di Massimo PULINI
Massimo Pulini, storico dell’arte conosciuto a livello internzionale, oltre che artista, scrittore e docente dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, da tempo collabora con About Art; questo saggio inaugura una riflessione da tempo intrapresa su Gian Giacomo Sementi (vedi nota 1)
Frammenti di una monografia: parte prima[1]
Le metamorfosi di Gian Giacomo Sementi
tra indipendenza e servizio, tra Caravaggio e Reni.
Fino a poco tempo fa pensavo a Gian Giacomo Sementi (Bologna 1583 – Roma 1636)[2], come a un allievo servile di Guido Reni,
non molto più di un esecutore di comandi che aveva lasciato di sé, fuori dal calibrato progetto formale del maestro, giusto qualche scheggiatura di panneggio e un certo modo di marcare il disegno delle cose, che si risolveva in un trucco delle fisionomie o delle ricciute chiome degli angeli.
Esigui elementi di individualità, sufficienti a far scorgere la sua mano in molte opere altrimenti classificate ‘di bottega’, ma inadeguati alla costruzione di un pensiero autonomo, che a pieno titolo si potesse dire creativo. Anche aldilà del lavoro di copista, che Guido imponeva ai collaboratori come fosse una prova di fede, le poche opere finora conosciute di Sementi non mostravano un sostanziale scarto dai modi della più grande azienda pittorica dell’epoca, se non per difetto di sublimazione o per un’umorale espressività che tende a illustrare i suoi racconti. Cipigli accentuati, bocche urlanti o sorrisetti di puttini, come in un fumetto anzitempo, vanno spesso a sottolineare il tono della sua narrazione. Solo una dozzina di anni fa, imbattendomi in una pala d’altare conservata a Medicina, nella campagna bolognese, la mia percezione in tono ridotto e gregario della pittura di Gian Giacomo ha invertito tendenza, raggiungendo risposte inaspettate e sfiorando anche qualche affascinante mistero, nel progetto di ricostruzione del suo tragitto stilistico.
Questo Transito di San Giuseppe[3] (foto 1), struggente nel sentimento e lucido nell’idea scenica, aveva avuto diverse e prestigiose attribuzioni: da Giacomo Cavedoni a Carlo Bonone e l’ultimo nome avanzato era quello di Emilio Savonanzi che, a tutt’oggi, resta una delle ‘primule rosse’ degli studi sul Seicento emiliano, imprendibile al punto da potergli immaginare qualsiasi volto. Nel dipinto di Medicina la composizione fa apparire le figure dall’ombra, attraverso un chiaroscuro che lascia avvolti i volumi torniti dei corpi, mentre esalta la nitida sfaccettatura dei tessuti, quel poliedro di vesti nel quale si gioca la decisa ed essenziale partitura cromatica dell’immagine.
Tutto è soppesato per cadenze di linee, di gesti e per contrappunto di forme e volumi. Il vecchio malato nel momento del trapasso è assistito dalla Vergine inginocchiata e viene rassicurato e abbracciato da Cristo, quasi lo stesse sollevando dal giaciglio per un ultimo pasto. Una scelta iconografica semplice, da moderna camera d’ospedale, ma risolta genialmente, in modo da evitare l’ingombro orizzontale del letto e formando, sul primo piano, il crocchio compatto delle tre figure principali, quasi iscrivendolo in un ideale cerchio. Ai margini di questo si affacciano i due angeli servitori e più in alto sovrasta l’altra bellissima soluzione del quadro: lo spicchio di finestra scoperto dal tendaggio con l’apertura verso un cielo terso che attende.
