di Giulio de MARTINO
Il WeGIL propone intuizioni e esperimenti, scoperte e passaggi, di un artista che ha attraversato molte stagioni dell’arte italiana del secondo Novecento.
Con l’ampia mostra su “Franco Angeli. Opere 1958-1988”, curata da Silvia Pegoraro, siamo trasportati nella Roma dei primi anni ’60 e degli anni ’70.
Un’antologica in sintonia con quel rilancio di Roma “Capitale dell’arte contemporanea” che abbiamo visto alla Nuvola di Fuksas (Arte in nuvola[1]), al Palaexpo (Mostre in mostra[2]) oltre che alla mostra alla Galleria Russo (Ritorno all’oltre[3]).
La sequenza multilinguistica di dipinti e manifesti, collage e disegni, di Franco Angeli (Roma 1935-1988) è utile per scrutare e ricostruire molte implicazioni della sua vita di artista.
Sincronia e diacronia procedono di pari passo. Influssi e collaborazioni si alternano ai cambiamenti e alle variazioni escogitate da Angeli per interagire con gli eventi culturali e sociali che gli turbinavano intorno. Come ha scritto Germano Celant, gli ultimi anni ’50 e i primi anni ’60, negli Stati Uniti e in Italia, produssero una drastica discontinuità nella storia dell’arte[4].
Angeli – testimone del fascismo e della guerra: ricordava il bombardamento a San Lorenzo del 19 luglio 1943 – fu affascinato da Alberto Burri, dai neri, dai materiali antiestetici (catrame, cretto, sacchi di juta). Pose in risonanza la sua vivacità di autodidatta dell’arte con le proposte di reinvenzione del compito dell’artista e di ridefinizione dei supporti di lavoro.
Angeli assimilò l’«arte informale», ma anche l’attenzione alla superficie, alla buccia della società, che proveniva da New York. Proiettò il suo sguardo sulla superficie di Roma. Vide i muri sacri e profani, le strade e i monumenti, le sculture e le iscrizioni. Scoprì il cortocircuito che si era creato fra le rovine della classicità e le icone della politica e del mercato.
Nel 1959 il suo nome apparve – insieme ad Agostino Bonalumi, Jasper Johns, Yves Klein, Robert Rauschenberg e Mimmo Rotella – sulla rivista «Azimuth», fondata da Piero Manzoni ed Enrico Castellani. Nei primi anni ’60 andò a sedersi ai tavolini del bar Rosati per incontrare Renato Guttuso, Pino Pascali, Jannis Kounellis, Fabio Mauri.
Nel 1960 – alla Galleria “la Salita” di Gian Tomaso Liverani a Roma – partecipò alla mostra collettiva “5 pittori. Roma 60: Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano, Uncini” a cura di Pierre Restany.
La Pop-Art si abbatté su questo gruppo di giovani talenti. L’Italia non era l’America, ma gli artisti di oltre oceano stimolarono quelli di Piazza del Popolo ad uscire dal «dolore», dallo spiazzamento, dall’azzeramento linguistico propri dell’estetica negativa del post-guerra italiano[5].
Angeli aveva percepito la distanza fra la memoria museale di Roma antica e barocca e la visualità della pubblicità e della propaganda novecentesche. Prelevò le icone del Fascismo, del Nazismo, del Comunismo – precorrendo Maurizio Cattelan – e le trasformò negli ideogrammi di un linguaggio enigmatico.
Nel 1963, le arti di “neoavanguardia” erano rimaste indecise fra la volontà di modernizzare i linguaggi artistici e l’empito critico nei confronti del «neocapitalismo» ruggente. I quadri più celebri di Franco Angeli sarebbero stati la dissacrazione delle icone del Novecento. Scrisse:
“I miei primi quadri sono la testimonianza del contatto quotidiano con la strada. Vidi i Ruderi, le Lapidi, simboli antichi e moderni come l’Aquila, la Svastica, la Falce e Martello, obelischi, statue, Lupe Romane sprigionare l’energia sufficiente per affrontare l’avventura pittorica”.
In queste righe leggiamo che la «strada», per Angeli, non rappresenta l’occasione per il racconto patetico della società di matrice neorealista, ma la spettacolarizzazione del quotidiano. Un simbolo può diventare un logo e dare origine a innocua pubblicità o può essere l’effige di una pericolosa propaganda.
