di Nica FIORI
“D’una notte de luna / resta un brandello sopra a un capitello. / S’anima adesso, sboccia / co li stami d’argento la capoccia, / come un pampano un parmo / de coda allaccia er marmo. / Una vita d’un giorno / e poi la stessa luna / alla stessa ora gira lo sguardo intorno / e er gatto affoga ner chiaro de luna”.
Questa breve poesia di Mario dell’Arco (pseudonimo utilizzato dall’architetto Mario Fagiolo, 1905-1996), intitolata “Er gatto bianco”, ci appare come un fine omaggio a uno dei tanti gatti che popolavano e tuttora popolano le aree archeologiche e le ville di Roma, tanto da essere diventati un’istituzione cittadina.
In occasione della “Giornata del Gatto”, che dal 1990 si celebra il 17 febbraio, Il Parco archeologico del Colosseo ha annunciato i vincitori della prima edizione del concorso “I gatti del Parco? Eccoci qui!”, rivolto ai giovani di tutta Italia che si sono cimentati nell’ideazione di un’opera d’arte che avesse come soggetto questi piccoli felini, ritratti con uno o più monumenti del PArCo.
Per la categoria 4-10 anni ha vinto Greta Monici, 8 anni, di Gallarate (Varese), con l’opera dal titolo Le incredibili avventure del gatto Kivi a Roma; per il gruppo 11-15 anni Mattia Edoardo Pace, 14 anni, di Roma, con il disegno dal titolo Micius Publicius.
Al secondo posto per la categoria dei più piccoli si sono qualificati gli alunni della classe IV del plesso Marcellina, Istituto Comprensivo “Paolo Borsellino” di Santa Maria del Cedro (Cosenza), con il disegno dal titolo Anche noi siamo un’opera d’arte; per la fascia di età 11-15 anni, si è classificata Elisa Minasi, di 12 anni, di Roma, con il disegno in digital art Cats visiting.
Come ha dichiarato Alfonsina Russo, Direttore del Parco archeologico del Colosseo:
“Il progetto intende promuovere nei più giovani una particolare sensibilità e un senso civico che possano poi trasformarsi in consapevolezza sull’importanza di una convivenza armoniosa con la natura e con gli animali per il miglioramento della vita collettiva”.
La Colonia felina del PArCo è una realtà riconosciuta, censita e registrata dalla ASL; i gatti risiedono all’interno dell’area e sono accuditi dal personale che procura loro cibo e acqua e ne verifica lo stato di salute, in convenzione con un medico veterinario.
Anche se è facile pensare al gatto come a uno degli animali più caratteristici di Roma, in realtà è solo nel primo secolo a.C. che il primo esemplare vi arrivò, portato, si dice, da Pompeo. Si trattava di un gatto egiziano, anzi presumibilmente di una gatta incinta che ben presto si sgravò iniziando così a popolare la nostra città.
C’è invece chi attribuisce a Cleopatra il merito di aver fatto conoscere i gatti ai romani. La regina egiziana, infatti, amava circondarsi di questi felini dai movimenti sinuosi e dallo sguardo impenetrabile e perciò, quando venne a Roma al seguito di Giulio Cesare, portò con sé, oltre al figlio Cesarione, anche una coppia di gatti. Questi presero dimora insieme alla padrona negli “Horti” di Cesare, quei ricchi giardini al di là del Tevere (nell’attuale Monteverde) che furono poi lasciati in eredità al popolo, e da lì la loro prole, trovatasi perfettamente a proprio agio sotto il sole romano, partì alla conquista della metropoli.
In Egitto il gatto addomesticato era chiamato Miu ed era tenuto in grande considerazione. Al tempo della XXII dinastia (950-730 a.C.) era diventato sacro alla dea Bastet, una divinità tutelare raffigurata con la testa di gatta, che aveva un suo culto a Bubasti, dove ogni anno si svolgevano feste e numerosi fedeli sotterravano nel tempio della dea le mummie dei loro gatti, racchiuse in contenitori di bronzo dalla forma pure felina.
