di Marcello AITIANI
Si è svolta lo scorso 22 Giugno nella Basilica di San Miniato a Monte in Firenze una Giornata di Studi in occasione del Solstizio di Estate dalle 11 alle 17. La millenaria Basilica infatti presenta tra i vari capolavori della architettura romanica una insolita assimilazione di una antecedente tradizione astrologica. All’evento, curato da Riccardo Bernardini e Fabrizio De Francesco, oltre al saluto introduttivo di padre Bernardo Francesco Gianni, abate di San Miniato a Monte, hanno partecipato Simone Bartolini e Marcello Aitiani, che ci ha generosamente concesso la pubblicazione che segue.
L’arte, nelle sue multiformi articolazioni, è un possibile luogo del silenzio e del discernimento entro cui far affiorare, se non risposte, almeno domande di senso.
Discernere vuol dire saper distinguere e valutare sia i fatti e i tanti segnali esterni che oggi ci sommergono, sia le molte voci che in noi convivono e talvolta combattono. Operando questo discernimento si potrebbero sanare o mitigare le nostre scissioni interne e conquistare una libertà responsabile.
Penso che tutti dovremmo farlo, ognuno nella propria vita e nella propria attività. Anche l’artista è bene che compia un lavoro di discernimento sui temi e sul senso dell’arte e, più specificamente, in rapporto al proprio operare. Così attraverso queste interrogazioni potrà anche soffermarsi sull’ascolto e sulla relazione dell’arte col mondo; come scrive Antonio Prete nella poesia Povertà della parola: «Può l’esistenza farsi alfabeto / suono, verbo di presenza?» [1].
«Sarebbe ben difficile dire dove è il quadro che sto guardando – scrive Merleau-Ponty –. Giacché non lo guardo come si guarda una cosa, non lo fisso lì dove si trova, il mio sguardo erra in lui come nei nimbi dell’Essere,più che vedere il quadro, io vedosecondo il quadroocon esso»[2].
Infatti, con e attraverso un’opera d’arte, di letteratura, di musica si possono aprire prospettive inedite da cui considerare le cose, o possono nascere domande prima impensate e più profonde con cui interrogarle. Questo è evidente nel caso delle grandi opere, come i poemi di Omero, fondativi per la cultura e la vita dei Greci; come la Divina Commedia di Dante, l’Amleto di Shakespeare, il Don Chisciotte di Cervantes; come la Trinità di Rublev, il Faust di Goethe, il Don Giovanni di Mozart…
Ma anche opere meno “importanti” possono aprire delle brecce nel muro compatto dei conformismi mentali, portare in un ambiente asfittico qualche refolo d’aria salutare.
Hölderlin, Rimbaud, Trakl, Campana, van Gogh, Gauguin, Nietzsche, Kirchner, Majakovskij, Andrej Belyj… Non pochi pittori, filosofi, musicisti, poeti veggenti (tali sono gli artisti e pensatori autentici), a partire almeno dalla fine del Settecento si sono sentiti soffocare nel clima raggelante di un fideistico ed esclusivo abbandono alle magnifiche sorti e progressive di scienza e tecnica che realizzano cose anche utilissime ma, da sole, non danno senso alla vita. L’uomo ad altro pure anela.
Arthur Rimbaud, in Une saison en enfer (Una stagione all’inferno), profetizza:
«Geografia, cosmografia, meccanica, chimica!… La scienza, la nuova nobiltà! Il progresso. Il mondo cammina! E perché non dovrebbe girare? È la visione dei numeri. Andiamo verso lo Spirito. È certo, come un oracolo, ciò che dico».
Questa rivolta contro il prosciugamento dell’umano è proseguita costantemente nel Novecento in varie forme e in tutte le arti. Nell’articolo Musica e arte, oscurità e bellezza nel mondo contemporaneo pubblicato in questa rivista (cui rimando chi fosse interessato),facevo riferimenti a vari autori, tra cui Thomas Eliot, per la sua poesia del 1925 The Hollow Men (Gli uomini vuoti), in cui il poeta preconizza la fine del mondo «Non con uno schianto ma con un piagnucolio». Pochi anni dopo, e sarà la Seconda guerra! Non con un piagnucolio, ma con uno schianto!
E dopo questa, nel pieno bum economico, altre figure creative hanno dato voce a lati oscuri e mostruosi che in ognuno si annidano e gridano, come nell’Urlo di Munch; ma lo hanno fatto nelle modalità rock dell’industria culturale degli anni Sessanta. Valga per tutti Van Morrison in The End (brano anch’esso citato nell’articolo), nel quale la spinta di morte (Kill! Kill! [3]) e l’assassinio del padre può interpretarsi anche metaforicamente in chiave psicanalitica.
