Francesco Caglioti, il risarcimento a Verrocchio, la terracotta di Leonardo, il grande successo della mostra. Il curatore (con Andrea De Marchi) della mostra di Palazzo Strozzi a 360°

P d L

Francesco Caglioti (Sambiase, ora Lamezia Terme -Cz- 1964) è dal 1° marzo 2019 professore ordinario di Storia dell’arte medievale presso la Scuola Normale di Pisa dove coordina il Dottorato di ricerca in Storia dell’arte, dopo essere stato a lungo professore ordinario e coordinatore di dottorato presso l’Università degli Studi “Federico II” di Napoli. E’ uno degli studiosi riconosciuti tra i maggiori esperti di scultura del Tre, del Quattro e del Cinquecento italiano, oltre che di committenza, collezionismo e letteratura artistica; è stato autore di notevoli scoperte e di numerose pubblicazioni sulle figure più importanti del panorama artistico di quei secoli, da Arnolfo di Cambio, a Giotto, a Donatello, a Lorenzo Ghiberti, a Bernardo e Antonio Rossellino, a Desiderio da Settignano, a Mino da Fiesole, a Benedetto da Maiano, a Matteo Civitali, oltre naturalmente ad Andrea del Verrocchio e Leonardo da Vinci, ma importanti suoi studi hanno riguardato anche Domenico e Antonello Gagini, Andrea Bregno e Giovanni Dalmata, nonché Michelangelo Buonarroti e Raffaello Sanzio. Non è possibile dar conto in questa sede delle sue pubblicazioni e dei convegni in Italia e all’estero dei quali è stato curatore o partecipe. Lo abbiamo incontrato a Palazzo Strozzi dove ha curato insieme con Andrea De Marchi la grande mostra sul Verrocchio, che chiuderà tra qualche giorno e che ha avuto un successo oltre ogni aspettativa.
-Comincerei dalla mostra che hai curato qui a Palazzo Strozzi, insieme con Andrea De Marchi, e dal successo che sta ottenendo (si parla di 150 mila visitatori ad oggi); ti chiedo: ve lo aspettavate per un artista come Verrocchio piuttosto ai margini rispetto ai nomi che invadono di solito i grandi circuiti espositivi?

R: No, sinceramente non ce l’aspettavamo.

Certamente ha giovato anche l’anniversario leonardiano con le varie manifestazioni e celebrazioni in tutto il mondo, anche se, come mi è capitato di precisare più volte, tanto Andrea De Marchi quanto io stesso non miravamo affatto ad inserirci in questa serie celebrativa; contavamo di mettere in opera la mostra entro il 2018 o anche nel 2020, ma poi siamo arrivati al ’19 per tutta una serie di combinazioni e superando varie complicazioni e passaggi; innanzitutto il partenariato con Washington, che ci chiedeva di poterci precedere, cosa che poi è caduta a causa della malaugurata scomparsa di una collega curatrice americana, Eleonora Luciano; in seguito siamo arrivati quasi alla disperazione quando abbiamo dovuto contenderci i prestiti con istituzioni museali assai più potenti che stavano preparando le loro mostre per l’anniversario e rispetto alle quali facevamo la parte di David con Golia.

Palazzo Strozzi
Museo del Bargello

 

 

Palazzo Strozzi non ha una collezione permanente, il che impedisce scambi di prestiti come ormai è d’uso, e come del resto ho potuto verificare a Berlino, Parigi, Londra e così via, con alcune istituzioni che concedono Verrocchio se in cambio dai un’opera di livello altrettanto significativo, e quindi su questo fronte non abbiamo potuto procedere sicuri. è stata però decisiva, anche in ciò, la collaborazione con i Musei del Bargello, che con intelligenza e generosità hanno messo a disposizione il loro nucleo di opere verrocchiesche (il più ricco al mondo in ambito museale), sia direttamente per la mostra stessa, ospitata tra Strozzi e il Bargello, sia per l’edizione di Washington e per la grande mostra leonardesca al Louvre di Parigi, prevista per il prossimo autunno.

-Quando è allora che avete capito che la mostra sarebbe stata un successo?

R: La prima vera impressione che si potesse avere una grande risposta l’abbiamo maturata alla vigilia dell’inaugurazione, davanti al fervore che ci circondava; inoltre erano sorti problemi e contenziosi tra alcune istituzioni italiane e straniere per i prestiti di opere leonardesche, e quindi si è capito che la nostra avrebbe in realtà finito per essere la più ampia iniziativa espositiva che si richiamasse a Leonardo nel cinquecentenario della morte. Come ho detto, noi non miravamo a realizzare una mostra dedicata a lui; poi però, quando metti insieme 120 capolavori di Verrocchio e dei suoi, compreso Leonardo, arrivi quasi automaticamente ben oltre le più rosee previsioni. Se a questo aggiungi il richiamo di Firenze, cioè della città in cui Leonardo visse la giovinezza e si formò, unito al prestigio di Palazzo Strozzi, edificio che si presta meravigliosamente a una mostra di opere della stessa epoca in cui venne edificato, e con un allestimento funzionale, grazie alla professionalità degli architetti (Gigi Cupellini e Carlo Pelle), con cui abbiamo dialogato sempre ottimamente, liberando le stanze del piano nobile da eccessi di pannellistica e paratie per mettere bene in evidenza i peducci, le volte, i camini, ecco che tutto questo ha prodotto un risultato di cui siamo contenti.

