P d L
La domanda che ci si potrebbe porre al termine della lettura de La Rivincita di Adone sull’Indice, dato alle stampe da Luca Calenne per i tipi delle Edizioni Bardi (Roma 2019) è se le argomentazioni che lo studioso ci fornisce, in oltre 330 pagine di testo (escluse immagini e bibliografia), corredate da 749 note a piè pagina, siano state sufficienti a dimostrare quanto egli si riprometteva, cioè a dire che il Palazzetto di Paolo Sforza, in via dei Quattro Cantoni, all’Esquilino, sia stato davvero affrescato con storie derivanti dall’Adone di Giovan Battista Marino, e di conseguenza poter individuare, se non in modo dirimente quanto meno con una buona dose di credibilità, chi ne sia stato l’autore.
Cercheremo di dimostrare che l’obiettivo è stato centrato e che le tesi esposte nel volume –costato anni di ricerche e studi- possono far considerare risolto un problema che appariva davvero complicato, incrociandosi tematiche di carattere politico, religioso, e naturalmente artistico, che solo con una rimarcabile dose di acribia potevano essere esaminate. L’autore in effetti si è detto quasi subito sicuro “di aver individuato sia il libro che ha ispirato il principale ciclo pittorico del casino della villa, sia gli artisti che lo hanno realizzato”.
Per arrivare a questa inziale conclusione (se ci si passa l’ossimoro), tanto per cominciare era necessario dimostrare che le pitture rispondono ad una partitura differente rispetto a quanto si è potuto credere soprattutto in ragione di ciò che a suo tempo aveva sostenuto Carla Benocci, vale a dire che la tematica svolta rappresentasse “l’esaltazione dell’amore … e dell’unione matrimoniale” per il fatto che le scene sarebbero state il racconto delle storie di Amore e Psiche dipinte per festeggiare l’unione matrimoniale del marchese Paolo Sforza con la prima moglie, Isabella Bentivoglio. Un’ipotesi peraltro per niente peregrina se pensiamo che
“il ruolo della politica matrimoniale si è rivelato spesso determinante nella attestazione delle famiglie sul territorio … come pure nella caratterizzazione artistica di alcuni impianti cicli decorativi”
come ebbe a scrivere Claudia Cieri Via alcuni anni fa riferendosi agli Sforza di Santafiora e non direttamente alla Villa dell’Esquilino, rimarcando però quello che certamente era un idem sentire. (cfr. C. Cieri Via, Introduzione, in L. Calzona, “La Gloria de’ Prencipi”. Gli Sforza di Santafiora da Proceno a Segni, Roma, 1996, p. VII)
Era dunque propedeutico, se si può dire, che l’autore controbattesse già dalle prime pagine questa interpretazione con considerazioni che a nostro parere si devono ritenere dirimenti e grazie alle quali ha infine potuto sostenere che “il ciclo è una illustrazione di episodi salienti del poema Adone”.
Occorrerà dunque partire da qui, da questa convinzione espressa in maniera così decisa, per rendersi conto di quale tragitto Luca Calenne abbia affrontato, incorporando, in una magistrale ricerca, filologia, mitologia, storia della cultura classica nonché storia dell’arte per poter alla fine concludere, come recita il titolo, che effettivamente l’Adone, l’opera più famosa di Marino, abbia sconfitto l’Indice. E’ noto infatti che la potente Congregazione, creata nel 1571 da Pio V Ghislieri, aveva decretato per il poema la definitiva censura nel novembre del 1626, in un periodo cioè molto particolare, tre anni dopo la salita al soglio pontificio di Urbano VIII Barberini che, come vedremo, ostacolò in ogni modo Marino, nonostante il poeta partenopeo avesse mietuto straordinari consensi e fosse stato acclamato come “il maggior poeta tra quanti ne nascessero”, “l’ottava meraviglia del mondo”, “uno dei primi re al mondo” e così via, osannato dai maggiori ingegni letterari del tempo, da Gabriello Chiabrera a Lope de Vega, ma anche avversato violentemente da nemici che deprecavano tanto lo stile del poema quanto “le lascivie che vi erano fuse”.
Un’accusa quest’ultima che certamente non doveva apparire completamente fuori luogo a fronte di scene che la fantasia dell’artista aveva messo in versi e che era difficile ora per altre fantasie non poter immaginare, se è vero poi che anche un suo sodale come Girolamo Preti –che pure ebbe ad adoperarsi verso i Barberini per favorire il rientro del poeta a Roma- finì col “biasimare decisamente le lascività del Marino” (cfr., “Giornale storico della Letteratura italiana”, XXXII, v.1, 1883; p.227 ss). Il fatto che Urbano VIII già da cardinale, per quegli stessi motivi, “aveva ritirato il favore prima mostrato all’autore”, dimostra come l’Adone venisse considerato soprattutto nelle alte sfere senz’altro “un’opera capitale del genere di poesia a scopi lascivi”. (cfr L. von Pastor, Storia dei Papi, vol. XIII, p. 902).
