di Nica FIORI
Il 7 ottobre del 1571 viene ricordato per la vittoria della flotta della Lega cristiana contro quella turca nel golfo di Lepanto.
Poiché quel giorno – era una domenica – le confraternite romane del Rosario sfilavano in processione, Pio V attribuì il trionfo dei cristiani al potere di questa pratica devozionale e istituì la festa di Santa Maria della Vittoria, che nel 1573 Gregorio XIII avrebbe trasferito alla prima domenica del mese col titolo di festa del Santissimo Rosario, ma che sarebbe stata poi nuovamente spostata al 7 ottobre. Dal 1960 il titolo è stato cambiato in quello di Beata Vergine Maria del Rosario.
L’invenzione del rosario è stata attribuita a san Domenico (1170-1221) dai primi storici dell’ordine da lui fondato. Essi raccontano che la Vergine apparve al santo nel 1208 nel convento di Prouville, consegnandogli una coroncina, che egli chiamò “corona di rose di Nostra Signora”.
Più tardi si sostenne che il primo a diffondere il culto del rosario fosse stato un frate domenicano verso la fine del XV secolo. Certo la pratica acquistò grande popolarità a partire da questo periodo, divenendo la preghiera abituale di diversi ordini religiosi e laici. E Pio V, che era domenicano, stabilì le modalità di culto del rosario con la bolla Consueverunt Romani Pontifices nel 1569, quindi prima della battaglia di Lepanto. Nella forma attuale (dopo la riforma di Giovanni Paolo II) il rosario consiste nella recita di venti decine di Ave Maria precedute dal Padre Nostro e dal Gloria e dalla meditazione di uno dei 20 misteri della vita di Gesù Cristo e della Madonna (prima i misteri erano 15, come 15 erano le decine di Ave Maria).
Il suo nome, dal latino rosarium (rosaio), deriva forse da quell’usanza medievale che voleva che i servi della gleba offrissero al loro padrone una corona di rose come segno di ossequio. Ma potrebbe anche rifarsi alle corone di fiori usate solitamente nelle feste. In epoca ellenistica la rosa simboleggiava il primo grado di iniziazione ai misteri di Iside. Il protagonista dell’Asino d’oro di Apuleio può guarire dalla sua metamorfosi solo mangiando le rose della dea. Anche questo fiore, quando il concetto di “natura” legato al suo culto venne rielaborato in termini cristiani, intorno al XII secolo, è stato trasferito sulla Vergine, insieme a molti altri attributi della dea Madre egizia. Pensiamo per esempio alla falce di luna, alle spighe, al manto stellato. Non c’è da stupirsi, perciò, se a Parigi, nella chiesa di Saint Germain de Prés, le donne si inginocchiavano davanti a una statua di Iside velata, scambiandola per la Madonna.
La rosa è divenuta, quindi, il fiore di Maria. San Bernardo di Chiaravalle, contrapponendo la prima donna alla Madre di Gesù, diceva: “Eva spina, Maria rosa”. Ma la rosa è anche il fiore di Cristo e della Passione. Una canzone francese del XIII secolo specifica: “Il fiore nacque in quella Betlemme, /che è bella, che è luminosa, /la rosa è Maria, regina del Cielo, / e dal suo seno scaturì quel fiore”. Come dire che da una rosa nasce un’altra rosa. A Roma nella basilica di San Pietro nella quarta domenica di quaresima, detta domenica “laetare” (dall’introito della messa del giorno Laetare Jerusalem, ovvero “Rallégrati Gerusalemme”) o “delle Rose”, si svolgeva una cerimonia particolare. Il papa prendeva un ramoscello di rose e sulla più bella versava con un cucchiaino d’oro un po’ di balsamo e di muschio. Il ramoscello con il fiore benedetto, simboleggiante il Cristo, veniva poi donato al principe prescelto per quell’anno.
La rosa è un simbolo di trascendenza che ritroviamo in diverse culture. Il poeta islamico Gialal-ed-Din Rumi la considerava una manifestazione dell’Uno ineffabile: “Ogni rosa, pregna di intenso profumo, narra, quella rosa, i segreti del Tutto”. Ma poiché il Tutto è inaccessibile al profano, questo fiore allude anche al segreto ermetico, chiuso e inviolato. Per questo rose a cinque petali racchiuse in un nimbo venivano scolpite nei confessionali e nelle decorazioni di sale adibite alla trattazione di affari di Stato. Ma la rosa è soprattutto simbolo di fioritura spirituale dell’uomo, della sua comunione con Cristo. Dante nella Divina Commedia immagina l’Empireo come una candida rosa formata dai beati disposti lungo la spirale dei petali. E la Madonna è la regina cui questo regno è devoto, il Fiore dei fiori (Flos florum), la rosa nel cui ventre è germinato il fiore supremo, il figlio di Dio.