-Tra le numerose ed opportune messe a punto di questa mostra c’è quella che in qualche modo fa piazza pulita della interpretazione vasariana circa l’idea del genio di Leonardo autoprodottosi e che quindi ridimensiona il ruolo della bottega di Verrocchio.

R: A dire la verità, leggendo bene il Vasari ci si rende conto che egli capisce perfettamente il senso profondo del rapporto intercorso tra i due; il fatto è che per Vasari, o meglio nel suo montaggio cronologico, per dir così, Verrocchio deve chiudere un’epoca e Leonardo ne deve aprire un’altra, nel senso che lui concepisce un vero distacco tra i due, come se fossero due barche che la corrente separa, che partono quasi assieme ma poi la corrente allontana.

-Allora l’idea dell’artista genio isolato autoprodottosi appare figlia di una visione critica d’epoca romantica, di stampo ottocentesco, che abbia quindi a bella posta interpretato gli scritti vasariani in modo limitativo quanto al ruolo di Verrocchio; ti chiedo se non dipenda proprio dal momento storico la credibilità o meno che si dà ad un testo, col rischio di letture parziali soggette al gusto dei tempi.
Wilhelm Bode

R: In parte hai ragione, ma non credo si corra questo rischio oggi; vero è che Vasari è figlio della sua epoca e da lui, che certamente onoriamo come grande pioniere della storiografia d’arte, non possiamo pretendere quella stessa visione storicistica che abbiamo con fatica forgiato negli ultimi secoli. Quanto all’Ottocento, va detto che ha anche meriti enormi nei confronti di Verrocchio, perché nella seconda metà di quel secolo si cominciò a riscoprirlo in particolare grazie agli studi di Wilhelm Bode, cui va riconosciuta la funzione di battistrada, apripista, fai tu; non dimentichiamo che, dopo che gli Uffizi acquisirono nel 1825 la Dama del mazzolino come cosa di Donatello, fu lui, quasi sessant’anni dopo, a restituirla a Verrocchio. Certo, a posteriori si può dire che è mancato a Bode il senso della prima giovinezza di Verrocchio, cioè della sua formazione, ma è ovvio che non gli si può chiedere tutto, e anzi, se vogliamo trovare le responsabilità di ciò, esse non sono sue, bensì di larga parte della critica novecentesca, che non ha fatto grandi passi avanti rispetto alle sue acquisizioni: se Bode ha conseguito metà dei risultati – per dire – l’altra metà il Novecento non l’ha portata avanti, per molti aspetti tornando addirittura indietro.

Andrea del Verrocchio, Dama del mazzolino, Museo del Bargello
-E questo perché secondo te? Perché c’è stata questa sorta di trascuratezza? 

R: Non vorrei apparire nazionalista, ma fammi dire che molti di noi italiani abbiamo in effetti come abdicato a questi studi lasciandoli di fatto agli stranieri, ai quali certamente dobbiamo molto, ai quali siamo grati e dai quali però dobbiamo sentirci stimolati a fare anche noi la nostra parte, perché, se lasciamo la parola solo a loro, poi perdiamo quasi il diritto d’intervenire. Ed è un errore, perché basta fare un attento giro per la mostra di Palazzo Strozzi, prestare attenzione ai cartellini o allo stesso catalogo, per capire che certi studi sarebbero stati meglio fondati conoscendo per esempio di più il latino, oppure il volgare fiorentino.

-In effetti occorre dire che l’aspetto didattico è stato curato in modo veramente efficace.

R: Era necessario ripristinare una verità pressoché misconosciuta dalla critica, dalla quale il povero Verrocchio è stato privato perfino della sua giovinezza, rimasta nell’ombra, e in pratica costretto ad aprire bottega già trentacinquenne e quindi a quel punto già presidiato, diciamo così, da Leonardo. Niente di più scorretto, e dunque l’esposizione e i saggi del catalogo che l’accompagnano ridanno a Verrocchio la giovinezza perduta, se posso dire così, che è cruciale per collegarlo a Donatello. Dopo di che occorre dire che la mostra, per quanto ampia, non poteva raccontare e raccordare tutto, in particolare per difficoltà logistiche: fare una mostra su questo artista risente gravemente del fatto che i suoi più grandi capolavori sono inamovibili.

-Ecco puoi dire se avete trovato difficoltà a reperire le opere necessarie?

R: Le difficoltà in casi del genere sono soprattutto di contesto originario. Qualche giorno fa ho portato alcuni allievi a visitare l’esposizione e poi opportunamente in giro per chiese e luoghi di Firenze dove sono collocati altri capolavori; tra questi il Museo dell’Opera del Duomo, dove come sai c’è il Dossale d’argento con varie formelle di grandi maestri, tra le quali la Decollazione del Battista del Verrocchio;

Altare argenteo di San Giovanni, Andrea del Verrocchio, Decollazione del Battista

l’opera, ben restaurata appena pochi anni fa, è un vero caposaldo, e la formella verrocchiesca ne è una componente essenziale, ed essendo piccola poteva anche essere trasportabile, ma non ci siamo neppure sognati di chiederla per l’esposizione, e non perché ci attendessimo un no certo, ma perché non avevamo alcuna intenzione di vulnerare il dossale, che va apprezzato nel suo complesso.

