Francesco Tarquini per Marco Fioramanti e un’intervista all’artista marocchino Khalil el Ghrib

di Marco FIORAMANTI

A proposito del romanzo “BLU DI METILENE” di Francesco Tarquini ambientato ad Asilah (Marocco) e recensito ultimamente su aboutart (  https://www.aboutartonline.com/francesco-tarquini-blu-di-metilene-il-flusso-continuo-di-eventi-e-incontri-in-un-romanzo-di-autentica-modernita/ ), pubblichiamo una nota dell’autore su Marco Fioramanti (Roma 2016) insieme a una pagina di diario di Marco Fioramanti sulla vita di Asilah pubblicato in “Travel memories. The book”, A.G. Spalding&Bros, 520 Fifth Avenue, New York 2001.

Francesco Tarquini per Marco Fioramanti
Roma 2016

Di lui e della sua vita si potrebbe dire, come di un certo protagonista di Flaubert, Viaggiò. Conobbe la malinconia dei piroscafi, i freddi risvegli sotto una tenda, l’incanto dei paesaggi e delle rovine… Ritornò.

Ritornò. O invece ritorna, continua a ritornare, da un viaggio instancabilmente ripetuto?

Viaggiò lungo il perimetro di una stanza segreta: in cui si raccolgono senza depositarsi, ma esplodendo al contrario in forme cangianti, metamorfiche, gli oggetti e le tracce di percorsi che stanno nel tempo: dalla vita che è stata di Marco venuti a radicarsi in un presente assoluto e vitale.

Viaggiatore nei miti e nei riti, nei canti notturni degli sciamani come nel totemismo dei grattacieli, sembra di vederlo di nuovo, all’alba, un punto lontano ma riconoscibile su una spiaggia battuta dalle bianche creste dell’Atlantico, guardare il mare in piedi accanto alle canne da pesca piantate nella sabbia come antenne in attesa di segnali, mentre spia il disegnarsi lontano di una vela o il rotolare sulla riva di una bottiglia contenente un foglio di carta logoro, arrotolato.                                 Se fosse una torre, sarebbe una di quelle torri di vedetta che disseminano i loro resti lungo il litorale del Tirreno. Rifugi di uccelli marini, non più fortezze ma porte spalancate su un mare dal quale si è smesso di temere l’arrivo dei pirati.

Non sarebbe un gabbiano, se fosse un uccello. Sarebbe un piccione viaggiatore, che reca lontano messaggi e altri in cambio porta indietro. O forse col becco starebbe aggredendo ripetutamente un albero, con la caparbia tenacia del picchio rosso.

Se fosse un ponte su un fiume sarebbe Ponte Sisto, dove ci inviterebbe a calpestare, festosi, cento metri di tela dipinta.

Ma se fosse un fiume sarebbe uno di quei selvaggi fiumi d’America, che scorrono lenti e tranquilli lungo alte rive fitte d’alberi, e che d’un tratto accelerano il corso precipitando tra rocce ostili in un rauco ruggito di cascata.

Se fosse, semplicemente, un uomo, sarebbe, al pari di chi sta scrivendo queste righe, un essere sdraiato che sogna.

Francesco Tarquini, scrittore, traduttore

———————————————————–

ASILAH. IL RAMANDAN E L’ULTIMO TRAMONTO DEL MILLENNIO SULL’OCEANO

di Marco Fioramanti

Lunedì 27 dicembre 1999

L’aereo da Lisbona tocca terra a Casablanca alle 21:30. Temperatura 20°C. Taxi: 169 Boulevard de la Resistence. Saleh, l’autista, tornerà domani mattina per riportarmi all’aeroporto verso Tangeri. Cerco l’appartamento 24, quello di una coppia di cari amici di Primarosa e Francesco mi ospiteranno per la notte. La tastiera dei citofoni e la cassetta delle lettere sono fuori uso, prendo l’ascensore e vado a tentativi… terzo piano, esco sul ballatoio. È tutto buio. Mi avvicino a ogni porta, trovo l’interno 16. Salgo ancora poi, a tastoni, trovo la porta  24. Busso. Mi apre una cameriera e mi fa cenno di entrare. Da lontano, mi viene incontro una bella donna, sui 40, pelle scura. È Sumia, mi porta nel salone e mi presenta Khaled, suo marito, architetto. Parliamo un po’ dei miei progetti artistici, di architettura, poi tutti a cena: zuppa, salmone, dolci vari. Un giro in città e alle 3 a letto.

