di Mario URSINO
In mostra a Roma oltre cento opere dell’artista abruzzese-napoletano in una grande mostra tematica curata da Chiara Stefani; fino al 28 gennaio alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna
Le “lunghe e laboriose ricerche dell’arte” di Filippo Palizzi, fra natura e figura
Amava Filippo Palizzi (Vasto 1818-Napoli 1899) [fig. 1], la natura, il paesaggio, gli animali?
Sicuramente, ma la pittura ancora di più. I suoi dipinti, infatti, non sono descrizioni di temi letterari, paesaggistici, narrativi, come in Morelli, non è l’immaginazione, o come si dice, l’ispirazione, ma il fare pittorico, il “mestiere” nell’uso del disegno e del colore. Il quadro più emblematico di tutta la sua produzione è, a mio avviso, il grande dipinto Dopo il diluvio, 1863, cm. 175×266, a Napoli nel Museo di Capodimonte [figg. 2-3], che fu commissionato (a tema libero) da Vittorio Emanuele II nel 1861 e fu esposto insieme ad altre sue opere a Parigi nell’Esposizione Universale del 1867. In quest’opera Filippo Palizzi ha espresso al massimo grado la rappresentazione del celebre episodio della Genesi, in maniera puntigliosa e lenticolare dell’uscita dall’Arca di tutte le specie di animali che discendono dal picco roccioso a valle, ancora immersa nella evaporazione delle acque; in alto nel cielo stormi di uccelli in ogni direzione. Sulla cima della roccia svetta ferma l’Arca, dove l’uomo, con il cane (che non si vedono, parole di Palizzi, per simbolizzare l’attaccamento di questo animale all’uomo), offre il sacrificio al Signore; lo si desume dalla colonna di fumo che si spande nell’aria. Un capolavoro assoluto, molto pensato dal Palizzi che ha evocato l’episodio biblico pittoricamente, non immaginando (come ha fatto il Morelli) un paesaggio del vicino Oriente, ma della natura a lui circostante, e degli animali di cui, a buon diritto, era divenuto un vero specialista: quelle rocce che vediamo nel dipinto potrebbero essere (anzi ne sarei proprio sicuro) quelle di Cava de’ Tirreni (anche se è documentato che l’opera è stata dipinta nel suo studio a Napoli), dove molti pittori “paesisti” e della Scuola di Posillipo amavano soggiornare; e, come ricorda Domenico Morelli, Palizzi:
Nel mese di Luglio andava a Cava e ne ritornava a Novembre portando una quantità di studi, dai quali componeva i suoi quadri di animali nel resto dell’anno […] trovava sul posto i suoi quadri, vacche, vitelli, capre, asini, interni affumicati e rendeva interessante tutto quello che ritraeva dal vero”.
(cfr, Morelli-Dalbono, La scuola napoletana di pittura, a cura di Benedetto Croce, Bari,1915, p. 24).
Infatti gli animali descritti analiticamente dal “vero” erano, e non sono altro che il gioco sapiente del disegno e del colore tra ombra e luce, ed appaiono viventi e naturali. A proposito della rappresentazione dell’ombra e della luce, Filippo Palizzi così la spiegava ai suoi allievi:
“Su di un pezzo di carta steso sopra una superficie piana la luce si spande egualmente. Nel piegare, muovere e spiegazzare la carta, si hanno invece diversi punti luminosi e diverse ombre. Fra i punti luminosi uno prevale, e lo chiameremo massimo chiaro; la parte più scura delle ombre viene chiamata massimo scuro”.
Queste semplici parole di Palizzi sono riportate da uno dei suoi allievi, il pittore napoletano Ezechiele Guardascione (1875-1948) nel suo Napoli Pittorica. Ricordi di arte e vita, Firenze, 1948, p. 10; in questi ricordi Guardascione aggiunge:
“Palizzi è sicuro e preciso come un orafo che incastra una pietra preziosa al posto dovuto. Ecco quello che egli predicava e che, ripeto, si osserva nei suoi dipinti, dove la pennellata sintetica non esclude affatto la precisione analitica nella resa della struttura dell’albero, della roccia e via dicendo” (ibid., p. 10).
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Questa premessa semplicemente per introdurre e segnalare l’impeccabile mostra Filippo Palizzi. L’universo incontaminato di un artista a metà dell’ ‘800, a cura di un’attenta storica dell’arte, Chiara Stefani, nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna, fino al 28 gennaio 2018. (È un peccato che duri così poco, essendosi inaugurata il 14 dicembre 2017). Ma tant’è. Del resto è davvero un encomiabile lavoro, e direi, una vera sorpresa nel molteplice mescolamento rivoluzionario delle collezioni passate e contemporanee, nella singolare direzione del nostro museo d’arte moderna affidata, da poco più di un anno, a Cristiana Collu.