-Vorrei tornare sul tema della formazione di Andrea del Verrocchio; vorrei dirti che leggendo il tuo saggio in catalogo appari un po’ troppo salomonico tra Donatello e Desiderio da Settignano.

R: Ti ringrazio per la domanda perché mi porta al cuore di un problema che ho affrontato per anni e a certi risultati cui sono pervenuto e ai quali credo molto. Sono arrivato alla giovinezza di Verrocchio studiando Donatello, Mino da Fiesole, Desiderio, i fratelli Rossellino, Bertoldo di Giovanni, Benedetto da Maiano, e di anno in anno, di saggio in saggio mi è capitato di fare varie precisazioni attributive e cronologiche, finché mi sono reso conto che quasi tutte le opere della basilica di San Lorenzo e di Palazzo Medici, che venivano datate un po’ a caso e in senso ampio, in realtà andavano tutte concentrate in quel formidabile arco di anni che va dal rientro di Donatello da Padova a Firenze, nel 1454, fino alla sua scomparsa nel 1466. A quel punto, prim’ancora di Verrocchio giovane, mi si è chiarito innanzitutto il ruolo di Desiderio da Settignano rispetto a Donatello: Desiderio, formatosi con Bernardo Rossellino – come aveva compreso negli anni Settanta la studiosa americana Anne Markham Schulz – era presto divenuto un donatelliano.

-E dunque ? come sei arrivato da lì a Verrocchio ?

R: Ho avuto per esempio l’occasione di ricostruire per frammenti e documenti non riconosciuti il basamento descritto dal Vasari, ma poi perduto, realizzato da Desiderio per il David bronzeo di Donatello e oggi al Bargello. Ciò è stato fondamentale, perché significa che in quegli anni, siamo alla fine dei Cinquanta, unirsi a Desiderio significava unirsi a Donatello e viceversa. Per Verrocchio ottenere da Donatello di collaborare nel marmo con lui, peraltro ormai anziano (come si sa, sarebbe morto nel ’66), voleva dire approdare a Desiderio, e quindi le due cose non sono inconciliabili e anzi chiedono proprio di stare insieme; insomma, ritornando alla tua domanda, questo approccio ‘salomonico’ che ti sembra di rilevare significa tutt’altro che indecisione critica.

-Volevo dire semplicemente che Verrocchio s’inserisce in una sorta di connubio artistico, secondo un percorso che provo a riassumere in questo modo: Donatello torna a Firenze dopo gli undici anni padovani e riprende subito la sua primazia, diciamo così, presso i Medici; siccome è un generoso ingaggia per i grandi cantieri medicei gli altri artisti nel frattempo cresciuti a Firenze, tra cui Desiderio che diviene il suo “delfino”; a questo punto entra in scena Verrocchio, cui spettano l’acconciatura delle teste nel cortile di Palazzo Medici poi Riccardi e il lavabo della Sagrestia Vecchia; giusto?

R: Sì, può andare, anche perché è bene ricordare da dove viene Verrocchio. è un orafo professionista che passa alla scultura iniziando dal marmo, e grazie a ciò si salda al perfezionismo di Desiderio anche per il fatto che i modelli marmorei più aggiornati e diretti – diciamo così – di Donatello non può vederli, gli mancano perché l’artista ormai è anziano e non lavora più il marmo, e i capolavori che ha scolpito e che lo rendono immortale non sono agevoli da raggiungere, sono posti in alto, sono in altre città; certo possono sempre ben trasmettere anche a distanza il senso del movimento, dell’azione, dello spettacolo, ma sicuramente non il senso plastico, i passaggi operativi, il ductus straordinario, che si percepiscono solo da vicino; dunque Verrocchio preferisce Desiderio, che sostanzialmente ne è l’alter ego, il successore, il ‘delfino’ ; tuttavia lui proviene dall’oreficeria, e dunque è interessato anche al bronzo, e qui Donatello gli fornisce modelli di qualità altissima, di azione, di moto, di invenzione, proprio mentre il procedere approssimativo dell’anziano artista non può più soddisfare i Medici.

Domenico Ghirlandaio, Gentile de’ Becchi (?), S. Maria Novella, Cappella Tornabuoni

Ho ripubblicato in catalogo una lettera dell’epoca, dell’umanista Gentile de’ Becchi, precettore dei figli di Piero di Cosimo, che lamentava come Donatello, in sostanza, cominciava ma non finiva mai, ma non nel senso poi leonardesco o michelangiolesco di lasciarle incompiute, bensì nel senso di finirle senza dare loro l’ultima mano. Al contrario, è impressionante che delle opere di Verrocchio non ce ne sia una che non sia impeccabile, sono opere innovative e allo stesso tempo perfette. Mi viene da credere che Leonardo sia stato letteralmente folgorato dall’esempio del Verrocchio, e sono perfino portato a ritenere che ne sia uscito traumatizzato; credo che ancora in Francia ripensasse al suo maestro sognando di dover essere perfetto come lui.