28 dicembre

Sveglia 6:30. Colazione con lo “sfuff”, il primo impatto con il Ramadan, una bomba a base di zucchero, cacao, frutta secca e mandorle tritate, da ingerire a secco insieme al caffè. Scendo, saluto Saleh il taxista, raggiungiamo l’aeroporto mentre il sole albeggia tra le palme. Un ATR 42 bielica in un’ora mi porta a Tangeri, ancora un taxi e a mezzogiorno sono “a casa”. La medina di Asilah mi si presenta completamente diversa. Sembrano passati solo pochi mesi da quell’agosto del ’95. Vado verso la casa-bottega del calzolaio, lo trovo appena alzato e già fumato di kif. Dice di riconoscermi ma i suoi occhi celesti un po’ velati mi attraversano da parte a parte. Proseguo per la stradina bianca e celeste fino alla grande porta. Qualcuno la sta aprendo. È Ahmed, sempre lo stesso, solo i capelli più corti coperti da un largo basco nero. Mi presenta la nuova galleria, lo spazio raddoppiato, i nuovi alloggi nella suite, il pavimento in cotto a spina di pesce è stato appena passato a cera. Anne-Judith, gallerista belga, appena mi vede mi abbraccia contenta. Ci spostiamo nella bellissima casa col patio interno. Noto che la grande foto col ritratto che Magritte le fece da bambina non è più nel salone. Bussano alla porta, è Hakim, l’artista incisore, in djellaba marrone, cappuccio sulla testa risvoltato sulla fronte. “Comment ça va? Labès? Labès! La bas alik! Ach barech…”, dopo i consueti saluti mi dice che ha trovato la casa che fa per me. Mi trovo davanti a una porta azzurra dalla sommità arrotondata, la casa è a tre livelli con la terrazza che dà sulle mura, dall’altra parte ha la vista sull’oceano. Ci accordiamo sul prezzo, hand-shake e chiavi in mano.

Foto 1 Vista di Asilah (foto Marco Fioramanti)

[…]

30 dicembre.

Giovedì, giornata di suk. Esco dalla medina, percorro il lungo viale di ristoranti e bar, attraverso la grande strada provinciale e m’incammino sulla terra battuta che sale la collina, mischiandomi alla gente. Dietro le bancarelle, centinaia di somarelli legati “giocano” tra loro. Compro un po’ di frutta, datteri, olive nere e verdi piccanti, spezie varie e menta per il tè.

31 dicembre.

Nel tardo pomeriggio vado con un’altra amica belga verso il molo, l’antica fortezza, per fissare l’ultimo tramonto del millennio sull’oceano. Voglio sovrapporre quell’immagine a quella dei danzatori gnaua, facendoli muovere virtualmente sulla scia del sole. Tornando verso casa incontro Abdeslam, quel ragazzo che, anni fa durante il festival, mi era sempre accanto e mi trovava qualunque cosa avessi bisogno. La pelle scura delle sue radici del Sahara, il suo fare semplice, la sua musica, il loud, tutto mi ritornava caro. Ora lui è presidente di un gruppo di musica tradizionale del nord del Marocco.

Foto 2 Ultimo tramonto del millennio sull’oceano, 31.12.1999  (foto Marco Fioramanti)

1° gennaio 2000

Ore 11:30. Incontro Abdeslam e prendiamo un pullman per Tangeri. Prima tappa, mercato del pesce. Un enorme stabilimento coperto assiepato di gente, pesci di tutte li generi e grandezze. Il mio amico decide per una specie di spigola allungata col muso da pesce spada. È bello veder contrattare i marocchini tra di loro, alla fine riesce a strappare la metà del prezzo iniziale. Quel pesce farà parte di una tagine con patate, stasera con gli amici. Chiede al pescivendolo della carta da giornale (!) con cui avvolge la spigolona (“è per conservarla al riparo dal caldo” mi dice). La passeggiata continua per le strette strade della khasbah. Sono quasi le cinque. Riprendiamo il pullman. A pochi chilometri da Asilah il sole si sta spegnendo sull’acqua, la radio trasmette la preghiera del Muezzin e, secondo il Ramadan, tutti possono ricominciare a mangiare. Nel caos della festa non facciamo caso al bigliettaio che annuncia la fermata, nessuno risponde e l’autista prosegue. Abdeslam grida qualcosa in arabo all’autista. Scendiamo ma quando il pullman è già lontano il mio amico sahariano si accorge di aver lasciato sul sedile il nostro amato pesce. Addio tagine… Rassegnato, mi recita il Corano: “il denaro viene il denaro va, il pesce viene il pesce va”. A casa ceniamo con la frutta e, dopo l’ultimo giro di kif gli propongo di acquistare la pipetta. La “sibzen” (da quando gli ho detto che in tedesco significa “quindici” ogni volta ci ridiamo su).