Questo stile dalla vocazione geometrica, fatto di forme solide e colori netti,
con una stesura pittorica estremamente compatta e polarizzata sulle scale tonali, si sposa nell’accorato appello agli affetti, al dialogo di sguardi e alle espressioni del dolore. Tutte componenti che non si ritrovano nelle rare e disomogenee pitture ricondotte al Savonanzi, invece sono presenti e nitide nelle prime opere documentate del Sementi. Lo ha ben intuito Massimo Francucci che in questi anni ha pubblicato alcuni importanti interventi dedicati all’attività artistica di Gian Giacomo, facendo del Transito di San Giuseppe un fulcro di questa nuova stagione di studi. Per la verità, già nel lontano articolo di Armanda Pellicciari[4], era presente una prima ricostruzione di opere documentate dalle fonti, che permettevano di farsi un’idea non puramente gregaria di Sementi.
L’intenso Martirio di Sant’Eugenia (foto 2) e quello di Santa Caterina (foto 3), entrambi della Pinacoteca Nazionale di Bologna e collocati da Brogi tra il 1612 e il 1614[5], parlano in effetti lo stesso linguaggio estetico del dipinto di Medicina, che tuttavia io credo sia di poco precedente. Anche in quelle opere i panni scendono in pieghe pesanti e levigate; le membra sono squadrate e le figure portano una intensità sentimentale che non si sofferma sulla realtà ottica, ma punta direttamente a rendere concreto e solido un pensiero.
Queste manifestazioni non possono venir ridotte a una mera osservanza dei precetti reniani e la loro sorgente va cercata in altre culture visive. Sembrano infatti in stretto dialogo con le ultime struggenti opere di Bartolomeo Schedoni (Foto 4), quasi astratte nel loro sogno geometrico e nella festa di colori che dispiegano. Certi caratteri del giovane Sementi rimandano anche al più felice momento creativo di Giacomo Cavedoni (Foto 5), quello che si colloca tra il 1610 e il 1615, quando il pittore di Sassuolo ancora incarna la migliore promessa di continuità e di riscatto tra quelle uscite della lezione dei Carracci. Prima dell’irruzione di Guercino e prima della rovinosa caduta dai ponteggi di San Salvatore[6], che ridusse le sue forze e i suoi pensieri, il Cavedoni ebbe modo di tracciare una energica e personalissima diramazione, sensibilmente deviata dall’alveo che stava imboccando la pittura felsinea.
Quella sorta di naturalismo sentimentale coniato da Ludovico Carracci, nello scontrarsi con la prima entusiastica eco del caravaggismo, produsse in alcuni artisti emiliani una irripetibile ibridazione che ebbe intensa e purtroppo breve fioritura, pur facendo in tempo a segnare un artista in formazione che, di quell’intarsio di chiaroscuri, intuì subito la forza anche se, forse, non si sentì all’altezza di sostenerla da solo in un territorio già votato all’armonia tonale e all’edulcorazione.
È perfino stata scambiata per opera dello stesso Caravaggio un affascinante dipinto pubblicato da Francucci come lavoro precoce del Sementi e che anche io da tempo ritenevo della prima maniera di Gian Giacomo, quel Cristo che risana gli infermi (Firenze, collezione privata) (foto 6) incredibilmente attribuito da Maurizio Marini al Merisi nel 1987[7] e da Benedict Nicolson a un anonimo caravaggesco napoletano[8]. Forse si dovrebbe parlare di pseudocaravaggismo, tanto è smerigliata e appianata la realtà contenuta, così come i gesti nobili e la pensosa classicità dei volti marcano introspezioni lontane dall’ottica lenticolare dei seguaci reali del Merisi.
Eppure credo che Gian Giacomo, nel suo primo soggiorno romano[9], si sia formato su ideali modelli del lombardo, come potrebbe attestare una singolare traduzione in tinte piatte della Cattura di Cristo (foto 7), già conservata a New York, presso la Lawrence Steigrad Fine Art[10]. Impressiona la distanza dall’originale al punto che non è possibile rubricarla nella categoria delle copie, tanto risulta sottoposta a un filtro stilistico indirizzato verso altre rotte espressive.