Anche Ra, il dio solare di Eliopoli, assumeva la forma di gatto con tanto di coltello per sconfiggere il serpente Apophis, simbolo delle forze demoniache, come si può vedere, tra le altre raffigurazioni, in un papiro del British Museum di Londra e a Roma nell’obelisco (risalente all’epoca di Domiziano) collocato sulla fontana dei Quattro Fiumi a piazza Navona, nell’ambito di una scena ispirata al Libro dei Morti egizio.
Ed è sempre una gatta egizia quella che troviamo raffigurata in una scultura in via della Gatta, tra piazza del Collegio Romano e via del Plebiscito. La gatta marmorea venne rinvenuta in una data imprecisata nei paraggi e collocata sul primo cornicione di Palazzo Grazioli. Un’antica leggenda vuole che laddove guarda la gatta, ci sia sepolto un tesoro.
La scultura è da mettere in relazione con la presenza nell’area dell’Iseo Campense, il più grande iseo-serapeo romano che si estendeva da est a ovest tra via di Sant’Ignazio e via del Gesù e da nord a sud tra via del Seminario e via Santo Stefano del Cacco, il cui nome è dovuto pure al rinvenimento di una scultura egizia di cinocefalo (ovvero del dio Anubi raffigurato con la testa di cane), che i romani scambiarono per un “macaco”, corrotto poi in “cacco”.
Ricordiamo che in quest’area sono stati trovati anche il piedone che dà il nome a via del Pie’ di marmo e la cosiddetta Madama Lucrezia sistemata in piazza San Marco, accanto all’ingresso del cortile di palazzo Venezia. Già compresa tra le statue parlanti, si tratta in realtà di un gigantesco busto di Iside riconoscibile per l’inconfondibile nodo della veste sul petto.
Altri importantissimi reperti sono la statua del Nilo conservata nei Musei Vaticani e tre obelischi di età romana (quelli di piazza della Rotonda, piazza della Minerva e piazza dei Cinquecento). Quest’iseo, sorto nel 43 a.C. e distrutto da Tiberio nel tentativo di porre al bando i culti orientali accusati di corrompere i costumi, venne rifatto da Caligola; incendiatosi nell’80 d.C., fu infine fatto ricostruire da Domiziano.
In età tardorepubblicana e imperiale il gatto è stato raffigurato nei mosaici decorativi di ricche dimore, come quello (I secolo d.C.) proveniente da Villa Adriana, ora nel Museo Pio Clementino del Vaticano, che lo raffigura mentre afferra una gallina, o in quello (I secolo a.C.), proveniente da Fidene e conservato nel Museo delle Terme, che ce lo mostra in agguato tra anatre e colombe. Sono tutti e due riferibili a un motivo di importazione alessandrina, il cui esemplare migliore è quello ritrovato nella Casa del Fauno a Pompei (II-I secolo a.C.): un raffinatissimo emblema che presenta alcune anatre in un contesto nilotico e al di sopra un gatto la cui zampa sborda sul limitare di una soglia, evidenziando proprio quel suo essere al limite tra una dimora e la vita all’aria aperta. Il gatto, in effetti, non ama le porte chiuse e ama porsi in posizione paritetica rispetto all’uomo, senza mai asservirsi a esso.
Proprio basandosi su questa peculiare caratteristica, l’archeologo Paolo Salone ha dedicato al gatto il libro “Sul limitare. Il gatto al tempo dei greci e dei romani” e ne ha parlato il 17 febbraio nella Curia Iulia (nel parco archeologico del Colosseo), dando anche informazioni sui cugini del gatto, tra cui Felis silvestris lybica, da cui discende l’attuale gatto domestico, sulla domesticazione, databile a 10.000 anni fa in Medio Oriente, sull’ammaestramento e sulla familiarizzazione di questo felino. Una familiarizzazione che va presa con molta cautela perché, come diceva il cardinale Richelieu, “Dio ha creato il gatto perché l’uomo possa accarezzare una tigre”. La verità, secondo l’antropologo Marcel Mauss, è che
“il gatto è il solo animale che è arrivato ad addomesticare l’uomo”.
