di Francesco PETRUCCI
Questo scritto rielabora il saggio F. Petrucci, Maurizio Fagiolo dell’Arco: lo storico dell’arte e il collezionista. Il Museo del Barocco Romano, in Catalogo Maurizio Fagiolo dell’Arco. Il Fondo librario donato alla Biblioteca della Pontificia Università Gregoriana da Maria Beatrice Mirri, a cura di M. Viglione, Roma 2010, pp. xxv-xxxi
Maurizio Fagiolo dell’Arco (Roma 22 novembre 1939 – 11 maggio 2002) è stato per me un vero maestro e un amico sincero, tanto che se non lo avessi conosciuto sicuramente la mia vita professionale e culturale avrebbe avuto un altro corso. Il suo ricordo mi commuove sempre e mi sento eternamente debitore nei suoi confronti.
La bizzarra idea di donare in vita ad Ariccia la propria collezione di dipinti del XVII secolo, che per lui era materia di quotidiano confronto e approfondimento diretto, svuotando il suo studio a via del Babuino, si è dimostrata vincente, ben oltre le mie aspettative: “Vedrai – mi diceva –, poi verranno altri che decideranno di lasciare le proprie raccolte ad Ariccia, ne sono sicuro”. Io lo assecondai, ma, confesso, all’epoca mi sembrava un’utopia, un frutto della sua fervida immaginazione e di un’innata generosità. A distanza di qualche anno dalla sua prematura scomparsa le donazioni sono arrivate e si sono susseguite con ritmo e continuità sino ad oggi, tanto che la collezione di soli dipinti ad olio di Palazzo Chigi è passata dai circa 400 schedati nell’inventario del 1990, ai circa 620 attuali.
Ho conosciuto Maurizio nei primi mesi del 1989, subito dopo l’acquisto da parte del Comune di Ariccia del Palazzo Chigi, presentatomi da Marc Worsdale, fine storico dell’arte e studioso del Seicento berniniano scomparso prematuramente di AIDS nel 1995.
Worsdale, che vedeva nel Palazzo Chigi la sede più idonea per un centro di studi sul Barocco romano, avendo elaborato anche un programma di corsi specialistici divenuto parte integrante del progetto di finanziamento per la sua pubblica acquisizione, considerava Fagiolo particolarmente adatto a fornire suggerimenti e favorire contatti utili in tal senso. Avevano collaborato assieme alla gloriosa mostra dedicata al Bernini in occasione del tricentenario della morte, tenuta in Vaticano nel 1981, cui parteciparono anche Marcello Fagiolo e Valentino Martinelli.
Lo studioso inglese nutriva una stima profonda nei confronti di Maurizio, a suo avviso una delle poche personalità di superiore caratura con interessi specifici sul Barocco romano dotato di una non comune apertura mentale. Fu una premonizione determinante, sia per la mia vita che per la storia più recente della dimora chigiana.
All’epoca ero dirigente dell’Ufficio Tecnico Comunale di Ariccia, ma mi stavo occupando, tra l’altro, dell’inventario di tutti i beni mobili del Palazzo Chigi; oltre a chiedere a Maurizio consigli, lo misi al corrente di alcune scoperte che avevo avuto modo di fare in tale occasione, soprattutto con il supporto delle ricerche archivistiche che svolgevo sui documenti contabili e sugli inventari seicenteschi dell’archivio Chigi, in deposito presso la Biblioteca Apostolica Vaticana.
Maurizio mi incoraggiò a pubblicare i risultati di queste indagini preliminari, cosa che feci in un articolo apparso sul “Bollettino d’Arte” nel 1992 e poi in altri contributi ospitati nella stessa sede. I ritrovamenti e le nuove attribuzioni furono oggetto di confronti e scambi di opinione, con preziosi suggerimenti, data la mia formazione in storia dell’architettura. Maurizio, che vedeva la mia passione per l’arte, mi spinse a dare maggiore spazio a questi interessi, che riteneva meglio finalizzati rispetto alle mie reali attitudini e alla piena valorizzazione di Palazzo Chigi. “Lascia perdere le fognature e le strade e pensa ai quadri”, mi diceva spesso. Talora mi rimproverava bonariamente dicendo che scrivevo troppo “architettese”, stimolandomi ad un linguaggio più aderente alla materia, consigliandomi anche letture e approfondimenti specifici.
