P d L
“Spettava di diritto a Maria Cristina Chiusa che lo studia da anni il compito di dedicare la meritata e da tempo attesa mostra monografica al Bertoja, o Jacopo Zanguidi, se si preferisce chiamarlo col suo vero nome”.
Con queste parole Pierre Rosenberg tributa il dovuto omaggio alla studiosa che questo importante evento davvero con pochi precedenti, ha fortemente voluto, preparato, organizzato e finalmente realizzato, grazie anche alla volontà, alla determinazione ed alla preziosa collaborazione e malleveria di un appassionato amante delle belle arti come Franco Maria Ricci, connoisseur, collezionista, ma soprattutto studioso sempre aggiornato: una personalità di primo piano nel campo della editoria d’arte e non solo, al quale tutta la cultura italiana deve molto.
Stiamo parlando della grande esposizione che si è aperta ad aprile ed andrà avanti fino al 28 luglio dedicata, come recita il titolo a “La Maniera emiliana. Bertoja, Mirola da Parma alle corti d’Europa”, che segna in effetti il punto d’approdo degli studi e delle ricerche che M. Cristina Chiusa ha portato avanti per molto tempo con risultati di gran rilievo che non potevano che essere ospitati in uno dei luoghi d’arte tra i più prestigiosi d’Italia, il Labirinto di Franco Maria Ricci, nei pressi di Fontanellato. Si tratta di risultati che consentono di fare finalmente un passo avanti determinante, se non ancora dirimente, circa la conoscenza delle personalità e delle opere di due pittori, Girolamo Mirola e Jacopo Zanguidi, ossia Bertoja, i percorsi artistici dei quali hanno costituito sovente un rebus date le forti difficoltà a separarne le rispettive responsabilità operative. E dunque tra i meriti della mostra di oggi c’è quello di porci di fronte al fatto che se è vero che i due artisti spesso collaborarono strettamente, tuttavia il loro fare pittorico può essere più chiaramente leggibile e distinguibile, ciò grazie alle ricerche che, come dicevamo, hanno preceduto questo evento, indirizzandolo verso un sicuro approdo scientifico e filologico.
Vero è d’altra parte che per quanto concerne la figura di Jacopo Zanguidi un primo importante testo era stato proposto molti anni fa, nel ’63, in un volume monografico firmato da Augusta Ghidiglia Quintavalle, che la Chiusa opportunamente in varie circostanze richiama, ed alla quale viene giustamente riconosciuto il merito di aver per prima sostenuto e validato il ruolo di questo artista e l’importanza che ebbero per la sua carriera i grandi predecessori che resero imprescindibile il richiamo alla cultura artistica parmense del Cinquecento nella storia dell’arte internazionale. Su questa scia poi altri studiosi di prima grandezza, a cominciare da Pierre Rosemberg passando per Diane De Grazia, Dominique Cordellier, David Exerdjian, Artur Popham ed altri ancora hanno messo i due artisti, Bertoja e Mirola, certamente comprimari ma niente affatto mediocri, al centro delle loro ricerche; di tutto ciò l’esposizione in atto, concentrata particolarmente sulla grafica, è da considerare un decisivo esito.
Sono in visione 69 opere, con prestiti prestigiosi (i disegni provengono da Parigi -Louvre, Ecoles des Beaux Arts-, da Londra -Windsor Castle-, da Vienna- Albertina-, da Edimburgo, da Monaco, da Lille, da Orleans, dal Museo di Bayonne, oltre che da varie importanti sedi italiane) che ci consentono di poter ragionevolmente puntualizzare molti aspetti problematici che riguardano il percorso dei due artisti emiliani, arricchendone i rispettivi cataloghi con nuove ascrizioni, con rivalutazioni e con differenti proposte.
Ed in questo senso, uno dei dubbi che ora possiamo dare per definitivamente risolto, concerne l’ importante dipinto che apre, non certo casualmente crediamo, il catalogo, cioè Il Ratto delle Sabine, (Fig 1)
oggi nei Musei Civici di Arte Antica di Bologna, ascritto al Mirola già dalla Quintavalle, poi a Bertoja/Mirola, poi a Bertoja, ed ora ritornato al bolognese, davvero un esempio forse tra i più eclatanti (ma non certo l’unico) dell’incertezza che ha gravato nell’attribuzione di certi lavori ad una delle due mani. La scheda che analizza il quadro che appare in apertura della mostra assume un rilevo assai importante -ed anche qui c’è da credere che non casualmente sia stata redatta dalla stessa curatrice- perché a nostro parere suggerisce una sorta di filo conduttore con cui leggere l’intero percorso espositivo, delineando quella che possiamo definire una vera lezione di metodo nell’approccio al tema da sempre spinoso del rapporto tra due pittori le cui vicende appaiono in continua giustapposizione. Commentando infatti il dipinto bolognese, la Chiusa scrive che ci “immette nel vivo della questione ancora aperta sulla distinzione di mano tra i due artisti” allorquando la città emiliana si arricchiva “degli echi figurativi provenienti da Fontainbleu, da Bologna, Roma e dalle Fiandre”, costituenti il nocciolo della “nuova cultura” ormai sedimentata nella corte farnesiana e “rappresentativa della nuova scuola di Parma a partire dal settimo decennio del Cinquecento”. Secondo la studiosa molti aspetti iconografici presenti nella tela bolognese, e in particolare “i caratteri di una scena concitata” oltre che “le figure dinamiche dalle pose inclinate”, richiamano dappresso “le sembianze e l’atteggiarsi dei protagonisti a noi noti dell’universo di Mirola”, influenzato, con tutta probabilità, da disegni del suo più giovane sodale Bertoja, “fecondissimo disegnatore, le cui prove grafiche si dichiarano spesso fonte d’ispirazione per il più anziano collega”.