La rassegna della Stefani dispiega circa cento opere selezionate dalla famosa storica donazione di 300 dipinti e studi che Filippo Palizzi volle donare all’allora Ministero della Pubblica Istruzione nel 1892. La storia è nota: la Galleria Nazionale d’Arte Moderna era ancora in fieri, esistendo solo giuridicamente con i decreti del 1881 e 1883, promossi da Guido Baccelli (1830-1916), illustre medico e scienziato più volte ministro tra il 1874 e il 1903; ma codesta donazione, la più consistente di qualsiasi altra pervenuta al museo, uno dei primi nuclei fondanti del nostra Galleria Nazionale d’Arte Moderna, fu sistemata temporaneamente in due sale nel Palazzo delle Esposizioni e ordinata cronologicamente su cinque livelli, secondo il desiderio dell’artista [v. incisioni di Dante Paolocci per L’Illustrazione Italiana, n.34 del 21 agosto 1892, figg. 4-5], pervenuta poi definitivamente alla sede odierna della Galleria Nazionale nel 1915. Il pittore si decise a donare un così cospicuo numero di opere, complete persino delle cornici* (che lui stesso volle personalmente commissionare), a seguito di una semplice richiesta del Consiglio Superiore di Belle Arti di una sola opera, secondo uno dei criteri di acquisizione di opere moderne del Ministero della Pubblica Istruzione, a partire dal 1861, per il costituendo museo. Ma Palizzi riflette molto su questa modesta richiesta, e certamente compiaciuto, così ricorda in un testo apparso sulla rivista “Natura ed Arte”, Milano, 1898-99, p. 977:
“Molti pensieri intanto mi sono affacciati alla mente intorno alle difficoltà di rispondere a questo impegno […] pensai ai miei studi, che rappresentano la storia di tutte le mie opere. Se li dessi tutti in cambio dell’opera che mi si chiede? […] dando i miei studi io darei cosa assai più importante di un’opera sola […]. Essi rappresentano in complesso un’opera sola, l’opera della vita di un artista vissuto solo per l’arte”.
Cosicché quando donò le trecento opere, aggiunse una pagina dipinta con queste parole:
“Dal mio studio di Napoli ho recato a Roma questi miei studi e li ho qui disposti in ordine cronologico per semplice dimostrazione della fede e dell’amore immenso che sempre portai nelle lunghe e laboriose ricerche dell’arte. Vorrei rinascere per ricominciare”.
Queste lapidarie parole oggi si possono leggere nella targa dipinta [fig. 6] in chiusura della mostra che stiamo segnalando.
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Diversamente da quanto disposto dall’artista che, a onor del vero, è stato sempre tenuto in gran conto da tutti i precedenti soprintendenti della Galleria Nazionale, da Palma Bucarelli nel 1950 a Dario Durbé nel 1966, a Sandra Pinto, 1995-1998, nei diversi allestimenti nel corso delle loro direzioni, che però li hanno sempre disposti a “corpus, benché antoligizzato in più livelli” (Pinto, 1999, fig. 7), Chiara Stefani, ai fini scientifici e didattici, e quindi quanto mai opportuni, ha suddiviso le circa cento opere (che Palizzi chiamava tutti studi) in quattro sale nei soppalchi del museo [figg. 8-9], separate da un ballatoio, dove sono esposte storiche foto dei precedenti allestimenti Bucarelli-Durbè sopra citati.
La scelta quindi è stata giustamente tematica, a prescindere perciò dalla cronologia palizziana, sempre puntualissima e riportata talvolta in parentesi quadre, laddove essa è stata desunta dall’elenco cronologico che Palizzi minuziosamente descrisse tra il 1891 e il 1892, conservato oggi nell’archivio della Biblioteca Comunale di Vasto, sua città natale.
In questo modo, così didatticamente esemplare, la Stefani ha disposto la sua selezione: nella prima e seconda sala sono prevalenti i temi del paesaggio e della figura (quasi sempre inscindibili nell’opera palizziana). Nella prima sala è stato collocato anche il noto bronzo Ritratto di Palizzi, 1895, dello scultore Achille D’Orsi (1845-1929); pochi però leggono alla base del busto, il bronzeo cartiglio che reca la bella dedica: “Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, offerta dall’Arch. Antonio Curzi in omaggio al maestro Filippo Palizzi 1895”, donato appunto nel 1896 dallo stesso Antonio Curzi, evidentemente in relazione alla cospicua donazione del 1892, di pochi anni prima. Il modello originale del busto – ha scritto Elena di Majo nella scheda dell’opera – in terracotta, si conserva all’Accademia di Belle Arti di Napoli, mentre le altre due versioni in bronzo sono nella stessa Accademia e nel Museo San Martino di Napoli ( “Sala Palizzi”, in cat, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Le collezioni del XIX secolo, 2006, p. 155).