-Se vuoi il mio parere qualcosa del genere può essere accaduta se pensiamo ad alcuni fatti come ad esempio al clamoroso fallimento cui va incontro Leonardo con il famoso cavallo di bronzo; pur avendo in mente gli esempi di Verrocchio con cui si deve confrontare, provenendo da una bottega all’avanguardia quanto a tecnologia e sperimentalismo, tuttavia fallisce; come lo spieghi? Ed anzi ti chiedo: secondo te, Verrocchio avrebbe fallito se fosse stato lui a dover realizzare quel notissimo e sfortunatissimo monumento bronzeo?

R: Innanzitutto Verrocchio aveva un senso della misura assai più saldo di Leonardo, il quale nel momento stesso in cui ottenne il progetto del monumento sforzesco da Ludovico il Moro concepì l’idea di realizzare qualcosa di estremamente più grande di quanto avesse fatto il suo maestro con il monumento al Colleoni; insomma, si trattava di una sfida troppo ambiziosa, che annunciava il fallimento sin dal momento stesso della concezione. Ma al di là di ciò, più studio i due artisti più mi rendo conto che l’universalità da tutti ritenuta il valore massimo di Leonardo è ampiamente preparata dalla universalità del Verrocchio; di quest’ultimo mi piace ricordare anche il talento ingegneristico, troppo spesso sottaciuto.

-Cioè, a cosa ti riferisci in particolare?

R: Lo dice lo stesso Vasari; nella seconda edizione delle Vite descrive una sorta di bambino ad orologeria che si trovava nel Mercato Nuovo (la successiva Loggia del Porcellino, ndA) ed è andato perduto nel corso dei secoli senza lasciar traccia; anche questo Verrocchio si era messo a fare, una sorta di automa! Aggiungici un’altra cosa quasi sempre trascurata dagli studi di storia dell’arte figurativa, e cioè la palla di rame dorato sopra la cupola di Santa Maria del Fiore, cominciata dall’artista nel 1468 e posta in opera tre anni dopo;

fu un’impresa notevolissima per i tempi, e Leonardo stesso vi prese parte, per cui vi fa cenno a distanza di anni nei suoi appunti. Ma ci sono altri esempi che dimostrano la versatilità senza confini del Verrocchio, ad esempio la statua perduta che Vasari descrive come uno scorticato, cioè il Marsia rosso, che si trovava nel giardino mediceo e che era certamente opera sua, come conferma una citazione del fratellastro di Verrocchio, risalente a sessanta anni prima della nota vasariana; una perdita irreparabile, a mio parere, forse la prima scultura in assoluto che raffigurava uno scorticato, il primo écorché, della scultura moderna. Insomma cosa manca a Verrocchio rispetto a Leonardo? Forse solo gli studi sugli uccelli, sul volo dell’uomo, e poco più.

-Tu scrivi nel tuo saggio in catalogo che la bottega del Verrocchio rappresentò in qualche modo un vertice di sapienza tecnologica; mi viene alla mente un noto scritto di Eugenio Garin di molti anni fa sul Rinascimento secondo il quale in questo torno di anni proprio la bottega degli artisti era il vero centro della ricerca pre scientifica, collegata alle pratiche magiche ed esoteriche; esisteva qualcosa del genere anche nella bottega di Verrocchio?

R: Non saprei dirti, in verità, perché non mi risulta affatto che tra tutte le fonti letterarie e archivistiche relative a Verrocchio vi sia qualcosa che vada in tale direzione.

-Un altro aspetto che mi sembra sia rimasto in ombra, se me lo consenti, riguarda il contesto, parlo ovviamente del contesto storico culturale della Firenze dell’epoca che tra l’altro dopo la caduta di Costantinopoli vede arrivare numerosi intellettuali esuli, parliamo del 1453; è un dato riconosciuto che il loro ruolo fu molto importante nello studio sistematico del sapere antico e della cultura greco latina, nonché nell’affermarsi della filologia come scienza primaria del mondo umanistico rinascimentale. Ecco, non credi sarebbe stato opportuno approfondire anche questo aspetto considerato che è a contatto di quel mondo che la bottega del Verrocchio opera e forma artisti?

R: No, terrei conto del tuo rilievo se l’obiettivo fosse stato di scrivere un manuale di storia dell’arte di ampio respiro con un’introduzione all’epoca e agli eventi che la caratterizzarono; ma in una mostra monografica su Verrocchio e su un limitato ventaglio di artisti, per di più con un numero di pagine a disposizione anch’esso ben limitato, abbiamo ritenuto di non poterci spingere così lontani; d’altra parte io credo molto in una visione del progresso dell’arte, almeno per i secoli più alti, che provenga in primo luogo dagli artisti, i quali, come avrebbe detto lo stesso Leonardo, erano spesso “uomini sanza lettere”, e se consideriamo certi livelli di invenzione dei migliori, di capacità che direi poetiche, capiamo che tanto a Verrocchio quanto a Leonardo e ad altri ancora gli stimoli primari arrivavano dalla pratica di bottega, dall’insegnamento artistico stesso.

