di Francesca SARACENO
Flaminio e Francesco Allegrini, due note secentesche nel cuore dell’Umbria medievale.
Mi è capitato spesso di leggere studi i cui contributi allargano le conoscenze storiografiche su artisti di grande fama. Il che, naturalmente, è sempre e comunque “cosa buona e giusta”. Ma quando l’apporto informativo – importante e sostanziale – viene dato su artisti che solitamente non godono di vaste platee di estimatori, né – ahimè – dell’attenzione della critica, che pure ampiamente meriterebbero, per qualità e quantità dei loro lavori, allora il plauso a chi ha speso impegno, energie ed entusiasmo per riconoscere loro il degno tributo, diventa doveroso.
È il caso di un saggio dal titolo “Flaminio e Francesco Allegrini. Novità documentarie e aggiunte al corpus delle opere” (GESP 2007) che Manuela Nocella, storica dell’arte e ricercatrice romana, con al suo attivo diversi studi che spaziano dal Barocco al Neoclassicismo, ha prodotto sui due artisti, attivi per gran parte del Seicento tra Roma e Gubbio, dei quali poco si conosceva e in maniera perfino errata. Opera determinante, eppure trascurata nelle bibliografie delle pubblicazioni successive sull’argomento, riguardo al quale, tuttavia, essa rimane il contributo più completo e incisivo.
Il saggio della studiosa nasce dall’esigenza, maturata durante il lavoro di ricerca per la sua tesi di laurea nel 2005, di mettere ordine e restituire correttezza alla documentazione nota sui due artisti formatisi nella prolifica bottega del Cavalier Giuseppe Cesari d’Arpino, per l’appunto Flaminio e Francesco Allegrini, rispettivamente padre e figlio, le cui vicende familiari e professionali sono state per lungo tempo ancorate a una lettura errata dei loro dati anagrafici da parte di alcuni biografi e, in seguito, di gran parte della critica. Questo ha compromesso – inevitabilmente – anche l’esatta attribuzione e cronologia dei relativi corpus di opere.
Un lavoro imponente, dunque, condotto in maniera analitica, capillare e certosina dalla ricercatrice romana, il cui encomiabile impegno è stato premiato dal ritrovamento di alcuni importanti documenti, tra cui i testamenti e gli atti di morte dei due artisti, attraverso i quali si è potuto finalmente stabilire l’esatta discendenza, i loro rapporti di parentela e – quindi – la corretta assegnazione e cronologia delle opere prodotte da ciascuno.
Nel tempo, infatti, le complicate vicende biografiche dei due Allegrini hanno subito numerose ricostruzioni, che hanno visto il confondersi di vicende personali e professionali, a partire da quanto riportato da Pellegrino Orlandi (1704) nella biografia di Francesco, fino a formulare ipotesi prive di fondamento sull’esistenza – ad esempio – di due suoi presunti figli, Flaminio detto junior e Angelica, mai esistiti.
Grazie agli studi della ricercatrice e ai documenti da lei rinvenuti, i due si sono confermati nei ruoli, rispettivamente, del padre e di una delle tre sorelle. Ruoli che Filippo Baldinucci (1728), nella sua Vita di Francesco Allegrini, aveva riportato, invece, correttamente, sebbene senza il supporto documentale – determinante – del testamento di Flaminio Allegrini (10 ottobre 1653), rinvenuto dalla Nocella presso l’Archivio di Stato di Roma, dove vengono menzionati i nomi dei figli; nonché l’atto di morte di Francesco Allegrini (21 luglio 1684, ASVR, Parrocchia di santa Dorotea), e quello di Anna Angelica (ASVR, Parrocchia di Santa Dorotea), ultima dei figli di Flaminio e dunque sorella di Francesco, che già il Baldinucci accreditava a Roma come miniaturista; arte che aveva appreso presso Maddalena Corvini e Plautilla Bricci.
Ritrovamenti, questi, che hanno permesso di dipanare definitivamente una matassa piuttosto complicata.
L’importanza del lavoro di ricerca della studiosa romana ha, in più, il pregio di aver permesso una catalogazione ordinata e corretta della produzione artistica dei due pittori, spesso confusa nelle attribuzioni ora al padre, ora al figlio, proprio a causa dell’errore primario sui dati anagrafici e sul rapporto di parentela tra i due. Fino a puntualizzare che l’ultima fatica di Francesco Allegrini potrebbe non essere la Madonna del Carmelo di Frontone (PU) del 1674, ma il San Girolamo fra Sant’Antonio Abate e un santo Papa, posto nel 1681 sull’altare della Chiesa Collegiata di Cantiano; opera quest’ultima, fino a ora erroneamente attribuita al mai esistito Flaminio junior.
Aver stabilito l’esatta data di nascita e di morte sia di Flaminio che di Francesco, ha permesso, quindi, di rivedere la cronologia delle loro opere, assegnate correttamente a ciascun artista, e di poterle riportare opportunamente – al netto delle opere espunte e di quelle controverse o non datate – nei precisi regesti a corredo del volume, insieme alle trascrizioni fedeli dei documenti rinvenuti, tutti inediti.