Non sarà un caso che tra i quadri registrati nell’ “inventario solenne” rogato in data 23 giugno 1625, due mesi dopo la scomparsa del poeta partenopeo, compaiano –oltre al suo e ad altri ritratti- solo due dipinti sacri e soprattutto soggetti mitologici spesso a sfondo erotico come Venere e Adone, Venere e Marte, e poi Bacco, Apollo ecc che –come ha notato Giorgio Fulco – “combaciano coi dati biografici, confermano gusti e debolezze di chi quei beni ha usato, goduto, prodotto …” e mettono in evidenza la predilezione verso “le favole del mito letterario, la mitografia ovidiana, più che le historie bibliche evangeliche o agiografiche”. (Cfr G. Fulco, Il sogno di una ‘Galeria’. Nuovi documenti su Marino collezionista, in “Antologia di Belle Arti”, III, 9/12, 1979, p. 84 e ss).
D’altra parte è noto che Marino amasse un collezionismo “elitario ed esclusivo” soprattutto di stampe erotiche, cosa “perfettamente congeniale alla sua ispirazione”, ben testimoniata, come è stato scritto, dai fogli con l’immagine di “satiri lascivi in suo possesso”. Per ottenere questi lavori non era raro che egli spingesse gli artisti a non farsi troppi scrupoli; si sa ad esempio che invitò Ludovico Carracci ad “essercitare la sua mano in fantasie e scene lascive” che poi lui stesso, collezionista e connoisseur, nonché “mercante di quadri e di incisioni voluttuose e piccanti” avrebbe passato a qualche ricco acquirente. (per le citazioni cfr. P. Camporesi, Il palazzo e il cantimbanco, Mi. 1994, pp. 11, 12 e passim )
Certo è che la richiesta fatta a Ludovico di qualche “lussurioso schizzo di suo capriccio” può apparirci quanto meno temeraria se pensiamo che il più anziano dei Carracci visse sempre nella città –Bologna- in cui rimaneva ben presente l’esortazione del cardinale Paleotti tramandata negli “avvertimenti ai padri di famiglia” a disinfettare le case “da ogni libro et pittura che vi fosse lasciva et indecente” (cfr P. Camporesi, cit.) e soprattutto che non era passato invano il suo magistero controriformato che lo aveva portato, com’è noto, a interdire ai pittori i nudi e le immagini impudiche, oltre che ad immaginare la costituzione di un Indice per controllare oltre alle pubblicazioni, anche l’ortodossia dei dipinti.
Nella capitale dello Stato pontificio invece la situazione sotto questo aspetto paradossalmente poteva apparire molto differente; mentre si concretizza infatti la messa a punto della Cupola di San Pietro vi si concentra una quantità indefinibile di capolavori, di progetti, di collezionisti straordinari e soprattutto di artisti da ogni parte d’Europa; non solo pittori o scultori, ma anche letterati, architetti, musicisti, filosofi; da qui originano e si diramano ovunque nuovi linguaggi in grado di rivoluzionare l’arte e tutta la cultura. Il panorama che offre la città dei papi è perfino sconcertante: raramente nel corso dei secoli si potrà assistere –se non in età contemporanea- a tante possibilità di scambi e di incontri, di dibattiti e di nuove acquisizioni ideali. Ed è in questo clima che arriva nel ‘600, approfittando del Giubileo e deciso a sfondare, Giovan Battista Marino, sbarcando da Napoli, dove si era già messo in luce frequentando accademie, scrivendo rime, affiancando aristocratici e letterati importanti, tra cui Torquato Tasso, ed avendo avuto anche modo di conoscere –e non sarà l’unica volta- le carceri.
Tutto quanto abbiamo detto –e molto altro si sarebbe potuto aggiungere a dimostrazione di quali fossero gli intendimenti del poeta napoletano, quali i suoi punti di riferimento e quale, per riassumere, la sua personalità- ovviamente non era affatto ignoto a Luca Calenne, il quale in ogni caso più volte interviene nel suo libro per chiarire come le immagini del poema mariniano, certo non prive di uno smaccato erotismo, che quindi possono o per meglio dire potevano far credere che fossero finalizzate a raggiungere l’obiettivo del godimento, in realtà avrebbero avuto lo scopo di “regolarlo”, cioè più o meno l’opposto.
Si tratta evidentemente di un preciso punto di vista che origina da considerazioni che lo studioso sviluppa in modo molto ben argomentato e che in effetti inducono a ‘leggere’ le storie mariniane secondo una diversa prospettiva. Per Calenne infatti “Marino in vari punti del suo poema (espone) una visione filosofica originale” che “risiede senza dubbio nel sensismo” dal momento che proprio una simile tendenza concettuale “dal principio del Seicento iniziava ad imporsi nel campo degli studi filosofici e letterari”. E certamente non è un caso che tra i numerosi attestati di stima per le sue virtù letterarie compaiano anche giudizi che ne esaltavano la “profonda cultura in tutte le scienze, non solo nelle arti del poetare”, come non è casuale l’elogio a Galileo Galieli che appare nel canto X dell’Adone; ma Calenne va oltre riportando un passo di Paul Renucci che seguendo la traccia segnata da uno dei più importanti moderni esegeti del Marino, cioè l’abate Giovanni Pozzi, ha collegato addirittura il poeta “ai più moderni pensatori del tempo (Bruno, Telesio, Campanella, oltre ovviamente Galileo)” al punto che si deve ritenere che “la trama filosofica del poema” sia interamente giocata sulla “conoscenza necessaria e sufficiente dell’universo attraverso i sensi” .