E questo sembra essere avvenuto proprio nel caso sub judice, se si guarda il disegno con la Strage degli Innocenti della National Gallery di Washington e riferito a Bertoja, da cui effettivamente, scrive l’autrice, si deve credere che “Mirola abbia tratto ispirazione cogliendone un primo pensiero per l’opera finita”. Elemento dirimente che si aggiunge a queste considerazioni del resto è un disegno inedito di Mirola, presentato da David Exerdjian, nel suo saggio in catalogo intitolato Jacopo Bertoja, dal disegno all’opera compiuta, che pubblica un foglio del bolognese “preparatorio per il nostro dipinto”.
Dunque Mirola. Dell’artista, bolognese di nascita ma naturalizzato parmense, si occupò anche Giorgio Vasari, secondo il quale fu molto attivo appunto a Parma e a Roma; è noto che fu lui il primo frescante del Palazzo del Giardino e delle varie residenze dei Farnese, al servizio dei quali risulta dal 1556 fino al ’70 (i pagamenti emersi dall’Archivio di Stato di Parma sono stati resi noti da tempo); al contrario, dei suoi viaggi nella capitale papalina in verità poco rimane, anche se assume un certo rilievo un soggiorno, documentato nel 1563, che ci pare poter essere un punto di riferimento importante per gli sviluppi della sua maniera, se è vero come scrive la Chiusa, che i tratti distintivi dell’artista riscontrabili nel Ratto delle Sabine, per “alcuni dettagli” richiamino “gli affreschi di Salviati a Roma presso Palazzo Ricci Sacchetti” che il Mirola “aveva probabilmente veduto durante la sua permanenza a Roma nl 1563”. Di conseguenza anche il grande dipinto (cm 264 x 360), che raffigura l’Intervento delle Sabine nella lotta tra Romani e Sabini, (fig 2)
certamente il seguito del quadrone bolognese, attualmente nel Museo di Capodimonte, e che compare nell’Inventario del Guardaroba di Ranuccio Farnese a Parma nel 1587 –che si deve ritenere, a nostro parere, l’opera in cui abbia raggiunto il suo apice- certo non può essere creduto estraneo, sia per stile che per soggetto, al soggiorno romano. Peraltro non è inutile far caso –se ci è consentita una digressione- a quanto comparso in una recente pubblicazione edita in Spagna, secondo la quale Pablo Picasso (che sappiamo presente a Napoli nel 1917 insieme all’amico Jean Cocteau, in un soggiorno durato diverse settimane e che ebbe un ruolo determinante nell’evoluzione della sua arte) avrebbe dipinto Guernica – uno dei capolavori tra i più conosciuti dell’arte di tutti i tempi – proprio sotto la suggestione del grande dipinto del Mirola che, c’è da ritenere, poteva suggerire tanto elementi di carattere iconografico che temi meramente politici (vedi ¿Se inspiró el Guernica en una pintura de guerra del siglo XVI? In https://asociacionhesperidesandalucia.es/2017/02/19/se-inspiro-el-guernica-en-una-pintura-de-guerra-del-siglo-xvi/ -Historia de l arte, 19 febbraio 2017).
Ma per ritornare a quanto scrive la Chiusa che individua una comune base culturale dei due artisti, sedimentata come si è visto, nella corte parmense, ma che si biforca, se si può dire, da un lato nei tratti di Mirola con “figure solide e dilatate”, con “un agitarsi di figure contrapposte”, dai “caratteristici volti allungati”, e dai “profili appuntiti”, e dall’altro nella lezione dello Zanguidi “intonata ad un ritmo compositivo dinamico e incalzante”, dai “tratti rapidi e spezzati”, possiamo desumere che fu il lavoro grafico dello Zanguidi, riconosciuto come “abilissimo disegnatore”, ad ispirare l’altro. E se è pur vero che questa fosse una “prassi diffusa fra gli artisti”, nel caso di specie è addirittura possibile fare un passo avanti e ritenere che il Mirola possa essere stato perfino suggestionato dai fogli dell’amico, al punto di assumerne il linguaggio, come se si fosse in qualche modo reso consapevole della primazia –diciamo così- del suo sodale e dunque ad essa acconciasse la sua produzione.
Una spiegazione, questa, forse troppo facile per sciogliere l’atavico dilemma della somiglianza dei due stili?