Quando tornava da Londra o da uno dei frequenti viaggi all’estero, aveva sempre qualche pensiero mirato, che poteva essere il catalogo di una mostra, la foto di un dipinto o una rara pubblicazione che sapeva potermi essere utile. Era un uomo molto generoso e disponibile ad aiutare qualsiasi studente o studioso ne avesse bisogno, pur essendo, come Zeri, refrattario agli ambienti accademici.
Se non ci vedevamo, comunque ci sentivamo tutti i giorni, spesso più volte nell’arco di poche ore, per scambi di idee, suggerimenti ed emozioni da condividere su opere d’arte e su ipotetiche attribuzioni.
Nell’ambito delle ricerche sui numerosi dipinti e arredi chigiani, avevo individuato un cospicuo nucleo di ritratti riferibili alla mano del pittore fiammingo Jacob Ferdinand Voet. Maurizio mi presentò così ad Oreste Ferrari – di cui sarei divenuto poi amico -, direttore con Calvesi della rivista “Storia dell’Arte”, per un articolo sul pittore che lesse e corresse, aiutandomi persino ad impaginare le immagini munito di strumenti all’avanguardia: forbici, colla e una vecchia fotocopiatrice (aveva un pessimo rapporto con il computer, scrivendo velocemente con una piccola macchina tradizionale). Lo studio venne pubblicato nel 1995. Lo stesso facemmo poco dopo per il ritrattista Giovanni Maria Morandi, anch’egli presente con molte opere nelle raccolte Chigi, in un articolo pubblicato su “Labyrinthos”. Attraverso tali prime indagini, sarei poi approdato agli studi monografici sulla ritrattistica barocca romana pubblicati anni dopo.
Quella della costruzione “architettonica” di un libro era una sua ossessione, ereditata dal padre, anch’egli architetto, il grande poeta romanesco Mario dell’Arco (1905-1996): una mania che mi ha trasmesso. Il libro deve comunicare i suoi contenuti attraverso l’impaginato e le immagini, essendo quindi fondamentale la loro disposizione all’interno del testo scritto, con cui devono costantemente dialogare e interagire. La pagina come sorta di micro-architettura, impostata secondo criteri di armonia, corrispondenze geometriche e soprattutto funzionalità, quale espressione visiva di contenuti.
Maurizio era un uomo molto colto, di una cultura a tutto campo, acquisita nello studio ma anche per la frequentazione della casa paterna, lui ancora bambino e adolescente, da parte di intellettuali come Pasolini, Trombadori, Gadda e tanti altri. Era dotato di un’intelligenza bruciante di velocissima elaborazione, ma anche di un raro senso organizzativo. Al suo fianco ho imparato a costruire una mostra e un libro, ordinare le opere, classificarle secondo criteri didattici, organizzare il mio lavoro e quello degli altri.
Era molto attento alla qualità delle immagini fotografiche, indispensabile per una efficace riproduzione delle opere nelle pubblicazioni; i fotocolor e le stampe in bianco e nero dovevano essere perfette. Mi presentò così Vito Rotondo, fondatore del noto laboratorio romano “Arte Fotografica”, che da allora si è occupato per molti anni delle campagne fotografiche di quasi tutte le nostre mostre e pubblicazioni.
Mi diceva spesso che non dovevo mai chiudermi, ma viaggiare e tenere contatti aperti con tutti gli studiosi, inviando estratti dei miei articoli e copie di quello che facevo. Sono stato con lui a Londra e a Parigi, ove mi ha introdotto al mondo del mercato internazionale dell’arte. Mi ha trasmesso insomma un metodo di lavoro, che è stato estremamente utile anche per la gestione del museo di cui mi occupo da tanti anni.
Il nostro fortunato sodalizio approdò nel 1998 nell’organizzazione della mostra L’Ariccia del Bernini, la prima di una lunga serie di eventi espositivi tenuti nel Palazzo Chigi, quando il cantiere era ancora aperto per i lavori di restauro in corso. Ritenevamo infatti fondamentale, assieme al fratello Marcello, consolidare con un grande evento il legame del Bernini con Ariccia, noto solo agli addetti ai lavori, anche alla luce di nuove ricerche documentarie, sia a livello urbanistico ed architettonico, che nel settore delle arti decorative.
