di Nica FIORI (Foto di Francesca Licordari)
Tra i dintorni di Viterbo, in pieno territorio etrusco, sono di particolare interesse archeologico i resti della città romana di Ferentium (o Ferentio, Ferentis, Ferenti, a seconda dei diversi storici e geografi antichi), situata sulla collina di Pianicara, a circa 7 km dal capoluogo laziale lungo la strada Teverina, in direzione di Bagnoregio. Noto soprattutto per il teatro, che è utilizzato d’estate per importanti spettacoli serali e rievocazioni storiche, il sito di Ferento, da non confondere con Ferentino nel Frusinate, è aperto gratuitamente tutto l’anno ed è di facile fruizione grazie a una serie di pannelli didattici, che aiutano il visitatore a capirne la storia e l’architettura.
Le sue origini risalgono probabilmente alla fine del VI secolo a.C., in seguito alla distruzione dell’abitato etrusco di Acquarossa posto nell’antistante collina di San Francesco. Il nome Acquarossa richiama quello del sottostante torrente, le cui acque sono rossicce per la presenza di minerali ferrosi (in particolare la limonite), che hanno determinato la frequentazione di questo territorio fin dall’età protostorica. Oltretutto le due alture avevano una posizione facilmente difendibile, mentre due fiumicelli sottostanti permettevano un costante rifornimento idrico, che favoriva l’agricoltura e l’allevamento. Dell’antico insediamento di Acquarossa, scavato negli anni ‘60-‘70 del secolo scorso dall’Istituto Svedese di Studi Classici con la partecipazione del re archeologo Gustavo VI Adolfo di Svezia, si sono conservati interessanti materiali fittili esposti nel Museo Nazionale Etrusco di Rocca Albornoz a Viterbo, tra cui delle caratteristiche tegole a lucernario (con una struttura circolare girevole per dare aria), acroteri a testa femminile e delle lastre decorate con scene di simposio e processioni di guerrieri.
Gli abitanti di Acquarossa, dopo la distruzione del loro abitato, probabilmente a opera dei Tarquiniesi, si sono spostati sulla collina di Pianicara, dove Ferento prosperò fino a diventare municipium romano nel 260 a.C. La città, che un’epigrafe del II secolo d.C. definisce splendidissima, ebbe il periodo di massimo sviluppo in età augustea, con un’estensione di 30 ettari e una popolazione di 10.000 abitanti. Oltre ai minerali di ferro, a Ferento veniva estratta anche la pietra aniciana, elogiata da Vitruvio perché sopportava bene il caldo e il gelo (De architectura, II 7, 3-4).
L’abitato era attraversato dalla via Ferentiensis (con funzione di decumano massimo) che dalla via Cassia, all’altezza delle terme romane del Bacucco, si dirigeva verso Falerii Novi, l’importante centro falisco-romano nel territorio di Fabrica di Roma. Come tutte le città romane, Ferento era dotata di un assetto viario regolare e dei più importanti edifici pubblici, tra i quali il teatro, l’anfiteatro, il foro e le terme.
La città ha dato i natali nel 32 d.C. a Otone, dell’antica famiglia etrusca dei Salvii, che sarebbe diventato imperatore nel 69 d.C. – nell’anno dei quattro imperatori – subito dopo Galba e prima di Vitellio. Di Otone si ricorda che aveva sposato Poppea e aveva promesso a Nerone di divorziare da lei, ma si era poi rifiutato, perdendo così il favore di Nerone e alla fine il suo matrimonio venne comunque annullato. Sempre di Ferento era il padre di Flavia Domitilla, moglie di Vespasiano e madre di Tito e di Domiziano.
Un altro personaggio nato a Ferento è san Eutizio, martirizzato nella sua città nel 270 ca. durante la persecuzione di Aureliano. Nato probabilmente nel 250, alla giovanissima età di 19 anni sarebbe stato già presbitero, consacrato dal vescovo Dionisio, ma poco dopo avrebbe subito il martirio tra tormenti vari e decapitazione finale. Dopo una prima sepoltura, le spoglie vennero trasportate a Soriano nel Cimino e da lì il suo culto si diffuse in tutto il Lazio.
Poche notizie si hanno della storia di Ferento dopo il periodo imperiale. La vita si contrae intorno al teatro, cui si addossano casupole e botteghe, infine l’intero edificio viene trasformato in fortezza. I sepolcreti barbarici, scoperti fra le rovine delle terme, dimostrano che la città si era notevolmente spopolata. Tra la fine del V secolo e la metà del VII secolo è sede di diocesi. La sua povertà è documentata da Gregorio Magno, che nei suoi Dialoghi riporta la notizia che il vescovo Bonifacio fosse riuscito miracolosamente a moltiplicare il vino ottenuto dalla sua misera vigna. Nel VII secolo la sede vescovile si sposta a Bomarzo e in seguito con i Longobardi si ha la disgregazione del territorio della città tra i vescovati di Tuscania, Bomarzo e Bagnoregio.