-Puoi avere ragione ma non si può non ammettere che comunque vi fu più che un contatto tra intellettuali e artisti, del resto ce ne sono parecchie tracce, se non altro perché frequentavano gli stessi luoghi, gli stessi palazzi, e non di rado gli stessi uomini che li ospitavano.
Domenico Ghirlandaio, Marsilio Ficino, Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni

R: Ma certamente; è chiaro che ci furono numerosi contatti con umanisti di varie nazionalità, i quali però – come dire? – rispetto agli artisti fungevano da divulgatori, traduttori, semplificatori dei loro stessi pensieri, delle loro teorie; ad esempio nel mio saggio alludo ad una certa fortuna di Plutarco, ma perché? Semplicemente perché ritengo che certi elementi del racconto plutarcheo possano essere arrivati al Verrocchio tramite le conversazioni con alcuni di questi intellettuali, non certo perché lui fosse un grecista, per intenderci. E poi lasciami dire che nella manualistica italiana relativa al periodo di Lorenzo s’è dato spazio eccessivo al platonismo, all’Accademia medicea. Non voglio certo contestarne l’importanza, ma se attacchiamo sempre con il neoplatonismo o con Marsilio Ficino, poi si rischia di far apparire che questi artisti facessero più accademia filosofica che pratica di bottega.

-Tu pensi che Verrocchio abbia avuto sempre libertà di creare e di elaborare, diciamo libertà di manovra sotto i Medici, o non abbia anche dovuto qualche volta piegarsi, nel bene o nel male, alle loro richieste o ai loro voleri?

R: Sì, penso proprio che Verrocchio abbia potuto godere della massima libertà creativa; certo i Medici erano dei committenti esigentissimi, ma sotto l’aspetto che dicevi non finiscono di stupire, il loro senso della libertà dell’artista si può paragonare a quello di tempi a noi ben più vicini.

-Addirittura?

R: Pensa a come si comportano nei confronti di Donatello, pensa a quel fenomenale David, alla sua nudità così espressiva e così elegante:

solo un artista geniale e libero poteva crearlo, ed è di una modernità così spinta che alcuni esegeti lo interpretano con lo stesso approccio che si potrebbe dedicare a un’idea di Jeff Koons. Cosimo era, e lo sappiamo, un uomo pio e molto devoto, un vero pater familias, ancorché molto furbo, ma è ovvio che approvò con piena convinzione un lavoro nel quale investì centinaia di fiorini; della stessa libertà poté godere Verrocchio, del quale sicuramente Cosimo e i suoi intuirono la genialità e al quale furono lasciate ampie possibilità di operare, puntando tutto su di lui. Pensa anche alla tomba realizzata proprio per Cosimo a San Lorenzo; è dall’Ottocento che si sa chi ne è l’autore, e tuttavia nello stesso tempo in cui lo diciamo ce ne dimentichiamo perché è un’opera che non attrae lo storico dell’arte figurativa dato che non presenta immagini, mentre lo storico dell’architettura la considera solo marginalmente; e invece quel lavoro sta a dimostrare come a neppure trent’anni di età Verrocchio già fosse lo scultore principe di casa Medici.

-Allora proviamo ad entrarci nella bottega di Andrea del Verrocchio; in modo molto riassuntivo possiamo dire che lui, cioè il maestro, ha a sua disposizione una serie di assistenti che lavorano su sue precise indicazioni mentre il suo intervento semmai potrà consistere nell’ultimo tocco, magari a dare le ultime velature, se ad esempio parliamo di un dipinto. A questo punto però si pone un problema non da poco: come si riesce a stabilire dove è intervenuto l’uno e dove l’altro dei suoi collaboratori? Come si riconosce il discrimine tra una mano e l’altra?

R: Tocchi un punto sostanziale. E ti rispondo subito non che è difficile, ma che è impossibile, proprio perché il successo di una bottega, la riuscita di un lavoro dipendeva strettamente dall’amalgama che si creava, il che vale tanto per la bottega del Verrocchio che per una qualsiasi bottega fiorentina di quell’epoca. Molto diverso, invece, il caso delle botteghe di Roma in quegli anni; ho studiato a lungo questo aspetto e posso dire che nelle grandi tombe degli anni ’60-80 realizzate a Roma puoi vedere l’intervento di Andrea Bregno con Giovanni Dalmata, oppure ancora di Giovanni Dalmata con Mino da Fiesole, o di Mino con Bregno, e così via, insomma si lavora diciamo metà e metà per questioni di speditezza, mentre a Firenze le imprese sono unitarie; pensa a Rossellino, a Desiderio ecc. Certo, se poi vai a spaccare il capello in quattro puoi trovare qua e là altre tratti di mano, ma di Verrocchio sono convinto che avesse un comando totale della sua bottega, che vi esercitasse un inflessibile controllo, dal disegno fino al tocco finale. Ed è proprio questo che ci crea grossi problemi di attribuzione. A ciò aggiungi che in qualche modo la convenzione comunicativa quasi sempre impone che si facciano delle attribuzioni ‘secche’ perché non si possono affiancare nei cartellini o nelle didascalie due, tre o a volte anche quattro nomi di possibili autori di un’opera; noi siamo stati rimproverati per questo, cioè per aver inserito perlopiù solo un nome nelle didascalie, e a qualcuno ciò è sembrato come un’espressione di presunzione.