Si tratta con ogni evidenzia di un punto fondamentale per inquadrare al meglio l’intera questione degli affreschi di villa Sforza realizzati dopo la scomparsa di chi con i suoi versi li aveva suggeriti.
Non possiamo naturalmente in questa sede ripercorrere tutte le iconografie prese in esame da Calenne con cui egli smonta e rimonta quanto è stato scritto finora sulle scene rappresentate nella villa, proponendoci continue citazioni di parti dell’Adone che si accordano perfettamente con gli inserti pittorici.
Ci bastino alcuni esempi. A cominciare dalle tre figure femminili danzanti raffigurate sul soffitto di Villa Sforza che non indicano affatto la tipica danza di menadi e satiri ubriachi ma vanno identificate, come sostiene lo studioso, in realtà come Horai (le Stagioni), per dipingere le quali una “ulteriore fonte d’ispirazione per Paolo Sforza e i suoi artisti” (fg 11 p 42) poté essere il dipinto di Poussin (se accettiamo che esso risalga agli inizi del terzo decennio) con cui il nostro autore inizia peraltro a farci intravedere dove approderà quando, nell’ultima parte del suo volume, dovrà sciogliere la questione degli autori degli affreschi.
Ma per proseguire sulla dipendenza delle scene dalle pagine del poema iniziando dal primo capitolo non per caso intitolato l’Adone dalla pagina al muro, si possono notare ancora esempi presi dalla stanza detta della Fortuna, così chiamata perché vi compare l’Arca della Fortuna (la barca che condurrà Adone dalla nativa Arabia all’isola di Cipro), altri dal Giardino del piacere, altri ancora dal paragrafo riguardante Momo al banchetto di Venere e Adone, per finire con quelli concernenti il Pianto per la morte di Adone. Ed allora occorrerà citare almeno l’amorino assopito che fa il paio con i versi iniziali del primo madrigale del poema, oppure i due tondi con le scene dell’arrivo del pastore nel “Palagio del dio Amore … pieno di delizie sensuali” che è descritto nel sestocanto, insieme alla storia di Amore e Psiche; episodi , insiste Calenne, che si fondono in un’unica scena confermando una lettura “moralizzata” dell’episodio che dunque va inserito “in un filone iconografico che mostra Adone come una sorta di Ercole al bivio”, dal momento che egli “si sta sottraendo alle lusinghe del Palazzo di Venere”. L’incontro di Venere e Adone -dove “la acrobatica fusione tra Venere e Diana” rimanda concettualmente all’ossimoro della “casta voluptas” coniato dal circolo culturale del cardinale Scipione Caffarelli Borghese– è particolarmente significativo perché sviluppa la paradossale unione fra la fredda Diana e la prosperosa Venere, la quale dunque sarebbe la Venere Verecondia che fin dall’antichità “veniva invocata dai Romani per respingere l’impeto delle passioni” .
Lo stesso Momo – apologia del vagabondo che gira stracciato, che non si cura neppure dei vestiti, che non corre dietro alle cose che complicano l’esistenza e che quindi sulla scia di Leon Battista Alberti si rivela un vero sapiente – nell’episodio “con la maggior vis comica tra quelle che appaiono nella villa” (si vede Venere che lo caccia tirandogli dietro un vaso perché aveva narrato la sua tresca con Marte) si configura da “demone della maldicenza” a “severo reprensore dei vizi altrui”.
Ed infine ecco il Pianto per la morte di Adone, con “l’ultimo atto dei funerali” che Calenne giudica fondamentale e non “una tardiva appendice” ; il ragionamento dello studioso non sembra infatti lasciare adito a dubbi sul fatto che “il sacrificio di Adone appartiene al ciclo cosmico” -proprio ciò che l’Aurora dice a Venere per consolarla- e contempla “l’uniformità tra la materia celeste e la terra degli uomini”.
Insomma una sorta di “degerarchizzazione delle sfere celesti e dei loro mistici abitanti”, tesi che non era poi così distante dalle teorie giudicate para libertine ed anzi atee che avevano portato sul rogo a Parigi, Giulio Cesare Vanini, “colpevole dei crimini di ateismo, bestemmia, empietà ed altri eccessi” come venne scritto nel verdetto di condanna emanato il 9 febbraio 1619 dal Parlamento cittadino, dopo che dall’accusa iniziale di magia si passò a quella di ateismo, che prevedeva la condanna a morte.
E vale la pena di capire come si arrivò a questa tragica conclusione tramite alcuni passi del volume “Giulo Cesare Vanini. Morire allegramente da filosofi. Piccolo catechismo per atei, a cura di Mario Carparelli che ci immette bene anche nell’atmosfera del tempo :
” … Allo scopo di provare l’accusa, i magistrati fanno interrogare il Vanini da numerosi esperti in materia di religione. Gli esiti però sono sempre negativi … Dopo averle provate tutte per incastrarlo ad alcuni magistrati comincia a maturare l’idea di rilasciarlo”.