Intorno al 1000 si ha una ripresa economica e demografica (sono documentate almeno cinque chiese), ma questa nuova ricchezza determina il conflitto con Viterbo, che la distrugge nel 1172 e ne utilizza l’area per la lavorazione dell’allume e del ferro. La palma, che era il simbolo di Ferento (probabilmente in ricordo del martirio di san Eutizio), viene assunta nello stemma da Viterbo, che la associa al preesistente leone.
Le prime notizie di scoperte archeologiche a Ferento, limitatamente all’area del teatro, che è sempre stato in parte visibile, risalgono al XVI secolo (si conservano dei disegni di Antonio da Sangallo il Giovane, Baldassarre Peruzzi, Sebastiano Serlio), ma scavi veri e propri vengono effettuati nel 1901-1909 e ripresi nel 1928, riportando alla luce completamente il teatro e parte delle terme.
Del teatro, costruito nel primo decennio del I secolo d.C. (durante il principato di Augusto) e restaurato nel II secolo durante i periodi antonino e severiano, si conservano imponenti avanzi della scaena, tra cui il piano inferiore della frons scaenae (con basamento in opus reticulatum ed elevato in laterizio), e della cavea, della quale rimangono 13 gradini e le 27 arcate esterne realizzate in grossi blocchi di peperino.
L’edificio scenico presenta un orientamento nord-sud, con l’apertura della cavea rivolta a mezzogiorno. Il settore inferiore della cavea (ima cavea) è addossato direttamente al pendio naturale di pietra aniciana, mentre i settori centrale e superiore (media e summa cavea), attualmente perduti, poggiavano su sostruzioni. Si suppone che potesse ospitare fino a 3000 spettatori.
Due gallerie semicircolari, l’inferiore ancora visibile e la superiore scomparsa, erano realizzate in cementizio e separate da un sistema di camere radiali, che contribuivano a sostenere il peso delle gradinate. Due rampe di scale, delle quali si conservano parziali tracce delle murature e dei gradini, consentivano il diretto accesso alla summa cavea dall’esterno dell’edificio.
L’orchestra (la parte semicircolare al piano terreno), di oltre 20 m di diametro, era pavimentata in lastroni di peperino e dotata di un canale di scolo dell’acqua piovana, smaltita al di sotto mediante tre cunicoli fognari. I due corridoi laterali (parodoi) che permettevano l’accesso alle gradinate e all’orchestra, sono a piano inclinato, fiancheggiati da murature in opus reticulatum e pavimentati in peperino.
Tra l’orchestra e la scaena si apre la fossa scenica, all’interno della quale è possibile scorgere dieci pozzetti quadrati in opus reticulatum, riconducibili al funzionamento del sipario (che in antico si muoveva dal basso verso l’alto) e agli incassi per le travature del tavolato che ricopriva la fossa costituendo il palcoscenico. Il muro di sostegno del palcoscenico (pulpitum), conservato in minima parte, era decorato da colonnine e festoni di fiori e frutta.
La frons scaenae aveva in origine undici porte, delle quali ne restano solo sette: tre immettono sulla scena, le altre quattro conducevano agli ambienti di servizio, dislocati ai lati della facciata scenica. La frons era suddivisa architettonicamente in due ordini e riccamente decorata da statue entro nicchie e colonne in marmi policromi: decorazione risalente alla seconda fase costruttiva (150-170 d.C.). Successivi interventi, sempre relativi alla decorazione architettonica, sono datati tra la fine del II sec. d.C. e gli inizi del III sec. d.C.; agli inizi del IV sec. d.C. risalgono alcuni restauri della muratura della fossa scenica nel c.d. opus vittatum mixtum.
Per avere un’idea della ricchezza della decorazione architettonica del teatro, vale la pena di visitare il Museo Nazionale Etrusco di Viterbo, dove sono conservati gli importanti resti marmorei, rinvenuti negli scavi del 1902 e inizialmente destinati dallo Stato al Museo Archeologico di Firenze, da cui dipendeva all’epoca il Viterbese (lì furono esposti fino all’alluvione del 1966).