Il comune interesse per Bernini – che ha correttamente “ri-chiamato” Giovan Lorenzo, invece della più comune e arbitraria dizione Gianlorenzo o Gian Lorenzo in uso negli studi – è stato il cemento del nostro sodalizio culturale e delle nostre affinità d’intenti. Lo stesso anno curammo assieme una speciale edizione dell’Infiorata di Genzano, paese di origine della sua famiglia ove risiedeva il padre, dedicata al grande artefice per il quadricentenario della nascita. Nell’ambito delle indagini in ambito berniniano, ricordo la emozionante riscoperta del celebre Busto del Salvatore, nascosto in pieno anonimato nel convento di San Sebastiano Fuori le Mura, da lui segnalata nella sua ultima fatica, il libro Berniniana, da me successivamente approfondita.
Il successo della mostra di Ariccia ci incoraggiò a continuare in quella direzione, nella convinzione che la piena promozione del palazzo, fino ad allora rimasto inaccessibile al pubblico e quindi poco noto anche agli addetti ai lavori, dovesse passare attraverso il potere comunicativo offerto dai mass-media. Gli eventi espositivi erano un efficace strumento di valorizzazione, ben superiore nel loro impatto rispetto alla semplice comunicazione dell’apertura al pubblico di un nuovo museo.
Inoltre, secondo Maurizio, gli eventi e le iniziative da attuare avrebbero dovuto essere finalizzate alla piena riscoperta del Barocco romano, uno dei momenti più fulgidi nella plurimillenaria storia di Roma, di cui Ariccia aveva tutte le caratteristiche per essere il volano, in considerazione, diceva sempre, “dell’immobilismo delle istituzioni della capitale e di un certo disinteresse anche nel campo degli studi”.
In quegli anni tramite Maurizio conobbi Federico Zeri, che andai a trovare più volte nella sua villa di Mentana e di cui conservo alcune belle lettere, ma strinsi anche una sincera e ad oggi immutata amicizia con Fabrizio Lemme, che mi invitò alla inaugurazione della mostra sulla sua collezione tenuta al Louvre nel 1998.
Con Maurizio ci sentivamo praticamente tutti i giorni e più volte, telefonicamente o incontrandoci nel suo studio al terzo piano di via del Babuino n. 127 – “Studio 600” riportava la targhetta in ottone sulla porta –, che era una vera fucina di idee nel campo dell’arte moderna e contemporanea, con la possibilità di fare sempre incontri e nuove conoscenze molto stimolanti. Qui Maurizio teneva un piccolo museo didattico con la sua collezione di dipinti del Seicento appesi alle pareti, tinteggiate color rosso pompeiano ad imitazione della “sala delle Belle” e della “Farmacia” di Palazzo Chigi, che mi incuriosivano molto e su cui discutevamo spesso, facendo esercizi di connoisseurship anche con le foto che mi mostrava. Nella saletta che ospitava la sua biblioteca e il suo archivio c’era un lungo tavolo pieno di fotografie, fogli, squadre, righe, matite colorate, pennarelli, fotocopie di articoli e libri, ove impostava con i suoi collaboratori più stretti (Beatrice Marconi, Flavia Matitti, Rossella Pantanella, Elena Gigli ed altri) progetti di studio, dal Barocco, al Futurismo, a De Chirico e Balla, alla Scuola romana del ‘900.
Fu così che in occasione dell’ultimazione dei lavori di restauro e adeguamento funzionale della residenza chigiana, realizzati con i fondi per il Grande Giubileo del 2000 e portati a compimento nell’autunno del 1999, organizzammo due eventi: l’esposizione delle opere della sua collezione sul Seicento romano e la prima mostra monografica dedicata a Giovan Battista Gaulli detto “il Baciccio”.