Dopo questa eloquente cover, eseguita al pari di uno standard musicale arrangiato da un coraggioso interprete, presento quelli che ritengo i due apici del dimenticato esordio di Gian Giacomo.
Ilprimo è un’opera acquisita dalla collezione Koelliker di Milano (anch’essa un tempo assegnata a Savonanzi e pubblicata da chi scrive di recente con un riferimento al Sementi[11]). Si tratta di una Negazione di San Pietro (foto 8), che per soggetto, taglio e composizione fraseggia la ‘manfrediana methodus’ delle osterie romane, ma questo apparente caravaggismo parla una lingua propria nella pennellata e nelle tinte, mentre adotta lo sguardo asciutto e raziocinante di un pittore nordico, giungendo quasi a un purismo formale che potrebbe dirsi neo quattrocentesco, se non fosse abitato da corpi moderni.
Esiti simili li aveva raggiunti, pur seguendo altre strade, anche Andrea Lilio (Foto 9) e non va escluso che Gian Giacomo abbia conosciuto e apprezzato l’Anconitano, che a Roma era stanziale.
Nella Negazione di San Pietro di Sementi il volto in luce del santo, al centro, ha l’effetto di uno stiacciato marmoreo, quasi fosse lisciato con raschietti da scultore e rifinito con tela abrasiva. Fino ad una certa soglia le superfici si presentano compatte, così anche la barba diventa un blocco unico e i capelli si radunano a ciocche nella stessa risoluzione dei bassorilievi riminesi di Agostino di Duccio. Il pennello ha disposto appezzamenti di colore e forme numeriche, incastri di pietre dure appena smussate agli angoli, il tutto è sospeso nel tempo, nel sonno dei panni e dei soldati, ma desta è l’immanenza compositiva e l’espressione degli animi.
Una seconda vetta giovanile viene toccata da un ulteriore Transito di San Giuseppe (foto 10) assegnato di recente a Sementi[12], nonostante sia passato in asta come opera del caravaggesco Bartolomeo Cavarozzi. La scena è più drammatica e sembra fissata in un istante successivo, rispetto al quadro di Medicina: il decesso è già avvenuto e il Cristo depone pietosamente il corpo del padre terreno nel letto, mentre la Madre rivolge uno sguardo perso all’osservatore. Il tutto è sostenuto da panneggi inamidati che lasciano quasi intuire l’uso di statuette vestite di carta.
Un giorno si dovrà scrivere il tracciato della più rilevante contraddizione formale che ha percorso l’Europa pittorica nei primi tre decenni del Seicento, spinta da pulsioni opposte che misero insieme verità e sintesi, da una parte il più acuto naturalismo ottico e dall’altra una idealizzazione che portava a levigare tutte le forme, in direzione astratta.
Per gradi e temperature molto diverse, da Bartolomeo Schedoni ad Andrea Lilio, da Georges De La Tour a Cecco del Caravaggio, da Matthias Stomer a Francisco Zurbaran, da Leonello Spada (Foto 11) a Giuseppe Puglia si fronteggiano solo alcuni degli innumerevoli tentativi di ‘quadrare il cerchio della visione’, di versare in un unico crogiolo sensualità e logica, geometria e realtà, acutezza e sobrietà.
Questo sembra dirci anche l’incipit di Gian Giacomo Sementi, ma viene allora legittimo chiedersi: come mai un artista che intorno ai trent’anni, alla metà del secondo decennio del secolo, raggiunse un così alto livello di personalità e di qualità espressiva, finì col votarsi anima e corpo a inseguire l’ombra di Guido Reni?
Prima di elaborare congetture e avanzare risposte è bene comprendere il contesto nel quale si dovettero svolgere i fatti.