Nello stesso periodo in cui appare a Roma nelle raffigurazioni musive, il gatto compare anche negli scritti di autori latini, quali Plinio il Vecchio e Seneca. Quest’ultimo lo inserisce in un apologo insieme ad altri animali domestici, segno che ormai anche nelle case comuni era consueta la sua presenza, grazie alla dimostrata abilità nel catturare i topi, compito in precedenza svolto per lo più dal furetto, dalla mangusta o dal cane. Il gatto non gode in genere di una buona stampa: il filosofo Polemone (I-II secolo d.C.) nel De fysiognomica, riferendosi a una felis familiaris, la definisce
“ostentatrix, sui admiratrix, amans commodi, alacris, avida, fraudulenta, speculatrix. Loco non homini nisi coacta necessitate adsuescens” (“che ama mostrarsi, ammiratrice di sé stessa, amante della comodità, attiva, avida, ingannatrice, calcolatrice. Abituata a non dare spazio all’uomo, se non costretta dalla necessità”).
Inizialmente chiamato “felis” o “feles” (nel significato forse di adulatore, dal greco ailouros, o anche di ingannatore, dal latino fallere), è solo intorno al IV secolo d.C. che prevale il nome “catta” e più tardi “cattus” (guardingo, astuto) di derivazione nordica. Nel primo vocabolario della Crusca il gatto è solo “gatta” e così è rimasto in tanti proverbi (ad esempio: “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”).
Nelle favole di Gian Francesco Straparola e di Giambattista Basile si parla di una Gatta con gli Stivali, anche se poi Perrault e i fratelli Grimm hanno reso celebre la favola con il nome al maschile. Un curioso riferimento a questo tipo di gatto/a potrebbe essere quello raffigurato nel pavimento musivo della cattedrale di Otranto (XII secolo d.C.).
Nel Medioevo, pur essendo apprezzato perché combatteva i topi, il gatto è stato demonizzato. San Domenico lo riteneva il travestimento del diavolo e molti felini venivano bruciati vivi, insieme alle streghe delle quali erano ritenuti complici. E, come scrivono Alfredo Cattabiani e Marina Cepeda Fuentes nel loro “Bestiario di Roma”:
“Se una fanciulla, persa la verginità, confessava che nel suo letto era entrato un gatto, per tutti i felini della zona era la condanna a morte”.
Il gatto ricompare nell’arte a Roma in epoca rinascimentale con un simbolismo ambiguo, non sempre decifrabile. Nell’affresco con l’Ultima cena di Cosimo Rosselli nella Cappella Sistina, vi appare sul pavimento, di fronte a un cagnolino, mentre il Pinturicchio l’ha posto davanti a una balaustra, mentre osserva la Vergine e santa Elisabetta nella Visitazione, nella Sala dei Santi dell’Appartamento Borgia.
Nella chiesa di Santa Maria in Aracoeli il felino è stato raffigurato nella Madonna della gatta, copia secentesca di un celebre dipinto di Giulio Romano conservato nel Museo di Capodimonte a Napoli, e Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, l’ha dipinto nell’Annunciazione, conservata nella pinacoteca Vaticana.
In realtà, se visitiamo i musei di molte altre città, ci rendiamo conto che il gatto è presente in tante raffigurazioni dell’Annunciazione, tra cui ricordiamo il dipinto di Lorenzo Lotto del Museo civico di Recanati, dove appare spaventato dall’improvviso arrivo dell’Angelo,
l’Annunciazione di Alessandro Vitali (Galleria Nazionale delle Marche), l’Annunciazione marmorea di Andrea Sansovino nella basilica della Santa Casa di Loreto, come pure in scene inerenti alla nascita della Vergine o nella Institutio Virginis di diversi artisti.