I forti legami del pittore genovese con Bernini e con casa Chigi fornivano i presupposti per una legittima localizzazione ad Ariccia dell’evento, per il quale coinvolgemmo i massimi studiosi sull’artista: dalle anziane Beatrice Canestro Chiovenda e Maria Vittoria Brugnoli, decane negli studi sull’artista, a Robert Enggass e Dieter Graf. I due eventi lanciarono Ariccia e fecero conoscere la residenza chigiana a livello nazionale ed internazionale, anche grazie all’eccellente lavoro svolto dall’ufficio stampa di Novella Mirri, sorella della moglie di Maurizio, Beatrice, che avrebbe da allora affiancato molte delle nostre iniziative espositive.
In uno dei giornali Ariccia era definita “Capitale del Barocco” e sullo stesso tono enfatico si espressero riviste di settore, quotidiani e mezzi televisivi, anche grazie ad interviste offerte dallo stesso Maurizio in virtù delle sue frequentazioni.
In quel tempo ebbi la favorevole opportunità di conoscere studiosi di chiara fama, accorsi ad Ariccia per l’amicizia con Maurizio, a partire naturalmente dal fratello e mio caro amico Marcello, quali Denis Mahon, Irving Lavin, Pierre Rosenberg, Alvar González Palacios, Arnauld Brejon de Lavergnée, Sthepháne Loire, antiquari come Ferdinando Peretti, Fabrizio Apolloni, Enzo Costantini, Franco e Alberto Di Castro, collezionisti come Fabrizio e Fiammetta Lemme, Luigi Koelliker, etc. Ad essi si aggregò subito Vittorio Sgarbi, che Fagiolo stimava come conoscitore e sincero amante dell’arte. Tutte personalità che sarebbero poi rimaste legate al palazzo e con cui conservavo – molti sono scomparsi – e ancora mantengo proficui rapporti di collaborazione.
Maurizio mi coinvolse subito dopo anche nella grande mostra monografica sul Bernini da lui curata con Maria Grazia Bernardini a Palazzo Venezia, affidandomi la redazione di numerose schede, mentre nel 2001 organizzammo ad Ariccia la mostra Baciccio un anno dopo, con un resoconto sulle nuove acquisizioni scientifiche relative al pittore emerse dopo l’evento del 1999 ed i restauri effettuati su opere conservate ad Ariccia.
Fu allora che Maurizio prese una decisione che avrebbe impresso un ulteriore impulso alla piena valorizzazione del Palazzo Chigi, quella di donare la sua collezione di dipinti e libri del Seicento romano (48 tele di Baciccio, Borgognone, Cortona, Cavalier d’Arpino, Andrea Pozzo, Giacinto Gimignani ed altri) per costituire il primo nucleo di un museo che la capitale non aveva, quello sul “Barocco romano”. A suo avviso tale gesto avrebbe potuto suscitare ulteriore interesse su Ariccia e nuove accessioni. Una geniale intuizione che è stata confermata dall’effettivo svolgimento dei fatti, con i lasciti liberali delle collezioni di Fabrizio e Fiammetta Lemme (2007), Oreste Ferrari (2008), Renato Laschena (2008) ed altre donazioni, compresi disegni e quadri donati in memoria di Maurizio da parte di Ferdinando Peretti sin dal 2002.
Il 23 aprile 2002 l’amministrazione comunale, in considerazione di quanto Maurizio aveva fatto per Ariccia, gli conferì la cittadinanza onoraria, durante una seduta speciale del Consiglio Comunale di fronte alla cittadinanza. Era molto amato da tutti i miei collaboratori per la sua semplicità, generosità ed affettuosità; lo chiamavano “il professore” e quando arrivava ad Ariccia (spesso di passaggio per Genzano, ove andava a trovare il padre e la madre nel cimitero sul lago di Nemi) veniva accolto come un principe che ritornava al suo feudo.
Mi voleva molto bene e aveva una stima sincera nei miei confronti, più volte espressa anche di fronte ad altri, considerandomi forse quasi come una sorta di figlio che non aveva avuto. Una volta nel suo studio alla presenza di estranei quando entrai sentenziò: “Ecco Petrucci. Abbiamo creato una specie di Moloch che ci distruggerà tutti!”. Fu allora che mi regalò il mio primo cellulare con un abbonamento “you and me”. Scrisse anche “Una lettera” per il piccolo catalogo della mostra di miei disegni e dipinti ospitata nel dicembre 2000 presso il Museo Civico di Albano, che ricambiai con una sua caricatura di apoteosi barocca pubblicata in quella sede.