Forse; ovviamente siamo nel campo delle possibilità, ma va detto che il rilievo non deve suonare a demerito del bolognese, perché anzi starebbe a dimostrare –per quanto riguarda il nostro discorso- come non fosse affatto uno sprovveduto, dimostrandosi capace di integrare di continuo il suo cursus artistico e dunque di meritare una considerazione non così sottodimensionata com’è stato almeno fino ad oggi
E’ un fatto del resto che il catalogo dei disegni dell’artista bolognese risulti tuttora “estremamente esiguo e sfuggente”, come evidenzia Maria Giovanna Donà nella bella scheda dedicata all’ “Angelo nudo in volo” (fig 4)
davvero “uno dei punti saldi del catalogo grafico” di Mirola, e che sembra intonarsi perfettamente a quella che si può definire la sua prima maniera, in cui “declina il linguaggio neo michelangiolesco di area bolognese secondo un’ispirazione parmigianinesca”, nel momento in cui era impiegato ad affrescare assieme a Pellegrino Tibaldi una vela laterale della terza cappella della Chiesa bolognese di santa Maria de’ Servi, sopra il monumento funebre a Ludovico Gozzadini. Allo stesso modo si esprime Laura Da Rin Bettina che scheda un disegno con sul recto una “Figura femminile sdraiata” e sul verso uno “schizzo della facciata di un edificio” che la studiosa inserisce senz’altro nel “contesto artistico bolognese della metà del secolo” chiarendo come “le membra allungate ma muscolose e la posa stessa rimandano al michelangiolismo di Pellegrino Tebaldi”. “Monumentalità ed imponenza delle figure” richiamate anche da Elisa Rizzardi nella scheda relativa ad un disegno di rara efficacia che mostra “Tre figure femminili panneggiate; figura maschile barbuta maschile a mezzo busto” (fig 5)
giustamente viste come “caratteristiche costanti dei suoi disegni”, anche se la studiosa non può non notare come “altri elementi sembrano ricondurre al percorso bertojesco”, in particolare “le movenze dalle pose sinuose, il modulo allungato sono intonate alle cadenze danzabili che riconducono al fare di Bertoja”. E’ una considerazione che non può essere trascurata.
E’ come se l’ombra del più giovane dei due artisti si proiettasse di continuo su quei lavori in cui la resa grafica arriva a toccare quote maggiormente significative in fatto di qualità e di valore, e dove il discorso sembra richiamare una più sicura felicità creatività e realizzativa. E’ un discorso del resto che nasce dalla logica, se consideriamo che nel saggio dedicato al “casino grande” (cfr Mirola e Bertoja per il “casino grande” di Ottavio farnese a Parma) presentando “un brano inedito scoperto recentemente” (fig 6) posto “nel terzo vano ritrovato” che fa parte della decorazione della dimora e raffigurante i resti di un tempietto, la Chiusa ne evidenzi il valore euristico ritenendolo un “momento di passaggio” dalle decorazioni in cui comparivano i “pinakes idillico-sacrali” a quelle con “vedute di paesaggi che, superate le cornici e all’interno dei sistemi a grottesche, divenivano parte costitutiva della catena ornamentale”.
Chi ne fu il promotore?
Tornano alla mente i sia pur lontani giudizi ancora della Quintavalle, allorquando – nella monografia dedicata a Michelangelo Anselmi– così scriveva :
”Il pittore che ha più derivato in profondità da lui (Anselmi, ndA) è il Bertoja che … poté più a lungo meditare sulle sue figure longilinee e sull’armonia dei profondi paesaggi”(Cfr. Quintavalle, p 61).
Una sorta di ‘parentela’ che la studiosa ribadiva a proposito del Sogno di Giuseppe di Palazzo Lalatta (oggi Collegio Maria Luigia, ndA) riferendosi agli “allungati angeli dell’Anselmi cui tanto si è ispirato il Bertoja” (pag 59), al punto che non a caso furono creduti dello stesso Bertoja da Giuseppe Bertoluzzi nella sua Nuovissima guida di Parma (1830, p. 190).
Ma com’è del resto inevitabile per le discipline storiche, il progresso degli studi conduce oggi a fornire una lettura, proprio a questo riguardo, in qualche misura più adeguata, quanto meno per quel che concerne i lavori grafici di Bertoja per Palazzo Lalatta.
Maria Giovanna Donà infatti vi accosta per consonanza di stile il disegno di una Presentazione al Tempio (fig 7) oggi al Louvre, ascritto, dopo vari iter attributivi, al Bertoja, sia pure interrogativamente, in cui, più che Anselmi, la studiosa nella “manieristica simmetria” riconosce “il debito nei confronti dell’arte di Parmigianino”, giudizio su cui non si può non concordare se consideriamo come il tratto e il chiaroscuro dato a contrasto riecheggino da vicino la maniera del grande pittore. Tuttavia le figure non appaiono prive di dissonanze ed incertezze (si noti il movimento scomposto della figura che abbraccia la colonna, ad esempio) cosa che conduce l’autrice a rimarcarne “una padronanza ancora limitata del mezzo grafico (imputabile forse alla giovane età dell’artista”, soprattutto “nel ductus incerto e tremolante della penna che genera una linea franta e dagli accenti angolosi” .
Siamo in effetti a fronte di opere svolte negli anni che separano l’artista dal viaggio a Roma, allorquando, come suggerisce M. Cristina Chiusa, nella scheda in cui analizza i cinque frammenti d’affresco facenti parte del ciclo decorativo staccato del Palazzo del Giardino, “il colore sembra dissolvere le forme, differentemente dalle prove più mature”, e che dunque ci rimanda ad “una datazione precoce, scalabile attorno al 1566, nel tempo giovanile di Bertoja a Parma”.