2 gennaio

Alle 11 busso allo studio di Khalil el Ghrib, l’artista che lavora sulla trasformazione organica della materia e dei colori. È il pittore più poetico che conosca. Si affaccia alla finestrella del primo piano e mi fa un cenno di saluto. Apre la porticina che accede subito alla rampa di gradini. In cima, sul pianerottolo si aprono due stanze, la prima, quella frontale è stracolma di “reperti” trovati lungo la strada. Nell’altra, quella della finestrella, un materasso coperto da un lenzuolo, qualche migliaio di disegni accatastati a blocchi, delle sculture, fatte con fogli impastati a calce, legati a croce da una striscia di stoffa rossa. Una grande tenda separa, m’immagino, l’angolo cottura e il bagno alla turca. Sul pavimento un secchio di ferro contiene dei carboni accesi, ma l’ambiente, privato del tutto dai raggi del sole, è completamente gelido. Resistiamo un’ora sfogliando i suoi lavori e ipotizzando progetti futuri, poi ci riversiamo lungo le mura della medina fino a sederci sul molo dove d’estate tutta la popolazione si riunisce per vedere il tramonto spegnersi dell’oceano. Alle nostre spalle un suggestivo cimitero dove è sepolta una sola persona. Le mura bianche proteggono un pavimento decorato da stele colorate a mosaico, simbolo die guerrieri-martiri caduti a difesa della città. Prima di salutarci Khalil mi invita, più tardi, a partecipare alla “soupe du Ramadan” a casa di sua madre. Alle 17:30 busso alla porta, viene ad aprirmi lui in djellaba marrone. Mi trovo in un’antica casa marocchina, sull’angolo della tavola apparecchiata mi aspettano: sua madre – fazzoletto sulla testa, vestaglia di lana celeste e mani dai polpastrelli disegnati con l’henna – sua sorella e altri parenti. Dopo la preghiera del Muezzin, la sorella di Khalil ci versa l’harira nelle ciotole, una zuppa a base di lenticchie, pezzi di carne, ceci e legumi vari, poi tè alla menta, il consueto sfuff e, per finire, marmellata di albicocche che ognuno si spalma su fette di pasta di pane arabo. Finita la cerimonia ringrazio con calore la vecchia madre e saluto Khalil e mi congedo.

[…]
4 gennaio

Dopo cena Abdeslam inonda di menta la cucina e mi spiega la ricetta per un perfetto tè alla menta. A bollitura avanzata, getta in un pentolino pieno d’acqua una manciata di tè verde, passati due minuti, ci scodella dentro quattro cucchiai di zucchero, prende un ciuffone di menta, lo sciacqua, lo scola bene, poi lo prende per i gambi, lo sbatte con forza sul dorso della mano (“nel caso ci fosse rimasto qualche vermetto”, commenta) e lo getta nell’infuso bollente.  D’inverno, mi dice, la menta è molto acquosa e per rafforzarne il sapore ci aggiunge una piantina di shiba, un rametto morbido simile alla mimosa, color verde argentato. Spento il fuoco, si versa tutto nei bicchieri aggiungendo in ognuno un po’ di menta. Mentre mi racconta dei suoi concerti ai matrimoni – che durano tre-quattro giorni ininterrottamente – sento un gran rumore di campane sotto casa. Sono i suonatori del Ramadan che verso le due di notte svegliano la popolazione per “l’ora di cena”.

Foto 3 (da sin.) Francesco Tarquini, Edmond El Maleh, un amico, Marco Fioramanti

5 gennaio

Mentre il sole appena sorto si affaccia basso all’orizzonte, il taxi prende il bivio a sinistra e tra gruppi di palme sparse nei giardini mi lascia davanti l’aeroporto. Do un’occhiata al terminale, lascio i bagagli al check-in e saluto calorosamente il mio amico del Sahara, dimenticandomi – ovviamente – di prendere la “sibzen”. Il solito airbus fino a Casablanca e, dopo un’ora di attesa, mi ritrovo nello stesso aereo di poco prima, stesso posto a sedere, stesso equipaggio. Preoccupato, chiedo alla hostess se non ci fosse stato un errore e non stavamo per caso tornando a Tangeri. “Tutto a posto!”, mi risponde sorridendo, l’aereo non è lo stesso, ma un modello analogo. Atterriamo a Lisbona alle due e mezza, un treno in quattro ore mi riporta a Celorico da Beira. Fa un freddo cane. Un taxi in cinque minuti mi porta a casa. Accendo entrambe le stufe a gas e m’infilo dentro al piumone con l’immagine del sole caldo e delle palme ancora vive nella testa.