A questo punto, siamo ai primi di febbraio del ’19 (e il processo è in corso da 8 mesi, una cosa enorme per quei tempi e per queste accuse), salta fuori la ‘prova’, cioè una testimonianza decisiva resa dal nobile Francon de Terssac-Mombéraut :
”E’ lui che firma de facto la condanna di Vanini, almeno a quanto riferisce il gesuita Francois Garasse, in un pamphlet contro il filosofo di Taurisano datato 1623. E’ proprio il gesuita a tirar fuori dal cilindro un testimone. Peccato che se lo sia inventato di sana pianta. O meglio, Francon è esistito veramente solo che non ha mai confermato la versione di Garasse, perché era deceduto da un paio d’anni …” (il testo a cura di Mario Carparelli è consultabile sul web
La considerazione che si deve trarre è che Marino che, non va dimenticato, aveva personalmente conosciuto nel non breve periodo trascorso in Francia, dal 1615 al ’23, il Vanini e probabilmente anche apprezzato le sue idee, a un certo punto si dovette rendere conto del rischio che correva e regolarsi di conseguenza. Il suo pensiero, considerato, come si è visto, non a torto interno ad una epistemologia sensista a sfondo naturalistico e materialistico “invenata di panismo” come scrive Calenne, poteva arrivare alle estreme conseguenze sfiorando magari l’accusa di libertinismo, se non proprio di ateismo, non lontano dalle idee antimetafisiche e alla fine anche antiteologiche affrontate dal Vanini, che lo avrebbero precipitato su un terreno assai sdrucciolevole, ossia oltre le problematiche letterarie, cosa che avrebbe fornito un’occasione irripetibile ai suoi rivali (tra i quali lo stesso cardinale Barberini).
Sono i tempi infatti in cui la teologia è tutt’uno con la politica, e proprio i gesuiti quali lo stesso Francois Garasse ne sono i paladini più agguerriti e intransigenti, come avrebbe a sua volta sperimentato alcuni anni più tardi nel 1644 –a dimostrazione che la questione non venne mai messa in secondo piano- il parmense Ferrante Pallavicino decapitato ad Avignone –dov’era stato attirato con un trucco- sotto l’accusa di aver screditato con i suoi scritti la chiesa e, ancora una volta, i gesuiti; i quali peraltro, si muovevano sulla scia dei confratelli Daniello Bartoli e Sforza Pallavicino –quest’ultimo pure cugino di Paolo Sforza– secondo i quali Marino era un “noto corruttore di costumi”.
La compagnia di Sant’Ignazio del resto attraversava una fase tra le più importanti delle sua storia sotto la direzione di Claudio Acquaviva, eletto Preposito Generale nel 1581 e rimasto alla testa della Compagnia per trentacinque anni; in questo periodo l’Ordine conobbe uno sviluppo fortissimo a livello internazionale, senza contare che aver dichiarato per prima l’obbedienza al pontefice nel conflitto apertasi con la repubblica di Venezia, nel 1606, in occasione dell’interdetto, se aveva comportato il bando e l’espulsione dal territorio lagunare (durata oltre 50 anni) ne aveva però consolidato la forza attrattiva oltre che i legami con la curia.
In questa situazione è da credere, come del resto afferma molto bene Calenne, che a Marino “non sarebbe stato di alcun aiuto agli occhi del Sant’Uffizio dire che il suo poema si rivolgeva non a Dio ma al padre degli dei”. E’ noto che nelle “Dicerie Sacre” egli arrivò ad accreditare Pan come una sorta di allegoria di Cristo raffigurandolo come : ”il simbolo stesso di quell’amore universale che muove l’universo … il principio che regola il succedersi dei giorni e delle stagioni”. Ma c’è di più; lo studioso infatti sostiene che “la figura di Pan … rappresenta in nuce il tipo di ‘intelletto pratico’ che ha come fine il bene …” al punto da “innescare nello spettatore il processo cognitivo” che lo aiuterà “a capire il senso riposto nei dipinti per giungere al bene, cioè alla virtù”, così da poter affermare che il ciclo di Villa Sforza in realtà “propone una lettura moralizzante … riducendo al minimo la carica erotica delle scene” .
C’è da domandarsi però oggi, ovviamente con tutti i limiti che richiede un ragionamento basato sul senno del poi, ma anche con la consapevolezza di queste ulteriori argomentazioni e delle nuove conoscenze emerse, se al poeta napoletano non facesse in qualche modo comodo essere additato come uno “scandaloso promotore della più inibita sessualità” (è curioso notare come fu questa l’accusa lanciata 100 anni prima anche a chi, come vedremo, presenta diversi punti in comune con lui, cioè Pietro Aretino, cfr F. Sberlati, L’Infame. Vita di Pietro Aretino, 2017, p. 8) nel senso che, almeno per una parte della sua avventura umana ed artistica, non abbia pensato – presentandosi a bella posta sotto quelle vesti- di poter riuscire a bilanciare una prospettiva letteraria che non condivideva e poi destinata ad affermarsi (Calenne la riassume nella formula del “neopindarismo cristiano” di Paolo V), magari mirando, attraverso una sorta di manifesto per una nuova weltanschauung che suonasse come una sfida culturale ai tabù religiosi, a smascherare e battere l’ipocrisia dei moralisti; una prospettiva però che, va da sé, per avere qualche chance non poteva che agganciare temi politici, come vedremo.