Sul finire del Cinquecento, il primo maestro di Sementi, come tutte le fonti ricordano, è il fiammingo Denis Calvaert, lo stesso che aveva avviato alla pittura anche Reni, anzi non va escluso che Gian Giacomo e Guido (separati da circa sette anni), si fossero conosciuti proprio nella bottega del naturalizzato bolognese. Di lì a poco, a Seicento appena aperto, Reni visse a Roma la sua fugace stagione naturalistica, sospesa tra Annibale e Caravaggio, lasciando alcune opere di diamantina bellezza, come la Crocifissione di San Pietro (Roma, Pinacoteca Vaticana) del 1604-5 o i Santi Pietro e Paolo di Brera, che è del 1606-7. Non sappiamo se Sementi fosse già accanto a lui, come le sue nuove opere lascerebbero intendere, di certo doveva esserlo nel 1609, quando Guido, astro nascente della pittura italiana, ricevette commissioni di vasta portata che lo spinsero a formare un cantiere di collaboratori. Reni, per far fronte agli affreschi di San Gregorio Magno, si rivolse ai conterranei chiamando in aiuto anche artisti già orientati a stili diversi.
Cavedoni era tra questi e anche Lanfranco lavorava in contemporanea nella stessa decorazione, così mi sembra logico vedere in quella koinè di ‘emiliani in trasferta’ il fertile humus nel quale Gian Giacomo coltivò i suoi propositi migliori. Ponteggi e strade, case e osterie, dovevano offrire occasioni a confronti esaltanti e diedero senza meno, al Sementi ventisettenne, un lievito di forza irripetibile.
Con Giacomo Cavedoni, Giovanni Lanfranco, Lucio Massari, Lionello Spada e soprattutto con Guido Reni avrà discusso sui precetti della pittura morale dei Carracci e sul teatro ferale del Merisi; di come superare il manierismo eclettico dell’una e le lusinghe veristiche dell’altro. Per qualche tempo, con la sua pittura, resterà in mezzo a quelle posizioni che chiamavano verso angoli differenti, forse tra tutti si sentiva più vicino al Cavedoni o al Massari, prima di venir risucchiato dalla forza centripeta di Guido.
Possiamo solo immaginare cosa poteva essere il carisma di Reni sul finire del primo decennio del secolo quando, in stato di grazia, dipingeva la cappella del Quirinale; quando studiava e costruiva la perfetta macchina scenica della Strage degli innocenti (per San Domenico a Bologna, ora in Pinacoteca Nazionale); quando mieteva successi e ammirazioni incondizionate che ne esaltarono il volo verso l’assoluta sublimazione delle forme e la distillazione dei concetti.
Negli anni in cui la prua del vascello reniano, dopo aver doppiato rapidamente la notte caravaggesca, faceva rotta a ritroso verso Raffaello, Sementi era a bordo, forse con un ruolo che gli offriva qualche responsabilità, e dovette veder dipingere opere impressionanti come il Davide che uccide Golia della marsigliese Fondazione Rau o il Lot e le figlie di Londra.
L’ardua scommessa di riuscire a far proprio quel mare che stava tra le due coste, dovette illudere per un po’ Gian Giacomo, che riuscì a produrre in tal frangente le cifre maiuscole della sua carriera, prima del destino d’ombra e di secondo piano che lo attendeva.
La Santa Caterina in attesa del martirio (Bologna Pinacoteca Nazionale) (foto 3), la copia ridotta e sintetizzata della Crocefissione di San Pietro (foto 12), che qui riferisco a Sementi[13], e la Strage di sant’Orsola e delle Vergini (Bologna, San Martino) (foto 13) sono già il primo scalo nell’isola di Reni, con ancora la forza di mettere carichi propri, ma non senza la velata consapevolezza di rinuncia a una parte di sé. Per qualche tempo rimarrà in Sementi un gesto ampio, un comporre solido e franco, ma chi da amico diverrà sempre più un capo bottega, non tarderà molto a chiedere ai suoi stipendiati di adeguarsi alle silhouette allungate e frigide che andava brevettando.