-Ad esempio nel caso della Madonna col Bambino attribuita a Leonardo…

R: Sì, ho scritto che la terracotta con la Madonna col Bambino è di Leonardo, punto.

Ma non è forse vero che prima di me decine e decine di persone hanno scritto anch’esse Antonio Rossellino, punto?

E non Antonio Rossellino punto interrogativo, o bottega, o allievo, e così via.

Allo stesso modo capita che alcune Madonne che noi presentiamo come di Verrocchio siano passate per altre attribuzioni secche, con il nome di Perugino, ad esempio, e così è ora per Leonardo; non vedo proprio il motivo della critica.

-Ti chiedo allora se un modo per superare o cercare di superare la questione delle attribuzioni non potrebbe consistere nel ricorrere alle indagini diagnostiche – oggi sempre più raffinate – che diano la possibilità di individuare con precisione intanto la possibile discontinuità di materiali che potrebbe portare a determinare anche la discontinuità degli interventi. Non ci avete pensato?

R: Sì, certo, anzi posso anticiparti che la mostra che aprirà a Washington è incentrata proprio su questo aspetto, con indagini le più sofisticate fatte su ogni opera, per ognuna delle quali sembra che sia prevista una doppia scheda, rispettivamente di uno storico dell’arte e di un esperto diagnostico. Questo lavoro noi non lo abbiamo fatto in parte per una distribuzione dei ruoli, ma soprattutto perché, come puoi facilmente immaginare, il museo di Washington rispetto a Strozzi è una specie di felice macchina da guerra che può contare sui suoi dipartimenti, sui suoi laboratori, sui suoi settori specifici di specialistici interni che noi, o per meglio dire la Fondazione Strozzi, non abbiamo;

Putto col delfino

tuttavia la Fondazione ha appena dato alle stampe un volumetto proprio sulle indagini effettuate su due opere campione, ad esempio il Putto col delfino di Palazzo Vecchio e la Madonna di Piazza. I risultati più interessanti provengono dalle indagini effettuate sulla pala di Pistoia, in cui la riflettografia a infrarossi mostra con chiarezza che Verrocchio ha ideato, progettato e disegnato la pala ma poi non ci ha messo quasi neppure un tratto del suo pennello, lasciando la realizzazione pressoché intera a Lorenzo di Credi. Non a caso Vasari non cita l’opera nella Vita di Verrocchio ma direttamente in quella di Lorenzo.

Madonna di Piazza, Pistoia
-Che cosa ci puoi dire di questi risultati delle indagini diagnostiche?

R: Che c’è una differenza enorme tra il disegno energico, sicuro, forte del maestro e il tratto di Lorenzo di Credi, che smalta e caramella e glassa – come dire? – ogni cosa. D’altra parte questo artista, con buona pace dei suoi maggiori estimatori, era un petit maître che ebbe la fortuna di crescere col più grande maestro della sua epoca, Verrocchio, e accanto al più grande della generazione che si stava affacciando, Leonardo, e fu un grande amico di entrambi, tanto che posso immaginare che quando lo lasciarono, l’uno diretto a Venezia, l’altro a Milano, ci furono abbracci, e magari lacrime; le cose per lui funzionarono fin quando resistette il sodalizio, dopo di che, quando gli toccò di gestire la bottega verrocchiesca, a poco a poco si trovò a mal partito; se devo dirla tutta, credo che Lorenzo neppure si accorgesse della crisi che stava vivendo, tanto che invece di sua fortuna, come ho fatto per gli anni precedenti, dovrei ora parlare di sfortuna, perché Lorenzo andò avanti per un altro mezzo secolo spegnendosi progressivamente quanto a capacità creativa. Ma per tornare alla tua domanda, nelle indagini tecniche sulla pala la qualità esecutiva sottostante si vede alla perfezione, e rispetto alla stesura pittorica – molto distante dal disegno del Verrocchio – è come se fossimo davanti a due opere diverse. Al contrario, se confrontiamo il disegno sottostante e la stesura pittorica nella Madonna 104A di Berlino la coerenza è totale, non c’è alcuna discrasia di sostanza tra invenzione ed esecuzione, la fusione è perfetta.

-Passiamo alla scultura in terracotta della Madonna col Bambino ascritta a Leonardo che in ogni caso è un punto di attrazione della mostra qui a Palazzo Strozzi. Credo che questo te lo abbiano già chiesto in molti, cioè cosa pensi che possa accadere ora, dopo questo evento così significativo e di grande valore scientifico, credi che anche al Victoria & Albert Museum di Londra saranno propensi ad accettare la nuova proposta?