La scheda di Giulia Brusori che analizza un disegno di Girolamo Mirola con Figure che si abbracciano proveniente da Parigi e dove l’artista “studia da vicino il moto degli affetti di alcune coppie intente a scambiarsi effusioni”, ci conferma che si dovrebbe retrodatare “l’esordio di Bertoja nel Giardino al 1566-‘68”, appunto al tempo giovanile di Bertoja a Parma, secondo l’osservazione precedente della Chiusa. Ma la giovane studiosa nota anche che lo stile di Mirola con le sue “fisionomie possenti atteggiate in pose contrapposte” in verità “guarda soprattutto a Bologna e a Roma”, confermando in questo caso quanto in particolare mette in risalto il saggio di Sonia Cavicchioli intitolato proprio Bologna 1530 -1570. “Una grande intrecciatura” di artisti e maniere, essenziale per comprendere come in questi decenni centrali “che coincidono con le vicende biografiche di Girolamo Mirola e Jacopo Bertoja “ la cultura artistica che si genera nella città felsinea sia il portato della “intrecciatura” per l’appunto di idee e persone di varia provenienza, frutto di quella “intensità dello scambio” -come la definisce la studiosa- che vede attivi personaggi come Parmigianino, in fuga dal Sacco, come Prospero Fontana, come Francesco Salviati e come Giorgio Vasari, per non dire di Pellegrino Tibaldi, che non poco inciderà sulle scelte dei due artisti parmensi.
Ritornando ora nel nostro Palazzo, se appare probabile che l’inedito affresco riemerso di cui si è detto fosse una parte di una nuova saletta, forse quella della Ruina (ipotesi che la Chiusa solleva interrogativamente per un eccesso di cautela, considerando che le argomentazioni poste appaiono a chi scrive del tutto plausibili) è certo che un lavoro di questo tipo non poteva che essere nelle corde di Jacopo Zanguidi, a cui effettivamente “sembra appartenere la parte preponderante della decorazione”, come scrive la studiosa.
D’altra parte, alla “attitudine” del Bertoja, tipica dell’ “affresco frammentario presentato in questa sede da M. C. Chiusa” (cfr fig. 6) corrisponderebbe anche la decorazione a grottesche della Madonna della Misericordia, (fig 8)
una pala giovanile eseguita nel 1564 per la Confraternita di San Quirino e –come scrive Ekserdjian– “concordemente data al Bertoja”; secondo lo studioso “gran parte della decorazione dipinta nella cornice” richiama dappresso il Parmigianino degli affreschi della Steccata.
Un richiamo, occorre aggiungere, che si dipanerà come un filo rosso nella vicenda artistica del nostro pittore, né poteva essere altrimenti. Passano infatti due anni e lo Zanguidi viene ingaggiato per affrescare sulla facciata del Palazzo del Comune di Parma la Incoronazione della Vergine. L’opera –che prese subito il nome di Incoronata di Piazza– era l’omaggio che la città dedicava alla principessa Maria di Portogallo, impalmata l’anno prima da Alessandro, il figlio di Ottavio Farnese. Il matrimonio era stato combinato direttamente a Madrid, dove il giovane viveva da alcuni anni come ospite ma in realtà come ostaggio a garanzia di un accordo tra Ottavio e il sovrano Filippo II (a cui l’erede Farnese non avrebbe in seguito fatto mancare grandi soddisfazioni militari). Dell’opera pittorica eseguita dal Bertoja oggi rimane ben poco, essendo sopravvissuto “quasi miracolosamente” solo “un frammento con la testa della Madonna e le dita di Cristo che posa la corona sul capo di lei”; resta però fruibile il disegno preparatorio che, dopo vari passaggi attributivi, la De Grazia ha ricondotto con sicurezza alla mano di Bertoja, (fig. 9)
al quale peraltro era stato dato espressamente mandato di rifarsi ad un’analoga prova grafica ancora di Parmigianino per un lavoro, mai eseguito, per San Giovanni Evangelista (a dimostrazione di come l’esempio del grande concittadino, scomparso da più di vent’anni, rimanesse evidentemente sempre all’ordine del giorno). Nella scheda in cui analizza il disegno preparatorio della Incoronata, David Ekserdjian ne sottolinea l’importanza, rimarcando “l’enorme passo avanti” compiuto rispetto allo studio della Madonna della misericordia, oggi alla Christ Church di Oxford. Si può dire che ormai effettivamente “si percepisce con chiarezza la voce autonoma dell’artista”.
Un’autonomia che può essere considerata ancor più sostanziale in quello che M.Cristina Chiusa definisce “una vera e propria gemma nel catalogo del Bertoja” vale a dire il dipinto raffigurante “Venere scopre il corpo di Adone”, (fig 10) per Pierre Rosenberg un autentico “inno al corpo femminile”, e con il quale evidentemente il percorso giovanile dell’artista può dirsi ormai completato.
Si deve ritenere dunque il ’66 un anno di grande importanza per l’evoluzione dello Zanguidi.