Le dediche dei suoi libri erano molto affettuose e un po’ ironiche: “Francisco Chisio Dicatum M.F. ‘98”, in La festa barocca (1997), “Per FP amico e consigliere MF” in Pietro da Cortona e i cortoneschi (1° ediz. 1998) “A Francesco berniniano MF ariccino”, in L’immagine al potere. Vita di Giovan Lorenzo Bernini (2001), “Per Francesco Chigi con affetto Maurizio Petrucci 2001” in Pietro da Cortona e i cortoneschi (2001), “Per Francesco B. C. [che sta per Bernini Chigi] con amicizia antica MF 2002” poco prima della scomparsa in Berniniana. Novità sul regista del Barocco (2002).
L’ultima volta che incontrai Maurizio fu il pomeriggio di mercoledì 8 maggio 2002, tre giorni prima della scomparsa, avvenuta inaspettatamente la mattina del sabato seguente. Di quell’incontro ho un ricordo particolarmente vivo, anche a distanza ormai di molti anni. Gli parlai con entusiasmo di vari progetti che avevo in mente e che programmavo di fare assieme. Mi ascoltava silenzioso e alla fine disse: “Molto bello, ma tutto questo lo farai tu!”; “perché dici questo?” replicai; “perché io non ci sarò, sono progetti troppo a lungo termine”. Rimasi sorpreso da tale brusca risposta, che si riferiva certo alle sue condizioni di salute, cercando di sminuirne il peso. Quella volta mi accompagnò alla porta, cosa che non faceva quasi mai avendo l’abitudine di restare a lavorare nella sua stanza mentre uscivo (“tanto conosci la strada” diceva), chiamò l’ascensore e attese che arrivasse, mentre continuavamo a parlare. Mi salutò con un sorriso, era l’ultimo che lo vidi.
Due giorni dopo, la mattina di sabato, mentre uscivo dalla Biblioteca di Storia dell’Arte di Palazzo Venezia e attraversavo la piazza, ebbi una telefonata raggelante al cellulare dal mio collaboratore Franco Di Felice che disse singhiozzando: “una cosa terribile: il professore è morto!”. Ho sentito quel tragico avvenimento come un monito e nel contempo il segno di un’eredità che Maurizio mi lasciava, che avrei dovuto perseguire con tutte le forze. Un pesante senso di responsabilità ma anche di solitudine improvvisa. Come avrei potuto fare senza l’aiuto e i consigli del mio amico e maestro?
Dopo la sua scomparsa ho avuto modo di approfondire materie di studio che erano state argomento appassionato delle nostre ricerche e discussioni, pubblicando nel 2006 il volume Bernini pittore, un tema a lui particolarmente caro, nel 2007 il repertorio Pittura di Ritratto a Roma nel 600 e nel 2009 la monografia sul Baciccio, un nostro comune amore, condiviso anche da Worsdale, su cui aveva in animo di scrivere un libro. Mi sono così dedicato ai temi che avevamo pensato assieme, con costanza, fino ad oggi, con qualche lacuna, come la mostra sul Borgognone, da noi progettata sin dal 1999 ma che non sono riuscito a portare a compimento.
Oggi il Museo del Barocco è una realtà effettiva, che offre occasione di crescita a molti giovani e conferisce prestigio a Palazzo Chigi “in Ariccia”, come lui scriveva, con frequenti richieste di prestito di opere per mostre, richieste continue di documentazione, contatti sempre crescenti. Studiosi di fama tengono con cadenza bimestrale presentazioni di dipinti inediti del Barocco – grazie al sostegno del comune amico Ferdinando Peretti – mentre la dimora è sede di un’università americana che svolge corsi sulla cultura italiana, ospita concerti ed eventi culturali programmati regolarmente. È divenuto un punto di riferimento per tutto il territorio dei Castelli Romani e l’hinterland romano.
Molto di tutto questo di si deve all’intelligenza, al lavoro e alle intuizioni avute da Maurizio Fagiolo, al quale Ariccia ed in particolare il sottoscritto debbono eterna riconoscenza.