrettanto spinosa questione dei cosiddetti “doppi” (che forse costituisce il problema dell’odierna “scienza” caravaggesca), con la promozione ad autografo da parte di alcuni studiosi di dipinti che “replicano” quadri già autenticati dalla critica.
Cominciando da questo secondo gruppo, segnalo il caso dell’Incredulità di san Tommaso, dove una tela di collezione privata svizzera risulta essere la versione detenuta dai Mattei della stessa composizione un tempo dei Giustiniani e ora al museo di Potsdam-Berlino.
L’Incredulità di san Tommaso è uno dei quadri più copiati di Caravaggio ma è anche probabilmente il quadro che egli stesso ha dovuto replicare visto l’apprezzamento riscosso presso la nobile e ricca clientela.
Ritengo infatti che, nel periodo romano, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio replicasse le sue invenzioni, all’inizio per incrementare i propri scarsi guadagni, e questo può essere il caso di opere giovanili come il Ragazzo morso da un ramarro, dove ricorre quello che è un acclarato caso di doppio, con i quadri autografi della National Gallery di Londra e della Fondazione Longhi di Firenze, a cui ultimamente è stato aggiunto un quadro di collezione romana da valutare, e in seguito per soddisfare i collezionisti, come avvenuto con le opere di maggior successo, quali appunto il San Tommaso incredulo.
È quindi mia opinione, sulla base delle voci d’inventario seicentesche e dal confronto con le testimonianze antiche, in particolare quella del biografo Giovanni Baglione, che Caravaggio abbia eseguito più di una versione dell’Incredulità di san Tommaso.
Il Baglione (1642) scrive, per Ciriaco Mattei, che Caravaggio
“havea dipinto un s. Gio. Battista, e quando N. Signore andò in Emaus, et all’hora che s. Thomasso toccò co ’l dito il costato del Salvadore”.
Difficile che egli si sia sbagliato (sarebbe praticamente l’unica volta), per cui quando l’altro biografo, Giovan Pietro Bellori (1672) scrive dettagliatamente che il marchese Vincenzo Giustiniani impiegò il Merisi in alcuni quadri, come il “San Tomaso che pone il dito nella piaga del costato del Signore, il quale gli accosta la mano e si svela il petto da un lenzuolo, discostandolo dalla poppa”, quasi sicuramente si riferisce a un’altra redazione fatta dall’artista lombardo.
Come detto, una è quella oggi al museo di Potsdam, in Germania, destinata al marchese Vincenzo Giustiniani, un’altra è quella fatta per i Mattei, presso cui abitò del biennio 1601-1602 e dove quasi certamente eseguì i dipinti con questo soggetto. Il secondo (fig. 1) è l’esemplare presto passato ai Massimo di Roma in cui mi sono imbattuto proprio cercando l’esemplare Mattei e che ho pubblicato nel 2018 intestandolo al Merisi sulla base anche degli esami diagnostici, ottenendo autorevoli consensi.
È quindi sorprendentemente da rivedere il rapporto tra la versione di Berlino e quella ex Massimo, che sarebbero entrambi dipinti autografi condotti quasi in parallelo, proponendo quello ex Massimo un Cristo con la gamba scoperta, ribadita dal maestro nel quadro Giustiniani e diffusa da colloboratori (la tela Eristoff di Parigi?) e seguaci nelle loro riproduzioni, tra cui quella degli Uffizi e quella nella chiesa di Saint-Antoine a Loches (Francia) appartenuta al duca di Béthune (si pensa del Finson). Ci sono poi altre versioni in cui la coscia viene in parte rivestita, come in un interessante esemplare svizzero e in un’altra tela, quella oggi in collezione privata di Trieste.
-Ci sono altri casi di “doppi” o di “multipli” apparsi negli ultimi tempi?
A parte il caso della Medusa, dove negli ultimi anni un esemplare di collezione privata di Milano, la cosiddetta “Medusa Murtola”, è stato collegato come autografo da diversi studiosi, me compreso, a quello degli Uffizi, stando alle ultime ricerche si può parlare di “doppi” anche per il San Francesco in meditazione, dove la tela già in raccolta Cecconi (fig. 2), interessata da corposi “pentimenti”, potrebbe essere il prototipo di quella, originale, di Carpineto Romano, e di quella, forse lavoro di collaborazione, della Chiesa dei Cappuccini di Roma.