Anche quando Gian Giacomo scioglierà il contratto con Guido Reni, tra il 1624 e il 1626, otterrà lavoro a Roma presso il cardinale e principe Maurizio di Savoia, proprio in virtù di quella provenienza dalla premiata ditta bolognese. Continueranno anche altri committenti illustri a chiedergli opere di classicismo illustrato e aggiornato al nuovo cambio di gusto.
Ancora al suo periodo giovanile e aulico vorrei però ricondurre il bellissimo San Matteo e l’angelo della chiesa romana di Santa Maria della Concezione (foto 14), parte di una rilevante commissione condivisa con Massari e Spada. Un dipinto già costruito con una misura e uno spesso calibro che è debitore di Guido e non a caso a lui è stato riferito, ancora di recente[14].
Ma la pittura è quella del nostro giovane Gian Giacomo ed indiscutibilmente suo è l’angelo, il cui volto in controluce lo abbiamo già incontrato nel dipinto Koelliker. Non bastasse questo ad attestare l’autografia di Sementi, presento un eloquente documento, il disegno preparatorio della figura di San Matteo (foto 15), grazie al quale risulta evidente che non spetta a Reni nemmeno l’idea generale, data la piena corrispondenza del foglio alla grafia più ruvida di Gian Giacomo.
Fino a quando non si assesterà l’evidenza che Sementi ebbe lunghe stagioni di autonomia, si continueranno a vedere le sue opere più importanti attribuite ad altri. Soprattutto quelle fatte in precedenza, o quelle ancora a metà strada della sua fatale metamorfosi stilistica.
Così anche un Battesimo di Cristo (foto 16), varie volte riferito al Romanelli, allievo di Pietro da Cortona[15], è il più puntuale documento che Gian Giacomo produsse durante quella fase in cui la collaborazione alle imprese di Reni si dispose in parallelo a ricerche indipendenti. Le linee di questo doppio binario dovettero estendersi almeno fino al completamento delle decorazioni del Duomo di Ravenna, che sono del 1614-1616, nelle quali il suo contributo è ancora in buona parte da distinguere[16].
Credo appartengano al medesimo scorcio creativo, che sta nella soglia tra naturale e ideale, una languida Madonna col Bambino (foto 17) della Diocesi di Padova[17], l’austera Educazione della Vergine (foto 18) e la dolcissima Sacra Famiglia con due angeli (foto 19)[18]; ma anche un onirico dipinto che, come fosse una favola, narra lo struggente episodio biblico di Agar e l’angelo nel deserto (foto 20)[19], oltre ad altre tele come una meditativa e quasi astratta Maddalena di collezione privata (foto 21)[20], che pare tornita nel legno, neanche fosse una scultura di un secolo prima e una Susanna insidiata dai vecchioni (foto 22)[21], turbata nei pensieri, ma nitida e stagliata nelle forme, che la Vivian Art Gallery di Londra ancora propone come opera di Guido Reni.
Questa pensierosa bellezza muliebre si pone vicina all’altra Susanna già nota (foto 23)[22], che reagisce alle profferte dei due anziani prendendone uno per la barba. Il momento espressivo è confrontabile col Cristo e il giovane ricco (foto 24), transitato di recente presso la Galleria bolognese Fondantico. Sembra un gesto da ‘vocazione imperativa’ quello del protagonista, anche se il passo evangelico, reso famoso dalla proverbiale parabola dell’ago e del cammello, ci restituisce il sapore di un ‘ripudio’.
Forse, immediatamente dopo a questa serie di nuove proposte si collocano alcuni dipinti citati dalle fonti che Armanda Pellicciari aveva già pubblicato, mi riferisco al Cristo con San Michele Arcangelo, Sebastiano e Francesco della Pinacoteca Nazionale di Bologna (foto 25) e il San Carlo Borromeo tra gli appestati (Bologna, chiesa dell’Annunziata) (foto 26), che forse stanno sul finire del secondo decennio del secolo[23].