Dopo quanto è accaduto, soprattutto nel precedente secolo, mentre fragori tragici in varie zone del mondo fanno presagire altri schianti ancora più fragorosi, non è tempo di fare “accademica”. L’arte tornando autentica ascolta i segni dei tempi. Imitare pedissequamente stili del passato remoto, o quello prossimo del Novecento con le sue avanguardie e neoavanguardie, è dannoso. Eppure, spesso è ciò che avviene, per timore difensivo, probabilmente.
Per una sorta di torpore ipnotico si preferisce chiudere gli occhi davanti alla realtà e voltare lo sguardo indietro, come si potesse fermare il tempo, che invece procede inesorabilmente nelle cose piccole della vita, nelle grandezze del cosmo, nel vorticare delle galassie…
Non che si debba ignorare la storia. Chi abbia un minimo di cultura non crede più al cammino lineare di un inevitabile progresso, la realtà è complessa, intricata, fatta anche di arresti e regressi. Quanti se ne rendono conto non perdono di vista il passato, che può nutrirci a condizione che non venga riproposto pedissequamente. Si tratta piuttosto di capire ed estrarre il nucleo profondo che ancora arde sotto la cenere, per riaccenderlo con nuovo ossigeno, farlo lievitare e dialogare col presente.
L’arte è mossa da un’ispirazione generativa: che ravviva e fa evolvere ciò che è stato trasmesso, nel rinnovamento delle forme espressive. La «tradizione non è culto delle ceneri – aveva detto Gustav Mahler –, ma custodia del fuoco».
Artisti e pensatori come quelli sopra indicati hanno studiato e assimilato, ma non si sono certo ridotti a copiatori del tempo che fu. Ognuno con le proprie poetiche, ha cercato una pacifica ma difficile, laboriosa, infocata rinascita spirituale, non facendo illustrazioni retoriche ma opere che trasudano sentimento e pensiero incarnati, talvolta a prezzo della propria autodistruzione.
Il pittore Marc Rothko riteneva che fare arte «fosse un’avventura in un mondo sconosciuto, che può essere esplorato solo da coloro che intendono assumersi il rischio»[4].
Infatti, e nonostante il successo conseguito, è rimasto travolto e nel 1970 si è tolto la vita.
«Chi lotta contro i mostri – ha scritto Nietzsche – deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te» [5].
Aveva ragione, e lui stesso è naufragato: pericoloso intraprendere un percorso iniziatico, come quello imboccato nella contemporaneità da molti protagonisti, in assenza di una tradizione spirituale (forse sparita?) e di guide serie che possano accompagnare un simile viaggiatore nell’oltre.
Eppure, in un tempo come il nostro, nel quale in tutto il pianeta sta fiorendo caoticamente un’era nuova, è ormai indispensabile uno sguardo visionario inedito verso una grande metamorfosi.
Uno sguardo che non stimoli trasformazioni all’interno del modo consolidato e normale di vivere: acconsentendo supinamente, come i più, o ribellandosi distruggendo e distruggendosi; da decenni e decenni, se non da sempre, è così, per gli individui e per i popoli.
È indispensabile una torsione più radicale: il cambiamento del modello stesso del pensiero.
Un meta-cambiamento, una trasformazione di secondo grado o un deuteroapprendimento, con espressioni di Paul Watzlawick, Gregoy Bateson o Mauro Ceruti. Un’intelligenza e un cuore che non si adegua, ma lucidamente, gioiosamente e in forme non violente anela un mutamento vero. Un pensiero nascente nel «crollo» di un mondo, come lo ha chiamato James Hillman, ripensando a Ravenna con i suoi mosaici e dialogando con Silvia Ronchey nella fase terminale della propria vita [6].
Un’altra terra e un altro cielo sono possibili da traguardare, almeno asintoticamente. Non è una fantasia utopistica, comunque, ma una giovane immaginazione creativa fondata sugli aspetti positivi, belli e sulle risorse che pure non mancano.
Vengono in mente famosi versi di Virgilio, scritti in un periodo di tremende lotte civili, nei quali s’invoca un cambiamento radicale del mondo grazie a un bambino, il puer che finalmente farà sorgere un periodo aureo di pace:
«Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum / desinet ac toto surget gens aurea mundo, / casta, fave, Lucina…» [7]. «Tu dunque custodisci, casta Lucina, il fanciullo che sta nascendo, con cui per la prima volta finirà la generazione crudele delle guerre e sorgerà in tutto il mondo quella dell’oro».
Il poeta invoca la divinità, Giunone Lucina, la dea che porta i bambini alla luce.
… L’opera dell’artista non è semplicemente imitare ciò che è visibile, ma è elevarsi fino alle ragioni ultime da cui la natura scaturisce (Plotino, Enneadi, V, 8,1.)
Vivo la pittura come una forma musicale della luce e la musica una forma luminosa del suono; espressioni che esprimono sinestesie incrociate: quando la pittura è musicale diventa luce, non è più mero pigmento; quando il suono è luminoso diventa musica, non è più solo una frequenza acustica.