E’ questo d’altra parte, com’è noto, anche l’anno in cui prende il via la decorazione del Palazzo del Giardino, commissionata dal duca Ottavio Farnese inizialmente al Mirola dal momento che il bolognese era da tempo al suo servizio, il quale però come si è visto “fu accompagnato da Bertoja già nel corso degli anni sessanta”. E’ fuor di dubbio che questa grandiosa impresa sia stata concepita da Ottavio per scopi autocelebrativi e con temi “d’ispirazione moralistica” – colti con molto acume dalla Chiusa– ma c’è da chiedersi quali fossero a questo riguardo le intenzioni del committente. Certo, l’autrice non sbaglia a sottolineare l’importanza che ebbero “le scelte culturali operate a Parma dal Farnese” il quale ambiva ad un ruolo di mecenate tale da potersi “affiancare a quello principesco dei Valois a Fontainbleu, e dei Medici a palazzo Vecchio”, così che l’intera decorazione del suo Palazzo avrebbe simboleggiato “la nuova età dell’oro della quale Ottavio si era reso interprete in quel tempo così difficile”.
La critica si è misurata da tempo sul valore emblematico degli affreschi nelle varie stanze, e la Chiusa dà conto di come fossero prevalse nel tempo le idee di quanti li leggevano – ed in parte ancora li leggono- come “trascrizione delle rime d’Ariosto nella prima, con particolare riguardo a Ruggiero nel VI e VII canto del Furioso, di Boiardo nell’altra” con l’aggiunta in seguito di Bernardo Tasso. Si tratta però di letture che sia per questioni metodologiche (non regge, secondo la studiosa, “l’accostamento testuale delle storie affrescate con i versi dei poemi menzionati”) sia contenutistiche (più che i valorosi paladini, sarebbero raffigurati personaggi mitologici o della storia romana) vanno se non del tutto rigettate quanto meno sottoposte ad “ulteriori studi specialistici”.
Una cautela condivisa da Claudio Strinati il quale, nella sua Premessa, anticipa questa considerazione, prendendo le distanze dall’idea che la produzione pittorica ad affresco tanto di Bertoja quanto di Mirola fosse in massima parte connessa con lo “spirito ariostesco”; scrive infatti lo studioso che se è pur vero che “alcuni spunti di base anche per questi giovani (Mirola e Bertoja, ndA) promanassero dalla temperie ariostesca” tuttavia
“nel fatale snodo di passaggio tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta del Cinquecento l’arte dei due pittori Bertoja e Mirola non è più inerente alla magnifica metafora della tessitura che è alla base della teorizzazione ariostesca del suo stesso fare”.
Ma per cercare a questo punto di capire quale possa essere – e se possa ritenersi idonea- una impostazione esegetica in grado di fornire un’analisi credibile della trasposizione di uno scritto in immagini, non ci pare inopportuno richiamare quanto diversi anni fa Giulio Carlo Argan –riferendosi alla raffigurazione di episodi della Gerusalemme del Tasso- aveva ben colto e spiegato, ossia attraverso quali principi ispiratori si potevano riconnettere le vicende letterarie alle scelte pittoriche, affermando che esiste una dipendenza tra opera letteraria e figurazione laddove ci sia una radice, una base comune, in forza della quale può prodursi una sorta di dialogo, o per meglio dire un intreccio tra lo scritto e il dipinto.
Il tema, posto riguardo al capolavoro del Tasso (ma estendibile agli altri scritti tradotti in immagini), cioè poter “comprendere ciò che transita tra il poema e i più interessanti dipinti che lo abbiano illustrato”, come ha scritto Giovanni Careri ( cfr. G. Careri, La fabbrica degli affetti. La Gerusalemme Liberata dai Carracci a Tiepolo”, Mi, 2010, p 11) meriterebbe com’è ovvio un approfondimento ben più ampio di quanto non sia pensabile in questa sede, e tuttavia per poter quanto meno teorizzare un’assonanza se non una diretta dipendenza tra poema e raffigurazioni è necessario ”ipotizzare l’esistenza di un fondo comune sulla base del quale può prodursi in superficie il lavoro dialogico tra parola ed immagine” (p 14)
Nel nostro caso, un simile “intreccio” ovvero “un fondo comune” da cui attingere per “osservare la lingua poetica con gli occhi dell’iconologo e la pittura con quelli del teorico del linguaggio” non pare essersi determinato se non marginalmente sulla base della “tessitura” ariostesca come si è visto, ed allora occorrerà accertare quali altri stimoli siano stati determinanti nelle decisioni di Ottavio Farnese.
Si deve dire che nelle pagine di questo catalogo -firmate da Maria Grazia Bernardini, da Sonia Cavicchioli, da David Ekserdjain e Claudio Strinati, ed ovviamente da M. Cristina Chiusa, ma anche nelle esaurienti schede di varie opere, di cui autrici –come già si è visto e vedremo- sono alcune giovani studiose che evidentemente le si ricollegano, la questione –che rientra nell’ambito della “iconografia letteraria”, ovvero della “visualità della scrittura” (Careri, cit)- è stata solo in minima misura messa in evidenza, e riteniamo giustamente, soprattutto perché le analisi e gli approfondimenti proposti non corrono mai il rischio che i temi e le figure delle varie composizioni possano in qualche modo derubricare a scontata e stanca maniera quella che appare invece come la singolarità, la complessità e la stessa ambiguità semantica dell’esperienza creativa espressa nel Palazzo farnesiano.
Spetta ai lettori evidentemente entrare nel dettaglio dell’intero complesso figurativo raccordandone i significati e le tematiche dentro una logica interpretativa completa. Si può però seguire l’iter suggerito dall’autrice secondo la quale:
“E’ forse proprio il progetto unitario fissato dal duca Farnese per l’interno e l’esterno del suo palazzo, consacrato al mito e alla sua celebrazione, a consentire di dipanare l’intera matassa inerente l’assetto iconografico”.