R: E’ un quesito al quale non saprei rispondere; da un lato sto rilevando moltissimi consensi da parte di studiosi soprattutto italiani – e tra questi ricordo anche Riccardo Lattuada e Ivo Bomba, i due colleghi che hanno scritto sulla tua rivista – ma tra gli stranieri c’è per esempio Carmen Bambach, che mi ha ripetuto più volte la sua adesione totale all’attribuzione: “Leonardo full stop!”. Con questa didascalia la studiosa pare abbia ripubblicato la terracotta nell’ultima sua monografia su Leonardo (quattro volumi della Yale University Press), in distribuzione nelle prossime settimane. Questo potrà incidere sul giudizio del V & A Museum? Non saprei, anche perché è difficile nascondere che si è venuta a creare una condizione delicata.

-Alludi al fatto che la scultura è stata sotto gli occhi di tutti, esperti e non, per oltre cent’anni?

R: Questo certamente è un fatto. Peraltro voglio sottolineare che non mi sarei mai e poi mai lanciato a compiere un’operazione del genere se l’opera non fosse appartenuta a un museo pubblico. Lo dico perché qualcuno in rete ha perfino creduto di poter fare delle insinuazioni come se stessi promuovendo un’opera a fini commerciali; ma come si può arrivare a pensarle, simili sciocchezze?

-Tornando alla mostra e alla figura del Verrocchio, cos’è che cambia sostanzialmente dopo questo evento dal tuo punto di vista?

R: Verrocchio ha avuto la fortuna di aver incrociato l’attenzione di colui che è a mio avviso uno dei più grandi studiosi dell’età moderna, cioè Wilhelm Bode, perché seppe sempre tenere assieme pittura e scultura, mentre le grandi personalità successive, da Berenson, a Longhi, a Zeri, non hanno in realtà tenuto nel debito conto Verrocchio scultore. In questa mostra De Marchi e io abbiamo fortemente voluto tenere uniti i due aspetti, secondo le rispettive competenze ma marciando in modo unitario, e credo che questo sia davvero il fatto determinante, il filo conduttore che ci consente di dire, a rischio di sembrare presuntuosi, che ciò non avveniva da centoquaranta anni, cioè dai tempi di Bode, per l’appunto.

-Ma non è che Bode poi abbia esaurito l’argomento, dal momento che Verrocchio ha avuto bisogno di questa esposizione interamente a lui dedicata, che altrimenti sarebbe stata inutile.

R: Giusto; abbiamo già detto che Bode ha realizzato circa la metà di quanto occorreva per valutare la figura del Verrocchio nella sua complessità, né, considerati i tempi, gli si poteva chiedere oltre, mentre chi è venuto dopo ha sottovalutato l’importanza dell’artista interessandosi pressoché completamente di Leonardo; ovviamente è stato ricordato il suo apprendistato presso Verrocchio, ma se leggiamo le biografie dedicate al maestro di Vinci ci rendiamo conto che non pochi leonardisti sono ben poco informati sulle novità che vengono dagli studi sui precedenti di Leonardo. Altra cosa che si deve notare circa le ricerche e gli scritti su Leonardo (parlo naturalmente di quelli che hanno rilievo scientifico) è che si parla di lui come esperto di pittura, di anatomia, di ingegneria, di architettura e via dicendo, e si trascura la scultura: ma Leonardo ha dedicato i giorni più intensi della sua vita a fare lo scultore, è ora di dirlo. E sai perché? Perché doveva e voleva essere come e meglio del suo maestro. Ci sarebbe dunque anche un discorso di carattere più propriamente esistenziale da affrontare, vale a dire quello del continuo confronto con la figura di un maestro così grande, e invece sono cose che si perdono di vista perché purtroppo alla fine siamo tutti vittime dello specialismo, quello stesso specialismo che porta a sottovalutare ad esempio, come accennavo prima, la tomba di Cosimo il Vecchio, perché non è propriamente scultura né propriamente architettura, è un po’ e un po’ …

Tomba di Cosimo il Vecchio, San Lorenzo

Verrocchio, insomma, è stato, storicamente parlando, la vittima di queste separazioni specialistiche, e paradossalmente si può dire che la sua universalità gli ha nuociuto più che a Leonardo.

-Credi allora che questa mostra rimetterà le cose a posto? E come pensi di doverla condurre questa battaglia, sia per quanto concerne Verrocchio che – e mi pare più difficile – per il riconoscimento a Leonardo della Madonna col Bambino?

R: No, per favore non chiamiamola battaglia, anche perché riguardo alla figura di Verrocchio posso essere del tutto soddisfatto di come ora viene recepita. Per la Madonna leonardesca ho in animo di fare una pubblicazione per dimostrare che non c’è millimetro quadrato di questa sorprendente terracotta che non abbia il suo riscontro leonardesco. è un’attribuzione che funziona da tutti i punti di vista, a cominciare dall’osservazione di quei dettagli che di solito si dicono ‘morelliani’, aggettivo che però io evito perché Morelli lo intendeva in modo assai particolare, riferendolo a coloro che lavoravano in modo ripetitivo, per cui con Leonardo non regge. Anzi, se c’è chi ha completamente frainteso Leonardo, quello secondo me è proprio Morelli, il quale, ad esempio, non ha affatto capito l’importanza di Bode, avendolo combattuto per tutta la vita, mentre Bode aveva già intuito chiaramente il ruolo di Verrocchio e da qui ricostruito, sia pure nel nocciolo, la giovinezza di Leonardo. Non dimentichiamoci che l’Annunciazione leonardesca degli Uffizi, il Ritratto di Ginevra de’ Benci, o la Madonna del garofano, che noi oggi consideriamo opere scontate …..