Peraltro, se è vero che un errore biografico di fondo aveva generato la confusione – parentale e attributiva – per i due artisti, è vero pure che l’aderenza stilistica evidente in entrambe le produzioni pittoriche (romane ed eugubine) al dettato arpinesco, ha contribuito non poco al pastiche che si è protratto fino ai nostri giorni.
Come già accennato, infatti, Flaminio Allegrini fu allievo e seguace entusiasta di Giuseppe Cesari, nella cui bottega romana si era formato (a partire dal 1601) e alla cui impronta stilistica era rimasto fedele per tutto il corso della sua attività. Uno stile ripreso e assimilato in larga parte anche dal figlio Francesco, il quale venne indirizzato anch’egli, fin dagli albori della sua vocazione artistica, alla bottega dell’arpinate.
La studiosa ricostruisce dettagliatamente, sulla scorta delle fonti bibliografiche più accreditate, l’attività artistica di Flaminio Allegrini che si produce – a più riprese – tra Cantiano (il borgo natìo poco distate da Gubbio), Roma, Savona e Napoli. Sarà la capitale pontificia a beneficiare maggiormente dell’opera pregevole di Flaminio, a Partire da una Giuditta (olio su tela, 1615-1620) in Galleria Pallavicini, passando per gli affreschi di Palazzo Costaguti (1624-1626) e Palazzo Aldobrandini (poi Chigi, oggi sede della presidenza del Consiglio dei Ministri), e quelli della Chiesa dei SS. Cosma e Damiano (1635 ca.)
Alla nostra valente ricercatrice si deve anche (su segnalazione di Paolo Salciarini, direttore dell’Ufficio Beni Culturali di Gubbio) l’attribuzione alla mano di Flaminio Allegrini, di un dipinto presente nel transetto sinistro dell’altare maggiore della Chiesa Collegiata di San Giovanni Battista a Cantiano, ovvero il Suffragio delle anime purganti (fig. 1), databile al 1630-1635 ca.
Benché sulla tela non vi siano notizie storiografiche né documenti sulla sua provenienza, la studiosa ritiene che
“le chiare e molteplici rispondenze ravvisate nelle opere uscite dal pennello di Flaminio Allegrini […] permettono di ricondurre il dipinto alla sua mano”.
Ed esse si evidenziano nella trattazione figurativa di alcuni santi effigiati, le cui fattezze e pose rimandano chiaramente ad altri santi dipinti dall’Allegrini padre; come si può osservare, ad esempio, nella Trinità adorata da due angeli (fig. 2) eseguita a Roma, proprio nello stesso periodo, per la Chiesa dei SS. Cosma e Damiano, dove le espressioni, l’incarnato e alcune pose dei soggetti raffigurati, risultano decisamente aderenti a quelle presenti nel dipinto di Cantiano.
La maniera arpinesca che pervade i dipinti di Flaminio Allegrini, fu pregnante anche nell’attività del figlio Francesco, i cui lavori – peraltro – andranno ad affiancare quelli già prodotti dal padre, in alcuni luoghi che sarà chiamato a decorare.
Ma se l’aderenza di Flaminio allo stile tardo manierista del Cesari si giustifica con una permanenza a bottega e una collaborazione professionale di lunga data tra maestro e allievo, la studiosa giustamente fa notare come – invece – Francesco, che presso il Cesari rimase solo pochi anni (indicativamente in un arco temporale compreso tra il 1636 e il 1640, anno in cui Giuseppe Cesari morì), per poi approdare alla più “moderna” bottega di Pietro da Cortona, continuò a esprimere il linguaggio pittorico dell’arpinate ben oltre la sua esperienza romana, probabilmente in virtù dell’influenza prodotta su di lui dal padre Flaminio. E, anzi, maggiormente se ne servì una volta tornato a Gubbio, dove le sue opere, chiaramente marchiate dal topos pittorico del cavaliere, lasciano intendere una particolare propensione di Francesco verso quello stile. Che dovette – peraltro – essere accolto con entusiasmo dai committenti eugubini, i quali probabilmente vi percepirono l’autorevolezza e il prestigio di un pittore formatosi nella “grande” Roma, facendone il loro più lodato artista, affidandogli lavori di alto profilo nelle maggiori chiese e residenze locali, come le decorazioni della chiesa della Madonna del Prato e dei nobili Palazzi Guazzugli e Marini.
I lavori romani di Francesco Allegrini, invece, sono la prova – scrive Nocella –
“di come il suo operato sia stato rigorosamente sottoposto alle condizioni dettate dal gusto corrente”;
e a Roma, nella seconda metà del Seicento, il linguaggio pittorico di Pietro da Cortona, nella cui bottega – come già accennato – il giovane artista proseguì la formazione dopo il breve percorso presso il d’Arpino, era decisamente maggioritario. Lo si può evincere proprio da uno dei più grandi lavori di Francesco eseguiti nell’Urbe, ovvero i bellissimi affreschi della Camera di Didone (fig. 3) in Palazzo Pamphilj (1655 ca.), dove l’impronta cortonesca è più che evidente.