Su questa scia, dunque, per quanto ci riguarda, individuati gli assi portanti, la direzione da cui partire concerne come la casata poté assumere un rilievo addirittura di caratura internazionale dopo le nozze tra il duca Ottavio Farnese e Margherita d’Austria, figlia naturale –riconosciuta- dell’Imperatore Carlo V, entrando nella élite degli stati europei. Si sa che superate varie traversie, culminate con la nota “guerra di Parma” -nel corso della quale il duca si mostrò abile quanto spregiudicato manovratore di alleanze, muovendosi tra Francia, Spagna e Papato-, si diede il via al trasferimento della capitale da Piacenza a Parma dove Ottavio fece costruire appositamente una splendida residenza (il Palazzo del Giardino, per l’appunto) affidando il progetto al Vignola e la decorazione a Bertoja e Mirola (ma successivamente mise mano agli affreschi delle sale anche Agostino Carracci) e facendovi intervenire Giovanni Boscoli che realizzò una grandiosa fontana davanti all’edificio.
Ma cosa vennero chiamati a dipingere i due pittori?
Quali iconografie aveva interesse a mettere in rilievo la committenza del Farnese? E ancora: quali motivazioni possono essere state determinanti nelle sue decisioni, tali da potersi considerare la ‘base comune’ –come la chiamava Argan- su cui si poté sviluppare un eventuale nesso tra scrittura ed immagini, posto che vi sia stato?
L’idea di edificare nella nuova capitale ducale un palazzo di così gran prestigio rispondeva a più scopi come vedremo e non poteva in realtà che richiamare le vicende collegate alle fatiche, alle sofferenze, alle lotte per la salvaguardia del proprio stato, del proprio potere. Non va dimenticato infatti che il ducato aveva rischiato l’amputazione di Piacenza dopo l’assassinio di Pier Luigi Farnese, organizzato da don Ferrante Gonzaga, dietro mandato dello stesso Carlo V. Non è questa naturalmente la sede per rievocare le storie collegate al conflitto tra Francia e Impero che videro Ottavio, come abbiamo detto, barcamenarsi ora da un parte ora dall’altra inimicandosi il papa (non più il Farnese Paolo III, suo nonno, ma Giulio III Ciocchi del Monte), e che infine pose la casata farnese –per tradizione amica dei francesi- a fianco della Spagna.
Il tutto va inquadrato nel periodo in cui la stessa cartina politica dell’Europa stava velocemente cambiando, quando cioè in effetti un po’ ovunque si stava assistendo al consolidarsi di un sistema di governo che mirava ad un più efficace esercizio del potere e dunque, in parallelo, al consolidamento delle autorità centrali, cui il dominio farnesiano non doveva né poteva sottrarsi, pena la sparizione. Ed è possibile spiegare anche in questo senso, vale a dire nella direzione di un più accentuato processo di centralizzazione e burocratizzazione, il trasferimento della capitale da Piacenza a Parma, posta in una posizione geografica più favorevole, punto di snodo e di convergenza di importanti traffici commerciali con l’intera penisola e dunque in grado di attrarre interessi economici e capace di maggiore operatività. Certo, la guerra e le conseguenti carestie avevano di fatto spinto una grande massa di popolazione del contado dentro le mura della città, ma le riforme di Ottavio nell’ambito della amministrazione giudiziaria e della riscossione fiscale e i suoi arditi progetti urbanistici riuscirono a generare una ripresa della domanda di beni e di servizi da parte delle classi alte, specialmente interessate alla costruzione di palazzi ma anche di chiese ed edifici sacri più complessi e con più raffinati interventi decorativi, il che in buona misura riuscì ad incrementare la richiesta di manodopera. Non si conosce il numero delle maestranze -al di là degli artisti propriamente detti- tra muratori, scalpellini, indoratori, artigiani del legno, fabbri, carpentieri e così via che vennero impiegate nella costruzione del Palazzo del Giardino, è stato invece calcolato che “la rifortificazione della città dette lavoro a circa tremila persone” cosa che effettivamente “fu il contributo più benefico per i poveri” (cfr C.F. Black, Le confraternite italiane nel Cinquecento. Filantropia, carità, volontariato nell’età della Riforma e della Controriforma, MI, 1982, pp. 211-212).
E’ chiaro che in questo contesto l’autorità ducale non poteva che uscirne rafforzata e in questo senso Ottavio si dimostrò un politico di autentico spessore. Egli capì che se l’accostamento a Madrid poteva garantire il ducato dalle non disinteressate attenzioni dei vicini (in primo luogo Roma), dall’altro lato il rafforzamento della sua autorità non poteva non passare attraverso la graduale trasformazione della immagine pubblica della sua casata e di conseguenza della sua stessa figura, dopo il disastroso periodo di dominio del padre Pier Luigi, macchiatosi com’è noto di delitti abominevoli; a questo scopo c’è da credere che lavorarono i suoi collaboratori, costruendo un profilo che combinava insieme due facce diverse di una stessa medaglia, il lato cristiano e quello profano (fig 11 – 12), cioè la figura di un buon pastore e del buon condottiero che salvaguarda i suoi domini e protegge i suoi sudditi e allo stesso tempo la figura di chi avvalora un linguaggio visivo fatto anche di temi ed immagini seducenti, quelle del suo stesso Giardino, debitamente adattato a “la nuova età dell’oro”, garantita, appunto, dalla sua stessa persona.