 -No aspetta scusami se t’interrompo ma vedo che nomini proprio dipinti le cui attribuzioni a Leonardo quanto meno per alcuni studiosi non sono affatto così scontate.

R: Veramente non mi risulta; quello che dici è stato vero fino al periodo tra le due guerre mondiali, quando queste opere non comparivano nella più parte delle biografie di Leonardo, perché erano contestate da tutto il partito dei morelliani, che per decenni fece la guerra a Bode; ma le cose poi sono cambiate irreversibilmente nella direzione odierna; ed è sintomatico sotto questo aspetto leggere Berenson che nel ’33-34 scrisse un articolo di importanza capitale sul pittore, facendo quello che oggi chiameremmo una sorta di coming out e affermando, cito a memoria, “ho cercato per tutta la vita di trovare una soluzione non verrocchiesca per queste Madonne ma ora devo riconoscere che sono di Verrocchio”: proprio come diceva Bode, nella sostanza.

-Quindi con la pubblicazione che dicevi pensi di ampliare le motivazioni con cui hai presentato qui a Palazzo Strozzi la terracotta ascrivendola a Leonardo?

R: Sì, perché sembra che siamo stati troppo ottimisti quando, non potendo presentare in mostra le decine di confronti possibili, abbiamo fatto eccessivo affidamento sui panneggi per mostrare quali riscontri stilistici si potevano operare per le vesti della Vergine, cosa che probabilmente per alcuni non è stata sufficiente. Per questo ora vorrei dimostrare che anche che i volti, i dettagli dell’anatomia e tutto quanto si possa configurare a livello di dettaglio tornano alla perfezione. E tuttavia, quando si parla di scultura, i dettagli sono necessari ma non sufficienti a giustificare un’attribuzione, perché interviene la genialità dell’invenzione, della progettualità, del possesso dello spazio, del rapporto con l’osservatore, e tutto questo corrisponde da ogni punto di vista alla ‘poetica’ di Leonardo (come si sarebbe detto un tempo).

-Una cosa che ti è stata rimproverata e che a qualcuno ha fatto un po’ sorridere è che hai detto che già dai tempi del liceo avevi capito che quella terracotta era opera di Leonardo. Forse hai esagerato …

R: è vero, questo mi è stato rimproverato, e allora cosa dovrei dire? Che mi pento? D’accordo, mi pento, ma solo perché gli studiosi debbono limitarsi a parlare degli oggetti delle proprie ricerche, dei propri studi e non di sé stessi; detto questo, è un fatto che i miei primi appunti relativi alla Madonna col Bambino datano al 1976, quando, con buona pace di chi può sorridere, avevo dodici anni.

-L’amico Riccardo Lattuada, che è uno studioso completo ma soprattutto esperto seicentista, nella intervista ad About Art oltre ad aver giudicato la vostra mostra come “esempio virtuoso”, ha detto che per maestria esecutiva ed evidenza di patina, le sculture del Verrocchio ed in particolare la ben nota Incredulità di San Tommaso di Orsanmichele anticipano Giambologna e addirittura Bernini; inoltre anche Gigetta Dalli Regoli fa riferimento a elementi protobarocchi nella scultura verrocchiesca; tu che ne pensi?

R: Intanto è significativo che queste notazioni vengano da uno studioso come Lattuada, esperto del barocco, perché la definizione di barocco ante litteram ricorre con una certa frequenza per la scultura di Verrocchio; però in qualche modo trovo tutto ciò anche curioso, visto che poi, negli studi sul Rinascimento, non si riconosce a Verrocchio il ruolo di pioniere della Maniera Moderna. Posso dire che mi trovo d’accordo con Lattuada alla condizione, ovvia, che anche lui assuma la definizione come convenzionale; e pare che l’opera più emblematica in questo senso possa considerarsi il modelletto del cenotafio Forteguerri a Pistoia.

Andrea del Verrocchio, Modelletto per il cenotafio del cardinale Niccolò Forteguerri nella Cattedrale di Pistoia

Qui Verrocchio si distingue anche dalle prove simili di Desiderio da Settignano, che in realizzazioni monumentali come la tomba Marsuppini e l’altare eucaristico in San Lorenzo si capisce perfettamente che procede per somme, per addizioni di marmi, mentre Verrocchio opera una sorta di moltiplicazione di effetti teatrali e plastici, con un’invenzione strepitosa che sembra davvero protobarocca negli effetti. è impressionante. Ma non ci si deve meravigliare di tanta maestria e tanta inventiva in un artista così geniale.

P d L    Firenze luglio 2019