Questo è un punto essenziale. Come ho accennato, sento e progetto musicalmente le opere, soprattutto quelle per i luoghi dove gli esseri umani vivono la loro vita reale.
Lo dico con una certa titubanza, perché all’uomo moderno la co-esistenza di udito e vista (che gli antichi cinesi definivano “luce degli orecchi”) appare in genere incomprensibile. Sconosciuto è l’intimo legame del suono con la luce e la policromia, che invece è alla base delle cosmogonie antiche, anche di civiltà diverse dalla nostra. Prajāpati, ad esempio, «il dio vedico della creazione – osserva l’etnomusicologo Marius Schneider – era soltanto un inno. Il suo corpo era formato da tre sillabe mistiche dal cui sacrificio canoro derivarono il cielo, il mare e la terra» [8].
Il suono incarnato nella parola e nei suoi ritmi è inteso nelle varie civiltà come elemento primordiale e creativo di tutte le cose e degli esseri, ed è intrecciato alla luce: se il suono della parola è il suo corpo, la luce ne costituisce il senso e lo fa risplendere. E osservo che anche oggi, e in acquisizioni della scienza, il senso della profondità cosmica è in qualche modo connesso e si manifesta in entità di tipo vibratorio, sonoro e visivo.
Non possiamo stupirci della presenza, anche nella nostra civiltà e in periodi antichi, di simili corrispondenze tra suono/parola-luce-creazione, se si pensa che in Genesi 1 le origini del mondo e dell’umanità fioriscono dalla parola:
«Dio allora ordinò: “Vi sia luce”. E vi fu la luce […] Finalmente Dio disse: “Facciamo l’uomo”»…
Astratta dalla luce, scrive Pavel Florenskij, la finestra (e potrei dire la vetrata) non sono che legno o piombo e vetro.
«Così una finestra è una finestra in quanto attraverso di essa si diffonde il dominio della luce, e allora la stessa finestra che ci dà luce è luce, non è “somigliante” alla luce […], ma è la luce stessa nella sua identità ontologica, quella stessa luce indivisibile in sé e non divisibile dal sole che splende nel nostro spazio» [9].
Una luce che, soprattutto quando si avvicina al fuoco dello spirituale, non può restare al solo livello empirico, manifestando invece una dimensione metafisica; non astratta, tuttavia, ma concretissima: una metafisica e luce d’intelligenza incarnata. «Tutto ciò che è manifesto è luce», scrive Paolo nella lettera agli Efesini (5, 13); cioè: ogni essere è luce. Le pitture, quando sono arte, rivelano le cose più quotidiane e umili in una simile luce
«perché– osserva Paul Klee – invece di limitarsi alla riproduzione più o meno intensa del visibile, esse vi annettono anche il versante dell’invisibile, percepito occultamente» [10].
Questo è tipico dell’icona, interfaccia e soglia tra esterno e interno, nota anche il filosofo Silvano Tagliagambe in rapporto al pensiero di Florenskij [11] il quale, ancora nel suo Saggio sull’icona, osserva che mondo terrestre e celeste possono guardarsi.
«Tuttavia la differenza fra loro è così grande che non può non nascere il problema del confine che li mette in contatto, che li distingue ma altresì unisce. Come si può intenderlo?».
Ci sono momenti nella vita in cui questa congiunzione si sente,
«sicché c’è un attimo di tempo, sia pure breve, sia pure concentrato al massimo, talvolta fino all’atomo di tempo, quando i due mondi si toccano e ci diventa contemplabile perfino questo congiungimento. In noi il velo del visibile per un istante si squarcia e attraverso ad esso […] invisibile soffia un alito che non è di quaggiù: questo e l’altro mondo si aprono l’uno all’altro e la nostra vita è sollevata da un fiotto incessante, come quando la temperatura fa salire l’aria calda» [12].
Scrive Franc Ducros:
«E’ questa la condizione dell’universalità del poetico: l’esperienza di un “io” singolare che eccede se stesso in ciò che dice, e diventa, nel momento in cui la dice, una parola in espansione infinita attraverso tutte le sue intermittenze, vale a dire attraverso tutti i suoi vuoti, segni di quell’ignoto da cui gli avviene di emergere […]» [13].
Materia, parola, luce, mani, colori, suono, corpi, spirito, mondi… vibrazioni e respiro concreto di un ineffabile nell’arte, nell’opera umana viva, non circoscrivibile, dinamica e complessa come quella della magnifica abbazia di San Miniato al Monte, con le sue tarsie e bagliori emergenti nell’ombra!
Marcello AITIANI Siena 7 Luglio 2024
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Referenze fotografiche: le foto 3, 5, 6, 10, 13 sono di Bruno Buchi. La foto 11 è dello Studio Fabio e Andrea Lensini.
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