Potrebbe esserci un nesso tra questo animale e la sua partecipazione a un evento divino come quello di una nascita miracolosa. Un nesso che la studiosa Concetta Masseria ha evidenziato nella conferenza “L’insospettabile testimone di un evento straordinario. Forme di comunicazione per dettagli”, che si è tenuta sempre nella Curia Iulia il 17 febbraio. Il gatto potrebbe essere la moderna trasformazione della donnola, il feroce mustelide nel quale sarebbe stata trasformata dalla dea Era la giovane Galinzia, presente al parto di Alcmena, la madre di Eracle, che lo aveva concepito da Zeus, in una delle tante trasgressioni del dio. Ma questa è un’altra storia …
Tornando ai gatti reali che popolano la città, visto che in Egitto esiste il cosiddetto “gatto delle Piramidi”, discendente diretto dei gatti della dea Bastet, anche noi dovremmo forse coniare un nome altrettanto suggestivo per il nostro amico felino, come “gatto dei Fori”, “gatto del Colosseo” o qualcosa di simile.
Ovviamente il micio nostrano non è di razza pura e l’aspetto è perciò estremamente vario: dal tigrato allo zebrato al pezzato. Non mancano esemplari dal mantello completamente nero, bianco o fulvo, come quello di “Romeo, er mejo der Colosseo”, di cui si innamora la candida Duchessa nel celebre film a cartoni animati “Gli Aristogatti”.
Anche se i ruderi sono l’habitat più congeniale dei gatti romani, possiamo trovarli un po’ dappertutto, purché, s’intende, nei paraggi ci sia da mangiare a sufficienza. E, di notte, può capitare di sentire a lungo i miagolii dei gatti che si rincorrono nel periodo degli amori, che proverbialmente è il mese di gennaio, come ricorda il detto romanesco: “Ogni gattaro cià er su gennaro”. Nel passato spesso si univano a mendicanti, zingari e poveri commercianti di strada; da ciò deriverebbe il detto “Er micio segue er gricio”. Gricio era detto infatti il venditore ambulante di generi alimentari, proveniente di solito dalla Valtellina, regione vicina al cantone dei Grigioni.
Senz’altro più curioso è l’aneddoto all’origine del modo di dire “non c’è trippa per gatti”, che si usa quando non si vogliono soddisfare gli appetiti o i capricci di qualcuno. Sembra che la frase sia stata pronunciata per la prima volta dal sindaco Ernesto Nathan. Si racconta infatti che, nell’esaminare uno schema di bilancio, egli si fosse stupito per la previsione di uno stanziamento per acquistare la trippa per i felini, che venivano mantenuti a spese del Comune per dare la caccia ai topi. Lo stupore era, a suo modo di vedere, giustificato: o il gatto era bravo nel dare la caccia ai topi, e quindi non aveva bisogno della trippa, o non era capace di cacciarli e quindi non la meritava.
Ai giorni d’oggi i gatti di Roma, anche se molto espansivi, rappresentano un simbolo di libertà. Non è raro vederli acciambellati su resti di colonne, di capitelli e di architravi o mentre passeggiano pigramente, orgogliosi della loro libertà e indifferenti alla grandezza del passato e alla mediocrità del presente: ci si rende allora conto che a essi piace enormemente la loro condizione di randagi e non la cambierebbero affatto con quella dei vari persiani, siamesi, birmani, che godono degli agi delle case cittadine, ma non di altrettanta libertà.
Più di una volta il carattere mite dei romani familiarizza per un momento con qualche micione dall’aria indolente e ricerca, dando una carezza o una grattatina sulla testa, una dimostrazione di “amicizia” o di fraterna comprensione di cui sente il bisogno. Quando poi l’attrazione per questi felini diventa vero amore, allora si può diventare “gattari”. Una “gattara” a suo tempo molto amata dai gatti famelici del Pantheon o di Largo Argentina è stata Anna Magnani, una vera “Mamma Roma” che si prodigava per essi portandogli da mangiare e che negli ultimi anni di vita era solita ospitarne moltissimi nella sua casa.
Nica FIORI Roma 19 Febbraio 2023