Pregare con il rosario significa, quindi, costruire mentalmente una corona di rose in onore di Maria e, nello stesso tempo, in onore di Cristo.
L’iconografia della Madonna del Rosario, che ricorda quella più antica della Madonna della Cintola, è una delle più tradizionali e importanti raffigurazioni con le quali la chiesa cattolica venera Maria.
L’immagine tradizionale più nota è quella della basilica della Beata Vergine del Rosario di Pompei – città della quale è patrona. Si tratta di una tela del XVII secolo attribuita alla scuola di Luca Giordano, di non eccelso valore artistico e molto restaurata ma di notevolissimo valore spirituale e taumaturgico, che raffigura la Madonna col Bambino su un piedistallo, mentre porgono un rosario rispettivamente a santa Caterina da Siena e a san Domenico.
Questa Madonna è venerata da numerosissimi pellegrini, in particolare nei giorni dell’8 maggio e del 7 ottobre, durante i quali si tiene la Supplica alla Madonna di Pompei, con la recitazione dell’Atto d’amore alla Vergine scritto dal beato Bartolo Longo (1841 – 1926).
Nato a Latiano, in provincia di Brindisi, Longo studiò giurisprudenza all’Università di Napoli, dove si lasciò influenzare dall’ambiente anticlericale, avvicinandosi anche allo spiritismo, fino a diventare un satanista. Con il passare del tempo ebbe una profonda crisi, una depressione fisica e psichica che gli causò anche danni alla salute; dopo una notte di incubi, si rivolse a un professore cattolico che lo mise in contatto con il padre domenicano Alberto Radente e, grazie a lui, entrò nel Terzo Ordine (laico) di San Domenico.
Un giorno nella valle di Pompei, dove amministrava le proprietà della nobildonna Marianna Farnararo De Fusco (una vedova con 5 figli che poi avrebbe sposato), mentre passeggiava tormentato dai sensi di colpa per il suo passato, sentì una voce che gli suggeriva di diffondere il culto del rosario per salvarsi. Fu allora che decise di rimanere a Pompei e fece costruire poi a partire dall’8 maggio 1876 una chiesa che dedicò ovviamente alla Vergine del Rosario.
L’immagine della Vergine, che ebbe in dono da una suora di un convento napoletano, giunse a Pompei nel 1875. Date le pessime condizioni, venne restaurata e collocata provvisoriamente nella chiesetta parrocchiale; pare che già lì la Madonna avesse iniziato a compiere miracoli, facendo guarire nella sua prima esposizione una bambina che aveva una malattia considerata incurabile.
La presenza di santa Caterina da Siena, che nell’iconografia più frequente della Madonna del Rosario accompagna san Domenico, è dovuta al fatto che è una figura femminile fondamentale per l’Ordine domenicano, ma a volte è sostituita da santa Rosa da Lima (pure domenicana), riconoscibile dalla corona di rose in testa. Compaiono a volte altri santi, perché patroni di una particolare città, come pure angeli e attributi domenicani, quali il giglio e un cane con una fiaccola in bocca (perché i domenicani si ritenevano i “cani del Signore”).
Tra i numerosissimi dipinti relativi a questo titolo mariano, uno dei più straordinari è la Madonna del Rosario di Cingoli (Macerata), di Lorenzo Lotto, un pittore che sentì fortemente l’attrazione per la Vergine, tanto da farsi oblato nella comunità della Santa Casa di Loreto, dove morì nel 1557.
Si tratta di una grande tela (cm 384 x 264) terminante ad arco, commissionata nel 1537 per l’altare maggiore della chiesa di San Domenico, che l’artista realizzò direttamente sul luogo. La Madonna col Bambino è seduta su un trono dorato in “sacra conversazione” con alcuni santi disposti su più livelli. Nel primo ordine a sinistra è san Domenico, che riceve la corona del rosario dalla Madonna, mentre a destra è collocato sant’Esuperanzio, patrono di Cingoli, in abiti vescovili, che offre alla Vergine e al Bambino un modellino della città. Sempre a destra vi è santa Caterina da Siena, opposta a santa Maria Maddalena, cui si aggiungono sul terzo livello san Pietro Martire e san Vincenzo Ferrer, che con il suo indice alzato sembra indicare l’ordine di lettura della parte superiore della pala, ovvero la raffigurazione dei “Misteri” che per la prima volta appaiono tutti insieme all’interno di un quadro.