Inoltre, un San Giovanni Battista disteso di collezione maltese (fig. 3), esposto a Camaiore a fine 2021, vorrebbe secondo alcuni bissare l’autografo conservato in una raccolta di Monaco di Baviera.
Generale consenso sull’iconografia, ma non sul prototipo autografo che la veicola, nel caso del Ragazzo che pela un frutto, probabilmente il primo quadro creato dal Caravaggio, visto che si deve ancora pescare l’esemplare “giusto” tra i tanti candidati in circolazione: collezione privata romana (fig. 4), Dickinson Group di Londra, raccolte reali inglesi, collezione svizzera (già Sabin a Londra e Ishizuka a Tokyo, fig. 5).
Uno o magari anche due di essi potrebbero essere autentici. Quello romano è stato finora il più discusso dalla critica, mentre viceversa l’esemplare già a Tokyo è stato quello meno studiato scientificamente e potrebbe riservare delle sorprese.
Oltre al citato San Tommaso di raccolta privata, quale è secondo te il quadro più importante che ultimamente è stato assegnato a Caravaggio dalla critica o da una parte di essa?
Direi senz’altro la Maddalena in estasi, chiamata “Maddalena Gregori”, in onore della studiosa che l’ha scoperta (fig. 6), su cui mi devo un attimo soffermare.
Essa è con ogni probabilità il primo quadro realizzato dal Caravaggio in fuga dopo aver ucciso in un duello o in una rissa, il 28 maggio 1606, Ranuccio Tomassoni, delitto che gli costò il bando da Roma, la città che gli aveva dato fama e denari, costringendolo a quattro anni di peregrinazioni nell’Italia meridionale, con una parentesi a Malta, fino alla misteriosa morte sul litorale toscano mentre si apprestava a rientrare, graziato, proprio nella Città Eterna. I tre biografi antichi – Giulio Mancini (1620 ca.), Giovanni Baglione (1642) e Giovan Pietro Bellori (1672) – ci testimoniano l’esistenza del capolavoro. Di questo formidabile quadro si sono per secoli perse le tracce, nel senso che se si può scommettere sul fatto che il Merisi abbia creato un’opera con tale iconografia, non si è a lungo individuato con sicurezza quale, tra i tanti esemplari in circolazione, fosse l’originale, e questo fino al rinvenimento nel 2014, da parte della decana degli studi merisiani, in una imprecisata collezione privata – ma dopo le ricerche rese note all’inizio del 2020 lo si può citare come già Terni, conti Pacelli – di un esemplare di elevata qualità e con allegato un documento che lo identifica con il quadro trasportato dall’artista sulla feluca e destinato a Scipione Borghese. Il foglietto, che misura cm 10 x 20, rinvenuto tra il supporto originale e la tela di rinforzo recita: “Maddalena reversa di Caravaggio a Chiaia ivi da servare pel beneficio del Cardinale Borghese di Roma”, sposandosi al bacio, potremmo dire, con quanto scritto il 29 luglio 1610 proprio a Scipione Borghese dal vescovo Deodato Gentile, nunzio apostolico a Napoli:
“Ho fatto subito vedere se vi sono li quadri, e ritrovo che non ne sono più in essere, eccetto, che tre, li doi S.Gioanni, e la Madalena, e sono in sud.ta casa della S.ra Marchese, quale ho mandato subito à pregare, che vogli tenerli ben custoditi, che non si guastino senza lasciarli vedere, o andar in mano di alcuno, poiché erano destinati, e si hanno da trattener per v.s. Ill.ma” [corsivo mio].
Il fatto che i laboratori di Tor Vergata e della Sapienza di Roma abbiano nel 2019 escluso la falsità del biglietto risulta decisivo per la definitiva attribuzione del dipinto, anche perché è assurda, al limite del risibile, la congettura che qualcuno abbia accluso il cartiglio, secentesco, a una copia per contrabbandarla come originale, con ciò tra l’altro implicando una conoscenza documentale propria di tre secoli dopo.
Fino a tale scoperta, e rifacendoci ai pareri meno in là negli anni, l’unica tela che, anche in virtù della sua provenienza, poteva aspirare al titolo era quella già in collezione Klain e oggi a Roma (collezione Croce), che nel 1999 era stata offerta senza successo a un museo della capitale e che nell’estate 2006 è stata esposta nello stesso luogo (il borgo laziale di Paliano) nel quale sarebbe stata eseguita. Sono invece copie le tante versioni via via rinvenute e analizzate, la maggior parte delle quali accessoriate non solo con teschi, che prendono il posto del fascio di sterpi peculiare della versione ex Klain, ma anche con croci e vasi di unguenti per caratterizzare l’identità della santa, forse per temperare la sconvolgente intimità e la rigorosa immediatezza del pensiero caravaggesco.