Oltre a vari elementi come basi, capitelli, colonne ecc., si è conservato il ciclo delle Muse, che ornava le nicchie dell’ordine inferiore della scena. Possiamo ammirare otto statue, in posizione stante, con chitone di tipo teatrale e himation, che erano rivolte verso il centro del frontescena. Le Muse, ovvero le nove figlie di Zeus e Mnemosine, sono identificabili come patrone delle arti dagli oggetti che recano in mano: Melpomene (tragedia) è raffigurata con maschera tragica e clava, Talia (commedia) con maschera comica e pedum (bastone), Erato (poesia lirica) con la cetra, Euterpe (danza e cori tragici) con la doppia tibia, Clio (storia) con il dittico e lo stilo (mancante), Tersicore (poesia conviviale e danza) con la lira. Urania (astronomia) con la sfera nella mano sinistra (non ricomponibile) e il radius, Calliope (poesia elegiaca), con un rotolo. La nona Musa, Polimnia (pantomima) non è conservata; una statua femminile con cintura chiusa da due fibbie a forma di mani destre strette, di diversa fattura e marmo rispetto alle altre, è possibile sia stata reimpiegata con questa funzione, ma è solo un’ipotesi. Comunque, essendo otto le nicchie del primo ordine, Polimnia ed eventualmente Apollo sarebbero da collocare sul fianco del frontescena. II gruppo delle otto statue (per lo più acefale) è datato poco dopo il 150 d.C. o verso la fine dello stesso secolo, cioè al periodo del rifacimento della scena in età severiana; sono da considerarsi copie di un tipo iconografico derivante da modelli ellenistici, presente anche sui sarcofagi.
Le Muse, essendo divinità del canto e della danza, con Apollo alla loro guida, per il loro evidente messaggio simbolico ornavano frequentemente i teatri.
Le nicchie del secondo ordine del frontescena erano decorate con un altro gruppo statuario coevo al primo, a cui appartenevano una testa di Afrodite e una replica del Pothos di Skopas; questa scultura conserva ancora le ali, quasi sempre mancanti nelle circa quaranta copie conservate. Ricordiamo che Pothos, personificazione del rimpianto e del senso di nostalgia che si prova quando una persona amata è lontana, era ritenuto, insieme ad Eros e ad Himeros, figlio di Afrodite e, come tale, accompagnava spesso la dea nelle rappresentazioni figurative.
L’esemplare di Ferento rappresenta una variante rispetto alle solite repliche, in quanto poggia sulla gamba sinistra e non sulla destra; la capigliatura elaborata accentua il carattere di rigida copia accademica, priva della caratterizzazione “patetica” dell’originale scopadeo.
Questo ciclo statuario era di dimensioni ridotte rispetto a quello delle Muse; probabilmente era costituito dalle statue di Afrodite e dei suoi figli.
Sempre dagli scavi del 1902 provengono numerosi frammenti di altre statue nude e panneggiate e di erme (tra cui una con testa di sileno anziano), che presumibilmente decoravano le transenne o i plutei. Il ritrovamento più interessante di questo gruppo è costituito dai frammenti di una grande statua loricata (forse di Caracalla), della quale rimangono due gambe con calzari militari, e una testa di Caracalla giovane (databile dal 196 al 204 d. C.) del tipo rappresentato a Roma nell’Arco degli Argentari. È ipotizzabile che nel teatro fossero collocate davanti alle porte del frontescena anche le statue ritratto di Settimio Severo e dei suoi figli (oltre a Caracalla, si ricorda Geta, che verrà ucciso dal fratello e il suo nome eraso dai monumenti).
Adiacenti al teatro di Ferento erano le terme pubbliche, un grandioso complesso in opus latericium del quale è ricostruibile la pianta con la tipica sequenza degli ambienti termali (frigidarium, tepidarium, calidarium) e con due ambienti speculari, interpretati come spogliatoi, pavimentati a mosaico con disegni geometrici in bianco e nero e con tracce di rivestimenti marmorei e degli intonaci.
Ricca di fascino è la passeggiata lungo il decumano, con i resti di una domus ad atrio di età repubblicana, poi riadattata in epoca giulio-claudia, e di un complesso di cisterne tardo repubblicane, trovate al di sotto di tabernae di età imperiale (evidentemente erano state obliterate in seguito all’introduzione in città di un diverso sistema di captazione dell’acqua). Questi ultimi edifici sono stati riportati alla luce nel corso delle campagne di scavo condotte dal 1994 al 2004 dalla Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell’Università della Tuscia, ma buona parte dell’antica città è ancora inesplorata, compreso l’anfiteatro (con ellissi di m 74×51), che è all’interno di una proprietà agricola privata.
Nica FIORI Roma 3 Settembre 2023
Apertura del sito archeologico di Ferento (Viterbo)
Orario estivo: da martedì a venerdì ore 14-17; sabato e domenica ore 10,30-19
Orario invernale: da martedì a venerdì ore 10,30-17; sabato e domenica 10,30-16
Info: www.archeotuscia.com