(da Travel memories. The book, A.G. Spalding&Bros, 520 Fifth Avenue, New York, 2001)

———————————–

KHALIL EL GHRIB: POLVERI DEL TEMPO
(da SUITES MAROCAINES – La jeune création au Maroc)
(traduzione dal francese di Marco Fioramanti)

Foto 4 – Copertina libro “Suites marocaines”

Khalil El Ghrib non dipinge nel senso convenzionale del termine. Come indica il suo amico Edmond Amran El Maleh, accumula ogni tipo di materiale, “percorrendo le strade, preferibilmente la riva del mare, raccogliendo i detriti di case in rovina, vecchie case, registrate nella sua memoria, raccogliendo tutto ciò che l’oceano rifiuta, ammucchiando in sacchi questo materiale raccolto a casaccio”. Con questo materiale crea la propria sostanza per tenerla segreta. L’occhio e la mano dell’artista lasciano intatta l’emozione provata durante le peregrinazioni.

Foto 5 Khalil El Ghrib 

Dipinge mescolando calce e blu di metilene, utilizzando pezzi di vetro oltre a rame o licheni. Non dà alcun titolo alle sue fragili opere, né data o firma nel desiderio di appartenere al ciclo della vita e della morte.

 

Foto 6

Khalil El Ghrib ha un innato senso della materia. Permette all’interazione organica di materiali minerali, vegetali o animali di emergere, deviandoli dal loro primo utilizzo. “Crea così tele, licheni e concrezioni di materiali, un amalgama di detriti di ogni genere, fusione di calce, rame sottoposto a ossidazione che racchiude in scatole sotto vetro. C’è la volontà di far sì che l’opera da lui realizzata sia posta sotto il segno dell’effimero e attraverso questo sia chiamata a ritornare a queste macerie da cui e con le quali è emersa. L’opera di El Ghrib è affine al testo sacro: Polvere sei e in polvere tornerai.

Foto 7

Parole di Khalil

Altre culture?

Senza dubbio ci troviamo in un contesto in cui il principio di apertura alle altre culture è l’unico capace di ampliare il campo della percezione e della comprensione umana. È una fonte di ricchezza per la creatività mentre allenta le tensioni e la violenza causate dall’ignoranza e dal disprezzo per gli altri.

Il Marocco oggi?

Per la sua posizione geografica, il Marocco è sempre stato alla confluenza di diversi venti e correnti. Alcuni, portatori di una torbida oscurità, ostacolavano i suoi progetti, altri, più chiari e puri, erano all’unisono con le sue stesse energie e contribuivano alla realizzazione del suo potenziale, promuovendo lo slancio verso il futuro.

Le tue preoccupazioni?

Quando faccio un passo indietro, vedo in me una chiara tendenza a rendere il mio lavoro un essere vivente, in costante interazione con l’ambiente circostante, organicamente o attraverso il pensiero, o entrambi allo stesso tempo. Con tutto ciò che, nel corso dell’esistenza, li afferma o li disintegra…

Foto 8
Foto 9

Arte contemporanea?

Tra le esperienze che tengono vivo il mio interesse per l’evoluzione dell’arte contemporanea ci sono soprattutto quelle che si fondano su una “mitologia individuale”. Il lavoro di Harold Veermann, presentato in mostre a Kassel e Zurigo, è molto evocativo a questo proposito…

 Commenti raccolti da Mohamed Jibril 1999

Khalil El Ghrib, nato nel 1948 ad Asilah, vive a Tangeri ma lavora ad Asilah. Il suo è un viaggio di modestia e solitudine. Dietro di lui c’è un considerevole corpus di opere che espone raramente: nel 1990, al centro Hassan II per gli Incontri Internazionali di Asilah, nel 1994 alla Galleria Nazionale Bab Rouah di Rabat. Nel 1996 all’Università di Tolosa per un incontro sull’arte contemporanea marocchina, poi nel 1999 alla Galleria Aplanos di Asilah