Se tutto ciò è vero, a nostro parere non c’è più dubbio a questo punto che proprio questi retroscena danno ragione in buona misura alle scelte realizzative del duca Ottavio, laddove la realpolitik e l’arte figurativa si dovettero mescolare generando un dettato iconografico assolutamente dirimente e su cui occorrerà tornare.
Al contrario, avere avuto spesso come punto di riferimento la potenza della Spagna non era stato per qualcun altro sufficiente a mantenere le proprie prerogative e a salvaguardare i propri interessi. Ci riferiamo alla potente famiglia dei Rossi, nobili parmigiani che ancora agli inizi del XVI secolo godevano di fama e prestigio paragonabile a quello delle più grandi casate dell’epoca, come gli stessi Farnese, come gli Este, come i Gonzaga, come i Medici. La loro decadenza divenne inevitabile dopo la salita al soglio pontificio di papa Paolo III, cioè Alessandro Farnese, vescovo di Parma fino al 1534 e poi pontefice, e soprattutto dopo il Convegno di Busseto (1543), nel corso del quale l’imperatore Carlo V aveva osteggiato le aspirazioni al dominio su Milano dei Farnese, deviandoli, per così dire, su Parma e Piacenza; tutto ciò non aveva comunque intaccato la vicinanza dei Rossi ai reali di Madrid. E in questo senso, una notazione breve ma esemplificativa merita l’accoglienza che Gian Battista Rossi –vicario generale dell’Ordine carmelitano- esponente di spicco della famiglia ebbe in questo torno di anni allorquando “essendo appresso al cinquantesimo anno della sua età”, venne chiamato da Filippo II di Spagna; “volle anco il Re –scrive lo storico ravennate Vincenzo Carrari – che vedesse l’eccellente fabbrica che faccia fare all’Escoriale, poco lungi da Madrid, per sua sepoltura e dello Imperatore Carlo Quinto suo padre”.
Questa notazione, che può apparire digressiva, ha però in sé – proprio come nel caso precedente del Palazzo del Giardino– delle connotazioni oltre che politiche anche artistiche che si giustappongono; ci suggerisce infatti un paio di riflessioni sulla reale datazione ed anche una conferma su chi sia stato autore delle Gesta Rossiane, affrescate nella Rocca di san Secondo, (fig 13)
un’impresa di grande richiamo simbolico, oltre che squisitamente artistico, alla quale però nella pur dettagliata Historia dei Rossi parmigiani di Vincenzo Carrari (oggi consultabile sul web, cfr. http://Historie dei Sig.ri Rossi dipinte nella sala di san Secondo, Manoscritto P569, Biblioteca Palatina di parma, da cui abbiamo estratto le due citazioni precedenti) curiosamente non viene concesso il rilievo necessario.
Vi compare l’affresco che –come scrive Ekserdjian– “racconta uno degli episodi militari più significativi di tutto il Duecento italiano”, cioè Ugolino Rossi vittorioso contro i ghibellini nel 1289, un tema che si raccorda appunto ai significati degli affreschi delle Gesta posti non certo a caso nella Prima sala, proprio perché chiunque, appena entrato, potesse constatare quale era stata la potenza della nobile famiglia: una sorta di rivisitazione di un passato glorioso ma destinato ormai a non più ripetersi. E tuttavia un non minore rilievo questi temi assumono anche dal punto di vista meramente artistico. Se è vero quello che sostiene ancora Ekserdjian, il quale ascrive “tutti i disegni esistenti per la sala delle Gesta Rossiane” a Bertoja “che sembra essere stato ideatore del programma” e se a ciò si aggiunge la considerazione che un preclaro esponente della nobile famiglia allora occupava –come si è detto- la massima carica dell’Ordine Carmelitano, si può pensare che l’affresco con Ugolino Rossi vittorioso contro i ghibellini nel 1289, risalga ad un periodo appena successivo alla pala della Madonna della Misericordia, eseguita come si è visto nel 1564, considerato che la confraternita committente “aveva la sua sede nell’Oratorio di San Quirino, dell’ordine carmelitano a Parma” il che chiarisce -nota ancora Ekserdjian– “la presenza dei due santi carmelitani a destra e a sinistra della Vergine”. Insomma, tutto lascia ritenere che proprio Gian Battista Rossi, dopo la prova fornita dallo Zanguidi con la pala della Madonna della Misericordia, possa averlo voluto come artefice nella Rocca di san Secondo i cui affreschi – dove pure è probabile che “altri artisti l’abbiano aiutato nella esecuzione”- non possono dunque che configurarsi a ridosso dell’inizio dei lavori al Palazzo del Giardino, probabilmente tra il 1565 e il 1566.
Se poi accettiamo che scopo di Ottavio fosse di voler esibire una dimostrazione di forza o quanto meno di tenuta specie a fronte dell’inimicizia di un vicino confinante come lo stato della chiesa divenuto pericoloso e rivendicativo con Giulio III, allora il senso si potrebbe completare.