Il nostro autore inquadra con esattezza il punto in cui si giocò il destino umano e culturale di Giovan Battista Marino –in un percorso di vita che pure sappiamo non privo di scosse ed accidenti vari- soprattutto nel periodo storico che va dal pontificato di Gregorio XV (Bologna, 1554 – Roma, 1623), papa nel 1621, alla salita al soglio pontificio di Urbano VIII (agosto 1623) quando, ammettendo che rientrando nella capitale pontificia avesse maturato idee diverse, dopo la scomparsa del primo capì subito di essere ormai fuori gioco nella curia e nello stato della chiesa, e non solo perché tutti i letterati chi più chi meno celebravano le virtù del papa-poeta, mentre egli si astenne da qualsivoglia omaggio o lode, al contrario del suo nemico Gaspare Murtola, non a caso richiamato ufficialmente nella capitale, dove peraltro già “si aggirava protetto dalla famiglia Borghese”.
Gli eventi che costrinsero Marino a battere in ritirata dopo l’elezione di Urbano VIII – che aveva proibito la circolazione dell’Adone nello stato della chiesa poche settimane dopo la sua ascesa al soglio pontificio – vanno certamente in primo luogo inseriti dentro una logica di totale divaricazione letteraria, allorquando cioè si fecero ancora più pesanti le critiche al poema da parte degli ambienti cosiddetti “spoletini” oltre che da parte di Traiano Boccalini e Tommaso Stigliani, suo nemico giurato; ma non è da escludere però che si aggiungessero anche altri motivi.
Quali ?
Occorre qui riprendere quanto poco prima abbiamo solo accennato per capire se non vi fossero ulteriori cause di divaricazione da doversi ricercare negli anni che il poeta trascorse in Francia, nelle sue amicizie, nelle sue frequentazioni, oltre che nell’ostentato orientamento filofrancese che non venne meno ed anzi uscì più forte anche dopo l’assassinio a Parigi di Concino Concini e il conseguente disarcionamento del ‘partito italiano’ collegato a Maria de’ Medici, certamente voluto da Luigi XIII.
Il riflesso letterario di ciò –se possiamo dire così- è stato colto con molto acume da Luca Calenne, secondo il quale “ il soggiorno parigino di Marino determinò la direttrice ideologica dell’Adone già in gestazione da tempo”; un giudizio con cui non si può che concordare e che porta a concludere che l’attrazione verso la Francia non fosse semplicemente l’espressione di un ammiratore devoto. C’è infatti oltre al letterario, anche un riflesso politico. Perché se è vero che anche i Barberini parteggiavano per i francesi, tuttavia quei versi si venivano a configurare come esempio, magari estremo, di letteratura militante, qualcosa di irricevibile tanto per il Barberini / poeta, certo timoroso che si determinasse una primazia letteraria che ne ridimensionasse le aspirazioni, quanto per il Barberini / papa per l’eventualità che potesse verificarsi una sorta di chiamata a raccolta sotto le insegne di Luigi XIII, dal momento che un approccio di questo tipo comportava la messa in discussione del principio di autorità del pontefice.
E sotto questo aspetto, le osservazioni, tutte molto ben argomentate sulla figura di Paolo Sforza che l’autore del nostro libro ci propone, ci portano a ritenere che una prospettiva del genere –ammettendo che si sia quanto meno delineata- venisse tutt’altro che ostacolata da colui “la cui casa –ci dice – per tutto il primo quarto del XVII secolo fu un sicuro punto di riferimento” per quanti a questo ‘partito’ si richiamavano. Ed è da ritenere che anche per questo l’orientamento politico degli Sforza, che fu sempre “filofrancese”, tuttavia non fu mai “filobarberinano”, come dimostrano anche i vari ‘strappi’ nel loro atteggiamento verso quella famiglia, come aver ospitato tra gli altri il palermitano Francesco Balducci – un poeta “né marinista né antimarinista” a leggere la Treccani- cosa che senz’altro dovette apparire una provocazione verso Urbano VIII (Cfr Accademia edu p 272 n. 654). Ma ancor più provocatorio ed anche assai più pericoloso, come lo studioso ha colto bene, era proporre una serie di divinità pagane per di più in atteggiamenti licenziosi nella villa “a due passi dalla Basilica di Santa Maria Maggiore”, nel quarto decennio del XVII secolo, quando cioè il poema mariniano –oltre che fuori legge dal 1627- era già classificato “libro prohibito et pernicioso” e come tale sarebbe stato nominato per tutto il secolo dagli inquisitori nei processi per i libri proibiti.
Non si capirebbe dunque la volontà espressa da Paolo Sforza nello scegliere quel tipo di scene, considerando i rischi estremi che comportavano, se non inquadrando il tutto in una curvatura più ampia rispetto a quella meramente letteraria; scrive Calenne che affascinato dall’Adone e dallo stesso anticonformismo del Marino, per quel suo “continuo fare di testa propria”, lo Sforza ne accolse favorevolmente le idee oltre che i versi ; in questo senso decorare la sua residenza con scene tratte dall’Adone “può considerarsi la prova delle distanze che egli –Paolo- prendeva dalle posizioni dei Barberini”.
Al contrario, si deve aggiungere, di suo fratello, Federico, giunto al cardinalato grazie a Innocenzo X, Vicelegato pontifico ad Avignone, che all’interno della curia poteva rendersi conto di quali rischi una simile scelta poteva comportare, tanto che così ebbe ad esprimersi nei suoi confronti : “Tengo don Paolo più per nemico che per fratello”. Una coppia assolutamente antitetica; il primo, solidale con “l’idolo di tutti i libertini” cioè Marino, in realtà un non libertino o di questo solo sospettato; l’altro “principale artefice dell’arresto, della detenzione, del processo e della conseguente condanna a morte” di Ferrante Pallavicino, un libertino dichiarato.