Tra i dipinti di paesaggio e figura, per esempio, si veda lo splendido Paesaggio dopo la pioggia, uno stagno d’acqua torbida (Cava), 1864 [fig. 10] che è di tutta evidenza Cava de’ Tirreni, nella vallata circondata dalle montagne ad est dei monti Picentini e ad ovest dei monti Lattari; qui spiccano i colori verdeggianti della natura e i tenui grigio-azzurri del cielo che si riflette con leggere ombre nello stagno, attorno al quale si fronteggiano assorte due figurine di ragazze contadinelle: un incanto tra natura e figura. Viceversa un moto di curiosità rappresenta Filomena contadina che contempla in vetta a un ciglione, 1864 [fig. 11], qualcosa che noi non vediamo, così come in altra sequenza Filomena contadina che spia dietro un muro,1864 [fig. 12];
due capolavori di verismo anche psicologico: nel primo caso la ragazza è pensante, con la piccola mano sinistra che sfiora la sua guancia, mentre la mano destra tira leggermente su la gonnella per evitare l’impiglio nella vegetazione; nell’altra versione, invece, la ragazza sta fissando con attenzione un punto al di là del muro: dritta, tesa con le mani incrociate dietro la schiena e il piede destro che flette la gamba per il leggero sollevamento del corpo suscitato dalla curiosità. Palizzi la raffigura stretta tra il rustico muro sbrecciato e il rigoglioso cespuglio, esaltati dalla luce che fa emergere ogni minimo dettaglio della scena e delle pieghe della sottana e della camicetta della ragazza nei tenui colori del bianco e del giallo appena smorzato. Due dipinti che è impossibile dimenticare, anche per i non addetti ai lavori. Questa capacità dell’artista di cogliere l’attimo, come in uno scatto fotografico, è ravvisabile pure (visibili nelle sale 3 e 4) in Contadina con fascio d’erba all’ingresso d’una porta dipinta a Cava dei Tirreni presso Salerno,1854 [fig. 13], un potente contrasto tra la luce esterna e l’oscurità dell’interno “affumicato”, come diceva il Morelli;
o in quel Viottolo tra due muri, figura di prete in fondo (Cava),1859 [fig.14], e in Una discesa fra i pioppi, figurina con cesta sulle spalle in fondo (Cava),1854 [fig. 15], entrambi nel sapiente contrasto tra luce e ombra (i titoli delle opere sono puntualmente quelli indicati nell’elenco del Palizzi). In Tronchi di querce, Cava,1854 [fig. 16], viceversa, vediamo una veduta boscosa, che denota la sua conoscenza della scuola di pittura francese di paesaggio detta di Barbizon, alla quale aveva aderito il fratello Giuseppe, trasferitosi a Parigi nel 1844 (presso il quale anche Filippo si recherà diverse volte in anni successivi). Nei precedenti allestimenti della Galleria Nazionale, nell’ex Sala Palizzi, molti ricorderanno la grande tela di Giuseppe Palizzi (1812-1888), Bosco di Fontainbleau,1874, cm.232 x 320 [fig. 17], immensa e grandiosa foresta priva di figure; in Tronchi di querce, invece Filippo vivifica umanamente la scena con la contadinella che si sporge timida, forse per essere stata sorpresa, da dietro di uno dei tronchi. E gli esempi di questo coniugare figura e natura li vediamo anche negli altri dipinti lì esposti.
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Nelle altre due sale, attraversato il ballatoio, troviamo i veri e proprio studi di costumi regionali (contadini in varie fogge), e studi militari del tempo, verosimilmente della battaglia di Custoza (il riferimento a Fattori non è casuale), e soprattutto di animali:
si veda ad esempio la serie di cani da caccia (una sequenza di tipo fotografico) [fig. 18], da pastore, e i due levrieri di razza inglese [fig. 19], così puntualmente analitici; e qui ci sovvengono le parole del suo conterraneo Gabriele D’Annunzio:
“Palizzi è, soprattutto, un analista, un investigatore. Egli analizza le piante e gli animali, con precisione che non distrugge l’amore, cercando nella loro condizione d’esistenza le ragioni della loro struttura. […] Filippo Palizzi è un colorista. Il suo occhio vede e analizza esattamente il colore. La gradazione e l’alternativa delle macchie scure e chiare che si muovono lungo la ondulante muscolatura del corpo […] la vibrazione incessante dell’aria interposta che mille apparenze fuggitive ed atomi impercettibili rendono infinitamente mutevole, l’aspetto delle cose raggiate dal sole…”
(Cfr., G. D’Annunzio, Filippo Palizzi e la pittura moderna, 1892, pp. 8-9-10).