Analoga severità da controriforma la ritroviamo in un San Bartolomeo (foto 27)[24] e in una Madonna col Bambino, San Francesco e Carlo Borromeo (foto 28) di Imola, già documentata e che ha la medesima impostazione di una delle opere che il Sementi eseguì per Veroli, ovvero la Madonna col Bambino, San Pietro e Carlo Borromeo (foto 29).
Inedita invece è una Crocefissione con San Girolamo e Sant’Antonio Abate (foto 30), che si trova conservata nel Museo Diocesano di Imola[25] e che sembra eseguita in assoluta contiguità alle tele ora ricordate.
In quest’ultimo gruppo di pitture si evince un certo impaccio compositivo, nel quale il rigore morale stenta a coniugarsi con la grazia, prevalgono forme grevi e talvolta prive di carattere che lasciano intuire una fase di crisi, forse corrispondente al difficile adattamento a un sistema lavorativo più forzato, entro la cerchia di Reni, che poneva Gian Giacomo di fronte a un problematico cambio di passo.
La perdita dell’originale certezza stilistica ci fa intuire come, per un decennio collocabile tra il 1616 e il 1626, il lavoro di Sementi assomigliasse ad un impiego di necessità. La bottega bolognese doveva offrire sicurezze e qualche agio, ma di certo andava a neutralizzare il suo carattere espressivo. Il Sementi accettò, durante quel lungo periodo, di svolgere un’attività da orchestrale, da fedele esecutore o, se vogliamo, da interprete, nell’attesa di tornare a comporre partiture proprie. Dovette venir trascinato dall’incessante lavoro di gruppo, forse gratificato dal trovarsi a contatto con i più importanti committenti dell’epoca e magari ricevendo promesse di futuri appalti. Non doveva essere semplice rendersi conto di star cedendo, pennellata dopo pennellata, anche l’ultima goccia della propria autonomia.
Tra il 1615 e il 1625 Sementi si rese di certo disponibile a veri e propri ritorni al ruolo di copista, ma la singolare vocazione di Gian Giacomo a interpretare con proprio carattere idee compositive altrui la si riscontra in una struggente e sentita Conversione di Maddalena, della Aurum Fine Art Society di Reggio Emilia (foto 31) che è mirabile variante di un’opera, inedita, che qui attribuisco ad Alessandro Turchi detto l’Orbetto (foto 32)[26].
Un analogo grado di ‘autonomia ispirata’, ma di inequivocabile matrice reniana, è la Giuditta della Doria Pamphilj (foto 33), matrona trionfante con la testa di Oloferne in pugno, grande quasi come un gigante Golia[27].
Siamo già a metà degli anni Venti, quando Gian Giacomo riesce a smarcarsi dai vincoli della bottega, anche se non da quelli del marchio di fabbrica.
Lo dimostrano, meglio di ogni ricostruzione critica, le opere che Sementi dissemina nella provincia laziale. A Veroli, a Santa Rufina e a Poggio Mirteto si trovano dipinti che esasperano l’alfabeto reniano anziché rigettarlo, toccando talvolta impervi passi di danza, come azzarda un nuovo San Sebastiano (foto 34) per il quale ho avuto l’avventura di ritrovare anche un accuratissimo disegno preparatorio (foto 35)[28].
Anche l’Immacolata della chiesa di Santa Maria di Salome a Veroli (foto 36) diviene un’iperbole della grazia di Guido, navicella spaziale che attende il decollo dalla falce di luna.
Stessa posa, solo di poco appesantita dal saio, è quella di San Francesco, nella chiesa bolognese di Santa Caterina in Strada Maggiore (foto 37), giustamente ricondotta al Sementi da Emilio Negro[29].
Presento, sempre ritrovata a Poggio Mirteto, una celebrativa e raffinatissima pala d’altare con la Vergine e il Bambino in trono, con san Francesco, san Giuseppe e un santo vescovo (foto 38), nella quale compostezza e sapienza si fondono in un felice connubio che forse diede all’autore il senso di una nuova stagione di fertilità[30].