Aggiungo ora un esemplare, quello segnalato in letteratura come in raccolta privata a Vaduz, oggi in raccolta elvetica, tagliato su tre lati, proveniente da un collezionista svizzero che lo acquistò nel 1962 a Roma. Esposto nel 1963 alla mostra “Masterpieces of European Art” di Las Vegas (fig. 7), è quindi tornato adesso alla ribalta dopo più di mezzo secolo di “ritiro dalle scene”.
È in effetti possibile che il Lombardo, in realtà, di quadri dedicati alla figura della “Maddalena in estasi” ne avesse messi al mondo due, anziché uno soltanto.
Tale scenario è già stato esplicitamente prospettato dalla critica, supponendo appunto l’esistenza di due “Maddalene”, una eseguita nei territori laziali dei Colonna nel 1606, sconosciuta anche nell’iconografia, e una realizzata a Napoli nel 1610, quella dall’iconografia ormai nota (duplicità di aspetto da non escludersi a priori ma che comunque esula, nell’esame della sua fondatezza, dalla presente trattazione), che sarebbe stata di proprietà del Finson e da questi portata oltralpe e copiata.
Pure dal punto di vista formale la datazione al 1610, e non al 1606, dell’esemplare Klain è stata “sospettata” da alcuni studiosi.
Un ulteriore indizio a sostegno dell’esistenza di due esemplari è il fatto che nel 1609 il poeta Pietro Francesco Paoli, di stanza a Roma al servizio dei Savelli, aveva dato alle stampe la prima edizione di un libro in cui figurava il componimento “Maddalena rapita in estasi del Caravaggio”
(“Rapisce il maggior Cielo/Gli altri Cieli minori./Con più lodati honori/In questa tela in estasi rapita/Madalena s’addita;/Che ciò, ch’essi non fanno/hor che languisce,/In mostrarsi rapita, i cor rapisce”):
siccome nel 1609 l’autografo già conti Pacelli o non era ancora stato fatto oppure, fresco di pittura, si trovava alloggiato nella residenza napoletana (Palazzo Cellamare a Chiaia) di Costanza Colonna in attesa di essere spedito al cardinal Borghese, si può presumere che un’altra “Maddalena rapita in estasi del Caravaggio” esistesse, probabilmente in una raccolta dell’Urbe, dove la ammirò il rimatore, magari la quadreria dei Savelli, che poi possiederanno pure la coeva Negazione di Pietro (New York, Metropolitan Museum) dipinta tra l’altro negli stessi giorni, o quella dei Colonna, nelle cui tenute della campagna laziale il prototipo era stato confezionato.
Riprendendo il filo storico, se il Merisi ha sfornato due redazioni della Maddalena in estasi, una nei feudi Colonna, probabilmente portata con sé a Napoli, e una realizzata direttamente nella città partenopea (dove il Finson effettuò la sua opera di copiatura-imitazione del prototipo o dei prototipi), e se una delle due (per il momento non si può stabilire quale) è sicuramente quella (oggi in collezione privata svizzera, già conti Pacelli) parcheggiata a Chiaia pronta per essere inviata a Scipione Borghese, bisogna andare in cerca della seconda (quella poi entrata a far parte dei beni della marchesa Sforza Colonna), che se possibile dovrebbe avere un passato sotto il Vesuvio. La candidata più forte è naturalmente la tela già Klain, di tradizionale provenienza Colonna, che però negli ultimi tempi ha visto interrompersi la continuità dei suoi trascorsi collezionistici, visto che i beni Carafa Colonna andarono nel 1636 per via matrimoniale a Ramiro Núñez de Guzmán, futuro viceré di Napoli, che quindi si sarebbe appropriato del quadro del Caravaggio (o comunque di quello detenuto da Costanza Sforza Colonna) che era pervenuto per eredità alla moglie Anna.
A questo punto ci viene in soccorso una voce inventariale del 23 dicembre 1699: tra i beni, custoditi in Palazzo della Barra a Napoli, lasciati in eredità da Carlo de Cardenas, conte di Acerra e marchese di Laino, ad Alfonso de Cardenas, vi erano
“due quadri di palmi 4 e 3 con cornice liscia indorata che in uno S. Giovanni Battista copia del Caravaggio, e nell’altro S. Maria Maddalena, Originale del Caravaggio”.