È un lussureggiante roseto che si staglia nel cielo serale a fare da sfondo alla struttura lignea su cui sono posti i medaglioni, disposti ad arco su tre livelli, raffiguranti i Misteri gaudiosi (Annunciazione, Visitazione, Natività, Presentazione al tempio, Cristo bambino che insegna ai dottori), i Misteri dolorosi (Cristo nell’orto degli ulivi, Flagellazione, Incoronazione di spine, Ascesa al Calvario, Crocifissione) e i Misteri gloriosi (Resurrezione, Ascensione, Pentecoste, Assunzione della Vergine, Incoronazione della Vergine).
Oltre al roseto arboreo, un ulteriore dolcissimo riferimento al tema delle rose sacre alla Vergine è dato da due puttini che giocano con i petali di questi fiori. Uno dei due, in particolare, getta una manciata di petali bianchi, che sembra sfondare la tela e uscire dal dipinto verso l’osservatore.
Al centro della composizione, sotto il piede sporgente della Madonna e indicata dall’indice di san Giovanni Bambino è la scritta con la data di realizzazione dell’opera in caratteri romani, e la firma in latino Laurentius Lotus, ovvero alloro e loto, che denota la sua passione per la botanica. Questo capolavoro di Lorenzo Lotto si trova attualmente nel salone degli stemmi del Comune di Cingoli, dove è stato trasportato dalla chiesa di San Domenico in seguito al terremoto del 2016.
Accomunata dallo stesso catastrofico evento sismico ci appare un’altra Madonna del Rosario, che è attualmente esposta, dopo il suo restauro, a Rieti nella mostra “Oltre una sorte avversa. L’arte di Amatrice e Accumoli dal territorio alla rinascita”: una mostra che ho recensito mesi fa e che è stata da poco oggetto di una lectio magistralis di Vittorio Sgarbi.
Il dipinto (olio su tela, cm 185 x 139), proveniente da Pasciano (Amatrice), è di ambito laziale ed è databile tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo. Rappresenta la Vergine seduta col Bambino su un banco di nuvole, sullo sfondo di un cielo dorato. Al di sotto san Domenico e santa Caterina inginocchiati ricevono i rosari e tra i loro sai si intravede un paesaggio montuoso, presumibilmente quello di Amatrice. Tutt’intorno sono disposti su tre lati quindici tondi con i Misteri del Rosario e al di sotto un ramo fiorito di rose. Come scrive Elena Onori nella scheda di catalogo, “la fattura è di un garbo straordinario, … che punta ad avvicinare e coinvolgere una comunità di persone semplici, devote, scrupolose …”.
Ho notato che nella stessa mostra è presente un altro quadro, proveniente dalle macerie di Amatrice, con una stampa ottocentesca (cromolitografia su carta) della Madonna di Pompei, circondata dai soliti medaglioni con i Misteri. Al quadro è appeso un filo argenteo con delle medagliette, che dovevano muoversi, emettendo dei suoni, nel corso delle locali processioni: un’ulteriore dimostrazione di quanto sia sentita la devozione verso la Madonna del Rosario nei paesi, come in questo caso, ma anche nelle città più importanti.
Pensiamo in particolare a Venezia, dove si sono cimentati sul tema grandi artisti, tra cui il Veronese, che ha disegnato l’Allegoria della Battaglia di Lepanto, realizzata dalla sua bottega (1573, olio su tela cm 169 x 137, Gallerie dell’Accademia), che mostra al di sopra della flotta la raffigurazione della Madonna tra santi, angeli e una figura femminile inginocchiata che incarna la Serenissima Repubblica.
Gian Battista Tiepolo ha affrescato con effetti illusionistici la volta della chiesa veneziana di Santa Maria del Rosario, detta dei Gesuati, comprendente l’Istituzione del Rosario, la Gloria di San Domenico e l’Apparizione della Vergine a San Domenico (1737-1739).
È invece conservata a Ferrara, nella Pinacoteca Nazionale, la Madonna del Rosario con i santi Domenico, Giorgio e Maurelio (1598 circa) del veneziano Domenico Tintoretto, figlio del più celebre Jacopo.
A Firenze, in Santa Maria Novella, troviamo una Madonna del Rosario di Giorgio Vasari (1570);
a Senigallia vi è quella di Federico Barocci (post 1592, Pinacoteca Diocesana);
a Bologna, nel Santuario della Madonna di San Luca, quella di Guido Reni, che presenta anche i Misteri (1595-1599 circa).
A Napoli Luca Giordano, alla cui bottega si deve la celebre Madonna di Pompei, ha firmato una grande Madonna del Rosario (1657, olio su tela, Museo Nazionale di Capodimonte), con più figure rispetto a quella di Pompei.