Alla fine del decennio dei ‘60, l’arte avrebbe vissuto anni intensi e produttivi, ma anche contraddittori e difficili. Fu presa nella morsa dell’«impegno» e della «controcultura»: il gramscismo e il marxismo pensavano di gestire l’«eteronomia» dell’arte al servizio dell’ideologia politica. Una prospettiva che penalizzava il vitalismo e l’entusiasmo della ricerca di nuovi e liberi linguaggi[6].
A quel tempo, la frontiera delle arti visive transitava attraverso il gioco linguistico della figurazione e delle forme espositive. Angeli comprese che il contributo dell’artista era volto a consolidare il cambiamento culturale non ad irrigidirne le forme. Ci fu nuova incomprensione fra politica e arte[7].
Negli anni 1968-1970, Angeli si coinvolse nel fermento politico della Nuova Sinistra: abbiamo molte sue opere contro la Guerra del Vietnam con cortei di protesta e le immagini del Che Guevara. Non divenne, però, un artista ideologico perché cercò sempre di mantenere in equilibrio l’autonomia dell’arte e la partecipazione politica e separò l’icona artistica dallo stemma propagandistico.
Le arti visive non si sottraevano alla nuova iconosfera urbana, ma riprendevano le iscrizioni e i simboli presenti sui muri, sugli stendardi dei partiti o del dollaro americano, trasformandoli in segni e in immagini. E del segno, come dell’immagine, vi era libertà di interpretazione.
Se le forme e i simboli del passato sembravano riportarlo alla pittura e alle sue apparenze figurative, conservò la mediazione poetica fino alle opere degli anni Ottanta.
Franco Angeli era stato influenzato, alla fine degli anni ’50, dall’espressione materica e gestuale dell’arte informale per poi passare – come Giulio Turcato – al monocromo. Nei decenni successivi avrebbe mantenuto il principio che la tela dovesse essere una superficie di lavoro e non un «da-zi-bao» o un «poster». Per questo avrebbe adottato la «velatura» del soggetto a mezzo di garze, collant e tulle.
Fu uno sperimentatore della commistione tra video, fotografia ed arti visive come testimoniano: Schermi (1968), Viva il Primo Maggio (1968), New York (1969), Souvenir (1984). Quel bivio a cui si erano trovati i poeti “novissimi” e le “neoavanguardie” artistiche degli anni ’60 – tra percezione e fruizione, tra cultura e società – era ancora aperto a percorsi differenti.
Quel bivio a cui si erano trovati i poeti “novissimi” e le “neoavanguardie” artistiche degli anni ’60 – tra percezione e fruizione, tra cultura e società – era ancora aperto a percorsi differenti.
Il ritorno alla pittura e alla tela, negli anni ’80, Franco Angeli lo praticò nella forma del tratto rapido, della macchia di colore plastica e iconica. Da ultimo, con la figurazione geometrica. In mostra ci sono le sue incursioni nello stile «fauve» di Mario Schifano e nelle «silouhette» di Renato Mambor.
Nel 1980 pubblicò le sue litografie in “Porta Rossa”, un libro d’artista che raccoglieva il dialogo con i poeti della neoavanguardia italiana. Vi scrissero, con altri: Elio Pagliarani, Mario Diacono, Nanni Balestrini, Cesare Vivaldi, Francesco Serrao, Enzo Siciliano, Valerio Magrelli, Alfredo Giuliani, Germano Lombardi, Dario Bellezza, Patrizia Cavalli, Valentino Zeichen. Il confronto era stato avviato alla fine degli anni Cinquanta e mai chiuso, lo aveva scritto Maurizio Fagiolo Dell’Arco[1].
Nelle mutate condizioni tecnologiche – in cui le immagini erano ingabbiate dentro un manifesto o replicate in uno schermo – c’erano ancora lo spazio e il tempo per la sperimentazione.
Giulio de MARTINO Roma 11 Dicembre 2022
La mostra
FRANCO ANGELI
Opere 1958-1988
8 dicembre 2022 – 26 marzo 2023
WeGil, Largo Ascianghi, 5, 00153 Roma
a cura di Silvia Pegoraro
Un’idea del gallerista e collezionista Aldo Marchetti
Collaborazione dell’Archivio Franco Angeli di Roma
Regione Lazio
realizzata da LAZIOcrea
Catalogo Edizioni Grafiche Turato, con testi di Maria Angeli, Laura Cherubini e Silvia Pegoraro, e alcuni appunti di Franco Angeli.