Si vedano al riguardo Vacca e vitello che pascolano, seguiti da due bambini e un cane (Cava),1861 [fig. 20], o Due vitelli bianchi, interno (Cava),1859 [fig. 21], dipinto fra i più noti del Palizzi; anche qui emerge il forte contrasto dell’interno scuro della stalla e il biancore dei due animali in posizione divergente (a mio avviso, una naturale assimilazione caravaggesca).
Nell’ultima sala che conclude l’itinerario della Stefani, è da notare l’importante Uno studio per il quadro. Dopo il diluvio, del 1861 [fig. 22], di dimensioni più ridotte rispetto a quello di grande formato nel Museo di Capodimonte, di cui si è detto all’inizio della presente nota; ed è particolarmente interessante, poiché non vi figurano tutti quegli animali presenti nella tela definitiva a Napoli. Ecco come Palizzi descrive la complessità di questo lavoro in una lettera ai suoi fratelli:
“…ho immaginato che l’effetto della distruzione si vedesse da vicino così ho messo due rocce nel mezzo del quadro come parti accidentali del monte Ararat che fu il primo ad uscire dall’abbassamento delle acque; […]. L’abbassamento delle acque produce sulla vegetazione una colorazione degenerata fatta di melma e di marciume […]. A sinistra ho messo una valle (deve essere quindi proprio la valle di Cava de’ Tirreni, n.d.A.), che coi monti (i Picentini o i Lattari, n.d.A.) si perde nella caligine. Nel cielo ho immaginato piuttosto grandi massi di nebbia che nuvole sebbene vi è una grande massa che prende il quadro dall’una a all’altra estremità che si può dire nuvola là sopra sfiora l’arcobaleno vicino a sparire per assicurare che il fatto dell’alleanza è fatto”.
(in “Dopo il diluvio”un’opera importante del Museo di Capodimonte, di Luisa Martorelli, in cat. Palizzi del Vasto, a cura di Giovanna di Matteo e Cosimo Savastano, Teramo 1999, pp. 28-29).
Così si presenta questo primo studio presente in mostra. Costruita in tal modo la grandiosa scena, Palizzi esegue a parte gli studi di animali, molti eseguiti nella medesima data, il 1861, (l’anno in cui è stato anche Parigi, dove ha potuto eseguire studi di animali esotici dal vero nell’antico Jardin des Plantes), altri li desume da precedenti lavori, e dimostrano con quale acribia studiava la fauna che avrebbe affollato il suo definitivo Dopo il diluvio, con orsi, cervi, pantera, leone, giraffa e molti altri ancora, quali esempi qui esposti in singoli dipinti [fig. 23].
E’ ancora degno di nota Uno stagno d’acqua e uno stuolo di rondini, 1857 [fig. 24], un anticipo di quegli stormi di uccelli che vediamo librarsi in cielo nel celebre dipinto. Segnalo altresì Tre alcioni in volo (fig. 25), del 1885, delicatissima mattonella in ceramica, quale testimonianza dell’ultima attività dell’artista, ancora interessato alla sperimentazione di altri materiali e tecniche, che lo impegnerà fino alla fine dei suoi giorni. In quest’ultima sala è esposto anche il noto Ettore Fieramosca, 1856 [fig. 26],
dall’episodio drammatico dal romanzo di Massimo d’Azeglio del 1833, un unicum nella produzione palizziana di un’opera da scena di “romanticismo storico”, e, come tale, unanimamente considerato dalla critica, evidente omaggio all’amico-avversario (in arte) Domenico Morelli che lo ha sempre stimato, e incluso nei suoi scritti sulla pittura moderna napoletana, più sopra citati.
La mostra si chiude con l’affascinante dipinto astrale, Luna mancante avanti l’alba, del 1871 [fig. 27], opera di un lirismo assoluto nella quale il nostro satellite appare e scompare nel cielo ancora tutto stellato, che a me ha ricordato quello dipinto nella Fuga in Egitto, 1609, di Adam Elsheimer, il primo artista a dipingere nel XVII secolo la luna, le stelle e l’Orsa Maggiore.
Non poteva concludersi meglio L’universo incontaminato di Filippo Palizzi nel Bicentenario della sua nascita.
Mario URSINO Roma Gennaio 2018