Va detto però che le preoccupazioni del cardinale Sforza erano in larga parte giustificate considerato il momento particolare che si stava vivendo: “la stagione del mecenatismo indulgente -scrive Calenne- era finita” ed il secondo tempo del pontificato barberiniano, proprio quando Paolo progetta e realizza la decorazione di Villa Sforza, si stava caratterizzando per un clima generale di caccia alle streghe. E non soltanto metaforicamente.
Dagli inizi degli anni venti infatti circolava in città un testo Instructio pro formandis processibus in causis strigum, sortilegiorum et maleficorum, con tutta probabilità redatto dal cardinale Desiderio Scaglia, il quale da buon domenicano si era segnalato per l’estrema severità con cui aveva represso ogni manifestazione considerata opera del demonio; nonostante ciò aveva dovuto fare buon viso a cattivo gioco quando il pontefice accolse a Roma Tommaso Campanella, anche lui domenicano ma certo distante anni luce dal suo confratello.
Sospettoso oltre ogni dire, letteralmente ossessionato da una sinistra profezia di morte collegata ad una particolare congiunzione astrale che lo riguardava, e che addirittura –secondo il racconto di von Pastor– aveva indotto il ‘partito spagnolo’ a prepararsi per un nuovo conclave, Urbano VIII non si era peritato di accogliere nelle sue dimore romane il frate di Stilo, forse ignorando, o forse no, quanto era stato riferito da vari testi nel corso dell’ennesimo processo intentatogli contro, cioè che “fra Tommaso” si credeva destinato “monarca del mondo e a dare nuova legge” e addirittura “si proclamava il Messia venturo“ .
Va detto che in questo processo il domenicano non doveva rispondere delle sue idee ritenute sovversive, bensì di un malaccorto tentativo di fuga dal carcere di Castel Sant’Elmo, dove, costretto in una cella “fetida, oscura e fredda, con ferri ai piedi, giaciglio fradicio e sporco”, con tutta probabilità si era lasciato irretire da tal Michele Cervellone, suo compagno di cella ma quasi certamente una spia; ed è interessante vedere cos’altro era stato detto nel corso del processo dal Cervellone, il quale giurò di aver assistito personalmente alla “evocazione di demoni intrapresa da Campanella” per favorire la fuga (Cfr. T. Amabile, Fra Tommaso Campanella, la sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia, Na, 1882, v. III, p.139).
Al corrente delle inquietudini del papa e mirando a conquistarne la fiducia, Campanella aveva messo in atto nel 1628, al culmine della “campagna astrologica” contro il Barberini, strane pratiche di magia descritte nel De siderali fato vitando, ricavandone, va detto, anche qualche risultato, se è vero quello che è scritto in un “avviso di Roma” dell’agosto del 1628:
“si è inteso che gli habbi dati certi fomenti, che sono contra li mali humori, et la malinconia, si dice che il papa si sia messo il pensiero … di vivere longamente e di molta quiete”.
Che questo accadesse o no, fatto sta che perfino uno come Desiderio Scaglia, che aveva progettato di mettere sotto accusa l’Atheismus triumphatus pubblicato dal Campanella nel 1626, cercando anzi di trascinare nuovamente davanti all’Inquisizione l’autore, dovette poi giusto un anno dopo inchinarsi alla autorità di Urbano VIII.
Tutto ciò non deve meravigliare se consideriamo che nell’entourage del fratello del pontefice, Antonio Barberini, come ha scritto René Pintard nel suo celebre volume dedicato al libertinismo erudito (cfr., Libertinage érudit dans la première moitié du XVIIe siècle), erano di casa oltre allo stesso Campanella, personaggi quali Naudé, Gassendi, Peiresc, Scipione di Grammont fino a quell’abate Antonio Oliva, teologo dei Barberini, ma più tardi ideologo della libertina Accademia dei Bianchi.
E d’altra parte basta leggere quello che, ancora alla fine del XVI secolo, scriveva Giovan Battista Guarini, il quale celebrava senza alcuna remora nel suo Il Segretario “l’ingegno e la natura di Leone X“ che “non scelse ministro che non fosse di costumi simili a lui”, che è proprio quello che –mutatis mutandis– fece Urbano VIII un secolo dopo. E sotto questo aspetto, non è escluso che tra i prezzi da pagare per poter entrare nel circolo barberiniano, ci fosse pure l’esplicita condanna -avvenuta infatti nel ‘27- da parte del domenicano calabrese, della poesia di Marino. Inoltre non è un mistero che qualcosa di simile accadde –pur sotto altri aspetti- allo stesso Bernini al quale “fu richiesto di allinearsi alle posizioni antimariniste del papa” dopo l’Apollo e Dafne, il cui “sfacciato erotismo” venne legittimato, diciamo così, dallo stesso Maffeo Berberini che vi appose il noto distico moralizzatore ( Quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae/ fronde manus implet baccas seu carpit amaras//” ossia “Chi amando segue le fuggenti forme dei divertimenti,/ alla fine si riempie la mano di fronde e coglie bacche amare//”).