Il fatto che opere eugubine coeve, come ad esempio le decorazioni della Cappella del SS. Sacramento (figg. 4-5) del Duomo di Gubbio, riportino invece un forte dettato arpinesco, dimostra che nella città umbra l’Allegrini figlio doveva sentirsi libero di esprimere la sua più naturale inclinazione pittorica, sicuro – altresì – del successo che ne avrebbe ottenuto.
La ricostruzione ordinata della biografia di Francesco, ha permesso inoltre di osservare che i suoi numerosi spostamenti tra Roma e Gubbio, si traducono in altrettante pregevoli opere, in precedenza attribuite al padre o al presunto figlio, e oggi finalmente assegnate, con ampio margine di certezza, alla sua mano. Lavori eseguiti in quattro fasi: due romane e due eugubine, alternate negli anni tra il 1645 e il 1682. E appare evidente, secondo la studiosa, che l’artista, sebbene adattando di volta in volta il gusto estetico e lo stile pittorico al gradimento locale, adotti soluzioni compositive simili, se non addirittura gli identici “cartoni” preparatori romani, utilizzati anche per opere eugubine.
Come nel caso di un affresco, di poco successivo al primo rientro di Francesco Allegrini a Gubbio dall’Urbe nel 1661, che si trova all’interno di Palazzo Guazzugli, raffigurante Marte e Diana che armano il guerriero (fig. 6),
il quale risulta essere sostanzialmente una replica, con minime varianti, del dipinto eseguito poco prima a Roma in Palazzo Costaguti (fig. 7).
La tendenza a “replicare se stesso” in Francesco Allegrini, utile peraltro a identificare la sua mano in opere di controversa attribuzione, si evidenzia – come fa notare Nocella – anche in altri affreschi di Palazzo Guazzugli, dove certi motivi formali dell’artista si ripetono evidenti in diversi suoi soggetti mitologici effigiati; come l’incarnato sul volto dell’Aurora e della Psiche raffigurate rispettivamente nella seconda e terza sala del piano nobile (figg. 8-9).
Anche in Palazzo Marini, a poca distanza dal Guazzugli, altri due affreschi riferiti alla mano di Francesco, ovvero Pallade Atena e il Concilio degli dei (fig. 10), parlano lo stesso evidente linguaggio arpinesco;
e, nel Concilio, soprattutto, è possibile rilevare la stessa tipologia figurativa della Venere e della Giunone eseguite dall’artista negli identici soggetti della Camera di Didone (fig. 11) in Palazzo Pamphilj a Roma.
Eppure l’eco trionfante del barocco da Cortona non doveva essere alieno nella provincia umbra se, proprio per la Chiesa Nuova di Perugia, Pietro aveva dipinto nel 1643 una bellissima Natività della Vergine. E non è un caso che, di quel dipinto, Francesco Allegrini ricavò una copia (Fig. 12), che venne posta sull’altare della cappella di Sant’Anna, nella Chiesa Collegiata di Cantiano, la cui datazione risulta piuttosto difficile da definire; ma, visto il percorso di formazione di Francesco presso il maestro toscano proprio negli anni in cui venne eseguito il prototipo, la studiosa romana ritiene che la copia cantianese del dipinto si possa collocare sia nel periodo di permanenza dell’Allegrini presso la sua bottega (quindi nei primi anni quaranta del Seicento), sia in un periodo decisamente più tardo, intorno al 1681, quando vennero realizzati gli altari per la chiesa locale. E non si crede improbabile che dopo aver visto il dipinto originale a Perugia, la famiglia Concioli, che aveva il patrocinio della cappella di Sant’Anna, abbia commissionato appositamente una copia di quel dipinto all’artista più celebre del luogo, nonché allievo di cotanto maestro.
Il pregevole studio di Manuela Nocella, che ha ampliato le conoscenze e messo ordine nelle vicende intricate di Flaminio e Francesco Allegrini, ha il merito – tra l’altro – di aver portato all’attenzione di pubblico e critica, la presenza di numerose opere di gusto prettamente barocco in una regione come l’Umbria, per tradizione associata quasi esclusivamente all’arte medievale. Ciò assume un grande valore dacché se ne amplifica e arricchisce l’offerta culturale del territorio.
Ma è chiaro che l’importante lavoro della studiosa romana non può considerarsi un traguardo, dal momento che – a tutt’oggi – risulta quanto mai difficile perfino reperire immagini delle opere degli Allegrini; lei stessa ha potuto corredare il suo volume solo di un esiguo numero di dipinti, rispetto agli effettivi corpus dei due artisti.
Mancano, infatti, ancora alla fruizione di estimatori e addetti ai lavori, le opportune quanto necessarie monografie dei due Allegrini, padre e figlio; opere sulle quali la nostra ricercatrice è già a lavoro, a coronamento di anni di studio, e che le auguriamo (e ci auguriamo) vivamente possa portare a compimento quanto prima.
Francesca SARACENO Catania 22 Dicembre 2022