di Giulio de MARTINO
Una selezione di oltre 200 fotografie, immagini astratte e minimaliste, colori e forme caratterizzati da forte intensità e da forti contrasti: è la «poesia visiva» che ha reso Franco Fontana (Modena, 1933) un fotografo universalmente conosciuto e apprezzato, un fotografo eccentrico negli anni del dominio del b/n e della fotografia di reportage e sociale.
Parliamo di “Franco Fontana. Retrospective” che si visita al Museo dell’Ara Pacis fino al 31 agosto 2025. Con Fontana – nella sua evoluzione dalla diapositiva, alla polaroid, all’immagine digitale – temi come gli skyline, i paesaggi naturali, l’architettura urbana, fino ai nudi, sono passati attraverso il filtro dell’astrazione geometrica e cromatica.
Qual è l’utilità della mostra antologica di un «grande fotografo» nell’epoca della circolazione vorticosa e planetaria dell’immagine digitale? Nel tempo della confusione dei generi fotografici, nel tempo della diffusione quotidiana di miliardi di immagini – autentiche o manipolate, ingenue o truffaldine – attraverso la tv, internet e i social media senza uno straccio di interpretazione e di significato che le accompagni?
Proprio di questo ha parlato Franco Fontana – sorridente e seduto sulla sedia a rotelle – nella conferenza stampa di presentazione della mostra romana. La «fotografia d’autore» rappresenta un’epoca dell’immagine fotografica che precede e che affianca – separata e parallela – l’esplosione dell’immaginario virtuale e massmediale del XX e del XXI secolo.
Nella società della convergenza digitale, quando «tutti sono fotografi» – con selfie e street photo – quando le immagini viaggiano alla velocità della luce, accompagnate da narrazioni seducenti e ingannevoli, c’è ancora lo spazio, il tempo, il gusto per una fotografia che dialoghi con la pittura?
Presentando l’opera di Franco Fontana, nel 1983, per la collana del Gruppo Editoriale Fabbri “I grandi fotografi”, un critico d’arte come Achille Bonito Oliva scrisse:
«Nella seconda metà degli anni ’70 l’arte in generale si apre ad un comportamento meno rigido e si dispone ad un nomadismo culturale ed eclettismo stilistico capaci di liberare l’artista da ogni da ogni coazione e costrizione sperimentale […]. Franco Fontana trova in questa nuova situazione culturale un suo agio creativo […] un’espressione soggettivamente abbandonata al piacere dell’immagine e del colore […]. Secondo gli impulsi di un nervo ottico che non registra ma astrae la realtà in un linguaggio assolutamente autonomo».
Le avanguardie e le neoavanguardie artistiche, le foto di architettura e di design, hanno preparato il terreno ad una fotografia cubista, astrattista, minimalista come quella di Fontana.
Riferendosi al nuovo scenario tecnologico, alle apparecchiature digitali e ai mezzi di trasmissione globale, Fontana ha osservato che: «la fotografia analogica e la fotografia digitale, alla fine sono molto simili». La differenza si pone, piuttosto, fra una fotografia commerciale e informativa e una foto d’arte. Ed è una differenza che la crea «il fotografo stesso».
Lui ha tra le mani la macchina fotografica. Si trova nel luogo e nel momento dello scatto, sceglie la pellicola, imposta il diaframma e il tempo di esposizione, inquadra il soggetto, lo astrae con l’obiettivo. In sintesi: mette il suo «sguardo» dentro l’immagine.
Lo «sguardo» del fotografo artista è uno sguardo disinteressato e puramente estetico. Colui che guarderà quella fotografia – quali che ne siano i supporti (carta, schermo, video, display) e quale che sarà il formato della stampa – vedrà, innanzitutto, lo «sguardo» di chi l’ha scattata. E l’assimilerà secondo l’intenzione di chi ha «ideato» quella immagine e non in base al linguaggio socializzato ed equivoco del sistema dell’informazione e della comunicazione.
Già negli anni ’50 Fontana fotografava cieli e muri, angoli e strade, pali e fili, fissandone soltanto la forma, il colore e la prospettiva. Nelle sue foto le forme architettoniche e le forme naturali (alberi, campi, mare, fiori) emergono con chiarezza nella luce e nel colore. Invece la persona diventa buia, diventa ombra. L’acqua, l’aria, i riflessi, le barriere, le coperture, non nascondono i soggetti, ma piuttosto li rivelano nella loro «presenza/assenza» all’interno del mondo.
Sono immagini che richiedono la «postproduzione» soltanto per saturare i colori e per sfruttare al meglio le potenzialità della pellicola. La realtà non viene alterata: l’immagine è selezionata attraverso l’obiettivo e viene elegantemente depurata dalla presunzione dei soggetti, dal loro protagonismo sociale, da tutto ciò che non è pura forma o puro colore. Il lavoro di astrazione e neutralizzazione delle figure umane e dei comportamenti psicologici e patetici viene armonizzato con le geometrie dell’inquadratura.
Fontana distingue fra la «foto richiesta» e la «foto scelta», che è poi il percorso che porta a separare il «fotoreporter» da quel fotografo che vuole entrare nel campo delle «arti visive». Il suo fotografare dialoga con la pittura e con l’«astrattismo», seleziona la forma e il colore all’interno della realtà.
Il reportage, la fotografia sociale e di cronaca, hanno limitato la libertà del fotografare in quanto l’hanno vincolato ad un evento, ad un soggetto specifico che andava illustrato e documentato per suscitare una reazione emotiva negli spettatori. La fotografia si era calata nel fuoco incandescente della cronaca.
Il b/n è stato, per decenni, il processo fotografico preferito da vari generi di fotografia in quanto consentiva, allo stesso tempo, di documentare e di simbolizzare il soggetto. Ma si è trattato pur sempre di una simulazione: solo il colore può dare conto della realtà.
È il problema antico «dell’autonomia o dell’eteronomia» dell’arte. Non si tratta di una distinzione tecnica e di qualità dell’immagine (dilettantesca/professionale, artistica/artigianale), bensì dell’intenzione e dell’ideazione, che presiedono alla pratica del fotografare.
Dice Fontana: io distinguo fra la «fotografia di committenza e la fotografia di ispirazione». E – aggiunge – pur avendo lavorato molto con le aziende, le mostre che faccio riguardano soprattutto le fotografie che scatto per me, liberamente. Nella foto «Still Life» e nel «fotogiornalismo» si lavora per altri, si fotografa all’interno di una finalità, di un lavoro, di una funzione. La «fotografia d’arte», invece, è «autonoma», scaturisce da un progetto che è puramente estetico e personale.
Giulio de MARTINO Roma 22 dicembre 2024
La mostra
Franco Fontana. Retrospective
A cura di Jean-Luc Monterosso
Museo dell’Ara Pacis, Via di Ripetta n. 180 – 00186 Roma
13 dicembre 2024 – 31 agosto 2025
Promotori: Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
Organizzazione: Civita Mostre e Musei, Zètema Progetto Cultura, FrancoFontanaStudio
Catalogo: Contrasto