Ebbene, rilevato che l’inventario deve essere stato redatto con una certa cognizione di causa, visto che, dei quadri, si fissa precisamente il rispettivo status di copia o di autografo, e considerando che il palmo equivale a circa 23 centimetri, si evince che la “S. Maria Maddalena”, decretata “Originale del Caravaggio”, misurava circa 90 x 70 centimetri, combaciando quasi esattamente – non ci si può aspettare una corrispondenza al centimetro con una unità generica come il palmo – con le dimensioni (cm 86 x 73,5) del quadro già a Vaduz, il quale quindi, se l’identificazione, come appare, è veritiera oltre che ragionevole, a quella data (1699) doveva già essere stato ridimensionato. Occorre al riguardo notare che le altre numerose versioni sul tappeto hanno tutte misure completamente differenti, cioè maggiori, salvo quella di Poitiers e, ora, quella di collezione londinese (cm 97 x 75) che nel 2021 a Rovereto è stata esposta all’occhio della critica e attende di essere ispezionata.
-Qualcuno si aspettava che tu, come novità più eclatante, scegliessi l’Ecce Homo di Madrid, trovato nel 2021 e subito in prima pagina sui giornali, da molti considerato autografo…
Ed è probabile che lo sia, ma le attribuzioni non si fanno, se così posso dire, “a furor di media”. Facciamo un passo indietro. Come è risaputo, nell’aprile dell’anno scorso a Madrid, presso Ansorena, è stato messo all’asta per 1.500 euro (!) un Ecce Homo attribuito alla scuola del Ribera (cm 111 x 86, Madrid, collezione Pérez de Castro Méndez, fig. 8), ma subito ritirato perché da qualcuno intestato al Caravaggio, magari legandolo, come al principio è stato fatto, al quadro realizzato intorno al 1605 per Massimo Massimi.
Ribadito che, oggidì, l’ammissione nel catalogo del Merisi è un processo che non si può esaurire su base solamente iconografica e che non è consentito bruciare le tappe, salvo in caso di manifesta concordanza tra elementi stilistici, archivistici e scientifici, mi limito qui a rilevare che per spodestare l’Ecce Homo del museo di Palazzo Bianco a Genova (autenticato da gran parte della critica) dall’abbinamento con la commissione Massimi e con il relativo biglietto scritto dal Caravaggio occorrerebbe che l’esemplare madrileno fosse più grande (e non più piccolo, come è) dell’esemplare genovese (cm 128 x 103), a meno che l’eventuale restauro (auspicabile viste le condizioni del manufatto e da condurre in parallelo con gli esami radiografici e dei pigmenti) non dimostri che la tela già in asta sia stata sensibilmente ridotta, allontanandosi da quei centimetri 177 x 127 dell’Incoronazione di spine di Prato (Collezione Intesa Sanpaolo), il quadro a cui doveva essere appaiato nella raccolta Massimi il nuovo pezzo richiesto e le cui dimensioni l’artista si era detto pronto, all’incirca ovviamente, a rispettare (a meno che non ci si spinga ad affermare che pure la stessa citata Incoronazione non sia quella Massimi…).
In assenza di indagini diagnostiche e con i riferimenti documentari certi che partono solo dall’Ottocento – prima sono teorici, sebbene indubbiamente plausibili, chiamando in causa ipoteticamente le raccolte reali spagnole e gli esemplari napoletani del Lezcano (1631) o del viceré Castrillo (1657) – l’attribuzione pare lievemente ottimistica, soprattutto se data per sicura, imperniandosi unicamente su aspetti formali, che tra l’altro, accanto a confronti intriganti, comprendono punti deboli, al limite del dissuasivo, come la cosiddetta “fiammella” sui rami di spine: la quale, sempre che sia effettivamente una fiamma, o è un’aggiunta apocrifa o il dipinto non è a mio avviso del Merisi. Detto questo, il quadro (di cui esistono delle copie, una addirittura pubblicata dal Longhi nel 1954 come derivazione caravaggesca senza curiosamente nessuna conseguenza critica…) è molto bello e di indubbia allure, sicché sono indifferibili ulteriori studi. Se le indagini scientifiche saranno favorevoli, nulla osterebbe all’ingresso nel body of works merisiano.