A conclusione di questa prima parte di saggio, che intende evidenziare la trasfigurazione stilistica di Gian Giacomo Sementi, pongo un paio di disegni inediti assieme a un grande dipinto riemerso di recente in una collezione privata di Vercelli che testimoniano insieme quanto la solidità delle sue prime opere (di una consistenza insieme fisica, formale, cromatica e temperamentale), abbia progressivamente rilasciato peso specifico, fino ad anelare all’etereo.
Il filiforme e rapido disegno che studia un Angelo custode (foto 39)[31], con la stessa grafia del San Matteo, la più accurata Allegoria della Fede (foto 40)[32] e l’articolato dipinto col Giudizio di Paride (foto 41)[33] uniscono il passo della moderna danza a un estremo slancio verticale indicandoci come la cifra dell’artista, anche in questa tarda fase della sua attività, vada cercata proprio nell’enfatizzazione dei caratteri espressivi.
L’amico Francesco Petrucci mi segnala, con giusta attribuzione a lui dovuta, un bellissimo e ancora danzante San Michele Arcangelo che sconfigge il demonio (Foto 42), che è conservato a Formello, nella chiesa di San Michele.
L’opera sembra ancorata al rifacimento dell’altare che è datato 1624 e se la traccia documentaria venisse confermata questo San Michele di Sementi anticiperebbe di più di dieci anni il celeberrimo capolavoro del suo maestro[34].
La difficoltà di superare uno schema che giunge a liquidare opere di questo livello coi generici termini della ‘scuola reniana’, non giustifica l’ottusità dello sguardo attraverso il quale è stato finora osservato il lavoro di Sementi. Forse era, ed in buona parte resterà, necessario ricostruire la prima e più gloriosa fase del suo percorso, quella che meglio ne restituisce valori di unicità e di carattere, ma solo andando oltre un tale giudizio di priorità si potranno comprendere le scelte successive che accompagneranno la restante stagione creativa di Gian Giacomo, che si arresterà di lì a poco con la morte, avvenuta nel 1636.
Nei primi decenni del Seicento, forse più che in ogni altro snodo temporale, molti artisti ebbero una giovinezza esplosiva, seguita da un repentino cambio di rotta. Simon Vouet passa quasi per incanto dalle ombre delle bettole romane al volo algido della corte francese, ma anche Giovan Francesco Barbieri detto Guercino, Giuseppe Vermiglio, Francesco Del Cairo, Giacomo Cavedoni e tanti altri, come fossero stati folgorati da una collettiva conversione religiosa, negli stessi anni si sono spogliati della loro robusta e splendente armatura stilistica per vestire abiti castigati e normativi.
“Ma allora bulliva il pignattone!”.
È divenuta ormai proverbiale la frase che l’anziano Guercino disse a chi gli chiedeva come mai non avesse più condotto opere energiche al pari della giovanile Vestizione di San Guglielmo.
Anche l’ebollizione espressiva di Sementi finì per trasformarsi in un piatto freddo, seppur sapientemente servito, arricchito di rimandi archeologici e aggiornato sul dibattito estetico del momento. Se le lusinghe intellettuali e cortigiane di Monsignor Agucchi (come ha dimostrato Mahon) istillarono il germe della svolta in Guercino, per Gian Giacomo dovette essere lo stesso Reni, divenuto suo impresario e referente intellettuale, a condizionarne lo sviluppo facendogli abbandonare un percorso che, a giudicare con la nostra misura, lo avrebbe potuto portare a ruolo e qualità primarie.
Ma è impossibile e forse inutile scrivere il racconto delle promesse mancate, resta invece sul terreno e nelle tante opere, una lunga, articolata, vita artistica che va rispettata e compresa anche nelle sue scelte più mediane.
Massimo PULINI Rimini giugno 2019