Un’altra grande città che ha tributato un importante culto alla Madonna del Rosario è Palermo, che vanta nell’Oratorio del Rosario di San Domenico la grande pala d’altare (1625 – 1627) di Antoon Van Dyck.
Il dipinto presenta, oltre alla Madonna e ai soliti santi domenicani (Domenico, Caterina e Vincenzo Ferrer), anche cinque sante siciliane: Cristina, Ninfa, Oliva, Agata e Rosalia, la vergine eremita il cui corpo era stato ritrovato proprio in quegli anni e perciò era stata attribuita alla sua intercessione la cessazione della pestilenza del 1624. La pala è stata commissionata come ex voto alla Madonna proprio in seguito a questo evento. Santa Rosalia vi è raffigurata di spalle inginocchiata al centro (verso sinistra) e accanto a lei un bambino nudo fugge tappandosi il naso con le mani, alludendo al fetore tipico degli appestati.
Non si trova più in Italia, purtroppo, il capolavoro di Caravaggio raffigurante la Madonna del Rosario (olio su tela cm 364 x 249), conservato nel Kunsthistorisches Museum di Vienna. La scena è articolata secondo uno schema piramidale su tre livelli, con al vertice la Madonna con il Bambino, al livello intermedio san Domenico, san Pietro martire e altri frati dell’ordine domenicano e in basso il donatore, vestito di nero e in gorgiera e altri fedeli dall’aspetto umile, inginocchiati per ottenere la grazia.
Questi fedeli non guardano in realtà la Madonna, ma san Domenico, che ha due rosari nelle mani. Inquadrano la composizione una grande colonna a sinistra e, superiormente, un grande drappo rosso annodato alla colonna. Molti sono i misteri irrisolti riguardo la committenza di quest’opera e la data di esecuzione, come pure la completa autografia. È stato notato che san Pietro martire, con la sua ampia cicatrice sulla fronte, richiama la ferita alla testa che Caravaggio aveva riportato – presumibilmente prima dell’esecuzione del dipinto – nello scontro con Ranuccio Tommasoni, conclusosi con la morte di quest’ultimo e l’allontanamento di Caravaggio da Roma (1606).
Il quadro sarebbe stato forse dipinto a Napoli, su committenza di Luigi Carafa, parente di Martino Colonna (feudatario di Palestrina, Zagarolo e Paliano, presso cui il pittore si era rifugiato dopo essere fuggito da Roma), per decorare la cappella di famiglia nella chiesa napoletana di San Domenico Maggiore. Si voleva così esaltare anche il personaggio più celebre della famiglia, l’ammiraglio pontificio Marcantonio Colonna, che aveva combattuto nella battaglia di Lepanto, la cui vittoria da parte dei cristiani era strettamente legata alla Madonna del Rosario. Secondo questa tesi, il dipinto sarebbe stato dipinto probabilmente nel 1607, dopo le Sette opere di Misericordia, prima della partenza di Caravaggio per Malta.
Un’altra ipotesi è che il quadro fosse stato commissionato nel 1605 dal duca di Modena Cesare d’Este per la chiesa modenese di San Domenico e c’è anche quella che si tratti della pala commissionata dal ricco mercante di Ragusa (attuale Dubrovnik) Nicola Radulovich, che avrebbe dovuto raffigurare la Madonna in trono tra san Nicola e san Vito, e che sarebbe stata modificata in corso d’opera.
Ritornando alla festa della Madonna del Rosario, c’è da dire che essa coincide sul calendario con il tempo della vendemmia e delle sagre dell’uva.
Notissima è quella di Marino (RM) che comincia di norma la prima domenica di ottobre per ricordare la vittoria nel golfo di Lepanto, cui aveva contribuito l’allora signore di Marino Marcantonio Colonna. Non è un caso che il monumento più noto della cittadina sia la fontana dei Quattro Mori, comprendente quattro statue di prigionieri musulmani disposti intorno a una colonna (simbolo araldico della famiglia Colonna). Dopo la vittoria del 1571 i marinesi cominciarono a festeggiare la Madonna con una solenne processione, che terminava con la distribuzione di grappoli d’uva, anche se la sagra vera e propria è stata istituita nel 1925 per iniziativa del poeta Leone Ciprelli. Nel corso della manifestazione perfino le fontane gettano vino in un tripudio di allegria, come ricorda la nota canzone ‘Na gita a li Castelli:
“Lo vedi, ecco Marino / la sagra c’è dell’uva / fontane che danno vino / quant’abbondanza c’è”.
Nica FIORI Roma 3 ottobre 2021