Maria Grazia Bernardini, nel saggio dedicato al Bertoja ‘romano’ (cfr. Bertoja a Roma. L’ambiente culturale e artistico intorno al Gran Cardinale Alessandro Farnese) mette bene in evidenza questo aspetto, sottolineando quali fossero stati gli intendimenti che avevano indirizzato le decorazioni delle committenze farnesiane a Roma sempre intese a “celebrare i fasti della casata” a cominciare dal Palazzo di famiglia più importante e più conosciuto, il Palazzo Farnese in Campo de’ Fiori, che non certo a caso oltre “allo sfarzo e alla magnificenza delle decorazioni” doveva trasmettere “l’impressione di potenza ed autorità” nella stretta logica di glorificare le doti ed “esaltare gli episodi della vita dei personaggi della famiglia Farnese”. Una celebrazione dei “fasti della casata”, nota ancora la studiosa, che era iniziata già anni prima a Castel Sant’Angelo quando Paolo III aveva scelto per la Sala Paolina temi religiosi insieme a temi di storia antica (le gesta di Alessandro Magno):
”Dovremo aspettare i primi anni del Seicento –commenta ancora la studiosa– perché un altro Farnese dedicasse un proprio ambiente, il camerino degli Eremiti, a temi adatti ad una meditazione devota e personale”. Si deve dire dunque che Ottavio continuò e sottolineò quelle che erano le tradizioni di famiglia.
Ma se ritorniamo alle immagini del “casino grande”, un importante elemento valutativo può essere estrapolato dalla descrizione degli affreschi nelle “salette nascoste” che M.Cristina Chiusa presenta come “il cuore della fabbrica primigenia del palazzo di Ottavio, avviata nel 1561 dal Vignola”, e perciò stesso fattore determinante, oggi, di ogni ulteriore elemento analitico.
Qui, se è vero che le trasformazione intervenute nel corso dei secoli, sino a quelle operate dal Petitot nel ‘700, hanno comportato la ”perdita irreversibile” di alcuni cicli, tuttavia non hanno compromesso del tutto la lettura quanto meno di ciò che venne realizzato a suo tempo nella saletta “a sud, dedicata a Perseo” che appare “meglio conservata”. (fig 14) Ed in effetti riguardo a questo ambiente “grazie alla recente indagine fotometrica” è stato possibile “sciogliere le incertezze iconografiche … e confermare il resoconto pittorico delle storie di Perseo”, o meglio “un compendio dei brani ritenuti più significativi dalla committenza: i tratti iconografici di Pegaso, quelli iterati di Perseo, la figura di Medusa …” e così via. Anche in questo caso lasciamo al lettore scorrere la puntuale descrizione fatta dall’autrice di quanto rimane di un ciclo pittorico databile “fra l’inizio del 1570 e il 1571” e dove si riflettono “gli accenti romani di Federico Zuccari ma soprattutto il classicismo mutuato da Raffaello e dai testi antichi”, senza dire dei “frequenti richiami ai quattro stili della pittura pompeiana”.
Quello che a noi interessa rimarcare nella logica del discorso che abbiamo fin qui affrontato è il ruolo sostenuto dall’eroe mitologico nella vicenda iconografica che si snoda in una delle due “salette rettangolari” (questa è a sud come si diceva, l’altra, quella dei Paesaggi, è a nord) e che ci sembra il corollario decisivo del nostro ragionamento. Occorre innanzitutto partire dall’idea che la scelta tematica non sia affatto casuale ed accettare che il personaggio del mito interpreti in senso morale i valori da riaffermare nel tempo, fino a al punto di consentire il raggiungimento di una dimensione eterna.
Perseo insomma appare come il simbolo stesso del giusto, è colui che sopprime Medusa, la quale non ha né può avere alcuna dimensione eterna, essendo simbolo inequivoco di trasformazione e caducità, destinata perciò in quanto tale a finire, a morire. Essa è l’elemento negativo fatto di mera apparenza, che rimarca a contrariis quanto sia importante solo ciò che è reale, che non muta.
Si tratta con tutta evidenza di un evento artistico che sottintende un messaggio ‘politico’: Perseo / Ottavio suggerisce come il cammino verso la dignità e la rinascita debba essere guidato da un condottiero nobile, giusto e riconosciuto, come appunto aspira ad essere lo stesso duca, mentre la morte attende chi lo ostacoli. Il ciclo di affreschi, dunque, appare funzionale alla esaltazione della storia e del valore della casata Farnese nella persona del duca Ottavio.
Resterebbe da capire da quale fonte può essere scaturito il programma iconografico. Chi può averlo suggerito alla committenza. Quale tessitura di idee ha potuto transitare nei dipinti che infine illustrano il Palazzo. Insomma, quali scaturigini possono avere le raffigurazioni. Si sa ad esempio che ancora nel XVI secolo il repertorio disponibile era costituito da Ovidio, dai sarcofagi ellenistici e romani, dalle raccolte di gemme e monete e dalle antichità in situ a Roma (la Colonna Traiana, la Domus Aurea, i vari Archi trionfali e così via); dunque una risposta può trovarsi in un abbecedario di fonti –se così possiamo dire- da cui gli artisti avrebbero potuto trarre ispirazione. Si tratta di una risposta generica ovviamente ed in effetti è questo il punto che –tra le molte importanti acquisizioni e novità che la mostra di Fontanellato fornisce agli studiosi- richiede un ulteriore approfondimento e siamo certi che su questo si misureranno ancora quanti oggi hanno dato vita ad un lavoro assolutamente degno della massima considerazione.
P d L Roma giugno 2019