Lo scultore effettivamente provvide realizzando un altro capolavoro, il David “simbolo per antonomasia della poesia sacra” a cui “lo stesso Campanella comparava Urbano VIII (il Matteus Davidicus)”, mentre invece al poeta partenopeo non bastò a salvare l’Adone, come sottolinea Calenne- una “clausola di salvaguardia” -questo, secondo Tomaso Montanari, era stato il distico barberiniano- del tutto analoga e posta “all’ultimo verso dell’ottava 10 del primo canto dell’Adone” che ne avrebbe accreditato una lettura “filosofica moralizzante”, tramandando l’autentico messaggio etico dell’Adone cioè che <<smoderato piacer termina in doglia>> “riducendo al minimo la carica erotica delle scene”.
Era ovvio però che i letterati barberiniani si sarebbero assolutamente opposti alla sola idea che una favola pagana esponesse degli insegnamenti morali nonostante che chi si era schierato con loro e contro Marino, come Agostino Mascardi, fosse poi tra quanti cercarono di preparare una versione riveduta e corretta dell’Adone, ossia una sorta di “Adone moralisé” che, scrive Calenne “avevano in cantiere gli Umoristi ma che non vide mai la luce”, anche perché, va aggiunto, una volta ripartito Marino da Roma, l’accademia passò direttamente sotto la guida dei Barberini.
Lo stesso tentativo di Paolo Sforza di inserire negli affreschi alcune storie di Cristo e della Vergine –probabilmente per controbilanciarne temi e significati- finì per costituire un’aggravante, tanto che fu “proprio la commistione tra sacro e profano … ad indurre i revisori ecclesiastici a ritenere blasfemo il poema”. Il motivo del resto era chiaro e va ricercato nelle considerazioni che abbiamo visto riguardo alla sua matrice filosofica ed etica, fondata “sulla percezione sensibile del mondo” che si deve considerare “la principale chiave di lettura della lirica mariniana” interna ad una visione del mondo veicolata eminentemente sui sensi, che infine avrebbe esposto l’uomo a pericolose tentazioni, proprio mentre la propaganda religiosa vi si scagliava contro.
Tutto ciò rimanda finalmente alla stesura del programma iconografico, a chi ne decise la realizzazione in una logica che potesse “riabilitarlo dalle accuse di oscenità che il poema si attirò soprattutto in età barberiniana” senza dover tradire il pensiero dell’autore limitandosi però a mettere in evidenza “il messaggio etico che il poeta aveva sepolto con le più suadenti immagini”. Di qui la necessità di un iconografo “capace di interpretare, selezionare e fondere insieme in modo opportuno alcuni rilevanti episodi del gigantesco poema mariniano”, ed ecco quindi “materiali prelevati dal poema … ulteriormente moralizzati mediante piccole aggiunte iconografiche” , oppure “immagini dipinte (che) si discostano un poco dal dettato di Marino” oppure ancora l’esclusione sia dei “canti centrali del poema” sia delle “scene più cruente”, per arrivare a bandire del tutto “le scene più squisitamente erotiche” legate al mito di Adone.
Forse per queste ragioni, che certo ne attenuarono il portato, quello che pure deve considerarsi “l’unico ciclo pittorico esistente al mondo dedicato all’Adone di Marino”, non influenzò più di tanto le arti figurative, come riconosce Calenne, tanto che la libertà con cui lo stesso committente, Paolo Sforza, potè accorpare differenti episodi del poema è concepibile proprio alla luce della mancanza di modelli di riferimento.
Questo però non esclude che Paolo e Marino si fossero conosciuti già a Parigi nell’estate del 1620 –quando com’è noto, il poema era già da tempo in gestazione- e se deve ritenersi un azzardo, alla luce di quanto sappiamo, immaginare che discutessero anche del possibile riaggiustamento del testo, considerato che era ancora viva l’eco della sorte tragica toccata al Vanini di cui si è detto- è del tutto lecito, al contrario, ritenere che l’omaggio che compare nell’ultimo canto dell’opera vada riferito proprio a Paolo “francese per vocazione e di adozione” piuttosto che a “Sforzino” Sforza, come si è creduto, il quale si era dichiarato invece partigiano del Re di Spagna.
La vita del committente degli affreschi è ripercorsa con chiarezza nel libro di Calenne che ne mette in risalto in particolare le vicende che lo portarono da un lato in contatto con Marino e dall’altro in contrasto con i Barberini, fino al defilarsi –lui che era un audace uomo d’armi – dalla Guerra di Castro, al punto che non si convinse a scendere in campo neppure quando dopo una prima fase favorevole, le sorti della guerra precipitarono e l’esercito di Odoardo Farnese sembrava sul punto di assediare Roma. Lo studioso azzarda l’ipotesi che un simile atteggiamento, cioè il “gran rifiuto” di prendere le armi contro il Farnese –altrimenti inspiegabile- possa collegarsi “con la lettura dell’Adone che era universalmente considerato un ‘poema di pace’”, secondo quanto richiamava la stessa impostazione programmatica di Marino –se possiamo definirla così- per la quale un poeta, oltre che scegliere un genere poetico, doveva operare una scelta di campo ed “egli opta per la stagione degli amori, ossia la pace, piuttosto che per la guerra”, contro cui infatti si pronuncerà spesso nelle sue corrispondenze, sia da Torino, che da Parigi.