-Altre attribuzioni da menzionare?
Aggiungo due opere da poco sottoposte al mio studio, di cui però non posso per il momento mostrare l’immagine: un insolito e conturbante San Sebastiano di collezione svizzera (cm 62,5 x 49,5), da approfondire; e un Martirio di sant’Orsola (Ginevra, collezione privata, cm 118 x 99,5) che il maestro, in uno dei suoi soggiorni a Napoli, potrebbe aver redatto nella bottega del Finson, servendosi dell’assistenza di qualcuno che la frequentava (l’esistenza di questo laboratorio collettivo di artisti è stata ipotizzata in recenti studi ed è una novità densa di implicazioni), per finire poi registrato come “Un quadro di S. Ursula con cornice del Caravaggio” nell’inventario dei beni detenuti nel 1630 a Napoli da Lanfranco Massa, procuratore del principe Marcantonio Doria, il quale a quella data si godeva già da vent’anni a Genova la celeberrima Sant’Orsola confitta dal tiranno oggi della collezione Intesa Sanpaolo.
Ricordo infine la Giuditta e Oloferne (già Tolosa, collezione privata, passata nel 2019 in una raccolta di New York (fig. 9), forse il prototipo perduto della copia un tempo del Banco di Napoli e oggi a Palazzo Zevallos (Collezione Intesa Sanpaolo), rispetto alla quale presenta alla visione diretta una qualità indubbiamente superiore e propone un volto di Giuditta che appare più intenso e “vero” (ripreso da una donna del luogo), volto che tra l’altro, in una prima stesura, era indirizzato verso Oloferne.
Alcuni aspetti, tra cui il fatto che entrambi i dipinti abbiano un medesimo supporto costituito da due tele simili cucite insieme alla stessa altezza, fa pensare che siano state eseguite contemporaneamente, con i due pittori operativi fianco a fianco, l’uno (l’autore dell’esemplare già del Banco di Napoli) intento a copiare l’altro (l’artefice dell’esemplare francese), eventualità anche qui resa plausibile dalla citata operosità dell’atelier napoletano del Finson ospitante il grande lombardo.
-Ci sono delle novità nelle due sezioni dove la produzione sicura di Caravaggio è limitata, come nella ritrattistica, o quasi ridotta all’osso, come nel campo della natura morta?
Nella ritrattistica, a parte la riproposizione ad importanti mostre del Ritratto di cardinale della Galleria degli Uffizi, del Ritratto di Maffeo Berberini della raccolta Corsini e del Ritratto di Paolo V della collezione Borghese (li elenco nel mio personale ordine di crescente credibilità attributiva), indicherei la proposta, formulata nel 2016 da alcuni, di identificare il “quadro con il ritratto del Farinaccio Criminalista dipinto in tela da testa di mano, si crede, di Michelang.o da Caravaggio” citato nell’inventario Giustiniani del 1638 con una tela (cm 61 x 40,5 – tagliata ai lati) rinvenuta in una collezione privata (acquistata alla fine degli anni Novanta in Gran Bretagna, fig. 10). Le dimensioni collimano ma, prima di stabilirne l’autografia (la visione diretta e le analisi tecniche sono naturalmente cruciali al riguardo) credo sia prioritario verificare se il dipinto raffiguri davvero il giureconsulto in questione.
Le due immagini che di lui ci sono state tramandate lasciano qualche dubbio. In ogni caso, io sono dell’avviso che il Merisi abbia veramente messo al mondo il Ritratto di Prospero Farinacci (il “si crede” dell’inventario sarebbe allora da imputare a un surplus di prudenza), per cui questo ritrovamento è un fatto da meditare con la massima apertura.
Nella natura morta non sono intervenute ultimamente vere novità, anche se nuove indagini mostratemi nel 2018 rilancerebbero le aspirazioni della Caraffa di fiori già a Roma (ora in una raccolta di Siena – fig. 11) da tempo sul tavolo di discussione, e per quanto da parte di chi scrive sia stata cautamente proposta agli studi una Natura morta con vaso di madreperla e bronzo dorato di collezione privata lombarda (cm 145 x 234 – fig. 12) come lavoro di collaborazione della fase milanese, nella quale probabilmente il giovane artista produsse ritratti e nature morte (qui a lui spetterebbe prevalentemente la composizione e la stesura dei vetri e di alcuni frutti).
Milano 12 Gennaio 2022
Comunicazione: Sira v. Waldner – AION.ART
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