Si apre qui una osservazione che a nostro parere è determinante per dare una giusta dimensione alla personalità e alle idee del poeta partenopeo, ossia quella –contraria come avverte Calenne alla tesi della maggioranza dei critici- di un Marino impegnato politicamente ed orientato “in senso moderato e conservatore”, il quale ritiene “la stabilità politica” la maggiore garanzia “per la conservazione della pace”, che si realizza non grazie al “principe guerriero” bensì a quello che “vince i suoi nemici con la sola presenza, senza spargimenti di sangue”. E non ci sono dubbi che “tale è per Marino l’azione militare di Luigi XIII”
Lo studioso descrive Marino come una personalità dall’ “anticonformismo intermittente”, capace di mostrare “il più grande rispetto per le istituzioni morali e le convenzioni sociali che allora governavano il mondo” e tuttavia “di volta in volta incline a legittimare qualche licenza, tanto rispetto ai canoni della letteratura, quanto rispetto ai costumi dell’epoca”.
Per parte nostra , avvicinandoci alle conclusioni, a fronte di ciò che abbiamo visto, non ci pare un azzardo ritenere che Marino, consapevole di non poter ricoprire più ruolo alcuno in un contesto dove prevaleva “una poesia più classicheggiante nelle forme e assai più impegnata dal punto di vista dei contenuti”, ma altresì cosciente dell’irrimediabile ridimensionamento del papato di cui certamente potè avere contezza nel non breve soggiorno a Parigi, possa scientemente essersi posto l’obiettivo di giocare all’attacco, mirando forse a divenire emblema di un nuovo tipo letterato.
Il quadro che ci si prospetta insomma è quello di un intellettuale che si identifica in un preciso ruolo politico. E laddove dovessimo istituire un paragone, dovremmo proprio scalare di un secolo, prendendo a confronto un nome cui abbiamo già fatto cenno, un ‘eterodosso’ che, come lui, calcò le scene artistiche e frequentò le corti, cioè Pietro Aretino, anche se è vero che il poeta partenopeo non coltivò mai quelle “ossessioni antiromane” che invece tormentarono l’altro: né deve suonare curioso che tanto l’uno che l’altro mostrassero notevole simpatia verso Erasmo; addirittura, scrive Calenne “le posizioni di Marino nella Sferza e nell’Adone ricalcano in larga misura il pensiero di Erasmo”, mentre l’Aretino, pur non affrontando in modo diretto il tema religioso, tuttavia in varie lettere parla in modo molto positivo, quasi entusiasta, del riformatore olandese, non trascurando che fu amico di Bernardino Ochino, come pure di Pier Paolo Vergerio, cioè la crema degli eretici. Ma una cosa in particolare li accomuna: entrambi scontarono l’amara delusione di non aver raggiunto il posto di rilievo cui certamente ambirono tanto nella corte quanto nella committenza pontificia, dove ogni espressione artistica, anche la letteratura, doveva raccordarsi al potere religioso e politico.
Resta da capire a questo punto è a chi spettò la ideazione e quindi la stesura dei tanto discussi affreschi di Villa Sforza.
Il fatto che questi rechino numerose tangenze con vari dipinti di Claude Lorrain fa dire al nostro autore che “la loro ideazione non può spettare ad altri che al maestro lorenese” ; se a ciò si aggiunge la netta corrispondenza individuata tra gli affreschi e i disegni di un altro noto lorenese, Charles Mellin –per di più amico carissimo del Lorrain, ma forse anche di Paolo Sforza, se è del lorense un ritratto del marchese come Luca Calenne ritiene- è a lui e alla sua bottega che “vanno riferiti le pitture principali della villa, ossia tutti i dipinti dell’Adone di Marino”; insomma la conclusione di Calenne è che
“a Mellin spetti un ruolo direttivo all’interno del piccolo cantiere pittorico di Villa Sforza” .
Certamente va riconosciuto che è stato un tragitto fatto di confronti stilistici, analisi testuali, ricostruzioni ambientali, quello che ha portato lo studioso ad affermare che “nel ciclo pittorico di Villa Sforza è riscontrabile agevolmente il suo (di Charles Mellin, ndA) stile”, e tuttavia mancano -come lui stesso riconosce- “le pezze d’appoggio” che lasciamo a chi vorrà proseguire la ricerca che il notevole libro di Luca Calenne ha realizzato, cercare di individuare.
E Paolo Sforza ?
“La parabola dell’heroe Paolo Sforza – riassume l’autore– sembra confermare l’adesione al programma mariniano di smantellamento dell’ideale eroico tradizionale”, come a voler giustapporre ad una esistenza vissuta alla ricerca dell’azione e della gloria l’immagine del piacere e della pace: “Tra le mura di Villa Sforza e nel suo rinomato giardino” dove si era realizzato “sia pure in sedicesimo” il percorso formativo prefigurato dal Marino
“Paolo poteva aspirare ad essere un epigono di Adone assaporando gli ozi che scaturivano dalle circostanze di pace”.
Proprio quello sarebbe stato il tragitto conclusivo del marchese di Proceno, che si sposò più volte, ed iniziò a coltivare interessi artistici; era ciò che evidentemente aveva desiderato far emergere.
P d L Roma 16 febbraio 2020