di Paolo MANGIANTE
Con Andrea Doria il Rinascimento approda a Genova.
E’ merito di Andrea Doria di aver fatto approdare al suo Palazzo di Fassolo, anche se un po’ tardivamente, il Rinascimento fiorentino a romano Genova. E seppure ormai non era più tempo per avere i massimi rappresentanti come Raffaello e Michelangelo almeno riuscì a far arrivare i loro migliori allievi come Pierin del Vaga e Giovannangelo Montorsoli accompagnati da altri che tanto minori non erano come il Penni e il Cosini. In verità il primo grande artista fiorentino chiamato a Genova per onorare con un monumento marmoreo Andrea Doria fu Baccio Bandinelli arrivato a Genova nel 1529 a raccogliere la commissione del Comune, assieme ad Alessandro De Medici che veniva nella città della Superba per rendere omaggio all’imperatore Carlo V, ospite del Principe Doria. Ma i lavori per la colossale statua di Andrea Doria nudo in veste di Nettuno, progettata con ricercatezza dal Bandinelli, non prese corpo che con gravi ritardi a la versione finale, lontana dalla finezza del progetto originale, che egli presentò solo nel 1537, non fu accolta con favore e venne rifiutata.
Il cardinale Gerolamo Doria chiese allora all’amico cardinale Innocenzo Cybo che gli trovasse un artista capace e degno da sostituire il Bandinelli, e il porporato gli propose Giovanni Angelo Montorsoli che in quel Momento lavorava a Carrara all’Ercole e Anteo e al cenotafio per il grande poeta napoletano Jacopo Sannazzaro. Il Montorsoli sulle prime tentennò, timoroso di perdere le commissioni medicee, anche perché nello stesso tempo era vessato da Pierfrancesco Riccio sobillato dal Bandinelli evidentemente invidioso che il suo incarico andasse a un altro. Alla fine però accettò capendo che la chiamata della Repubblica Genovese per soddisfare il Principe lo avrebbe messo in gran luce come scultore in marmo. Il Montorsoli ebbe per questa statua monumentale un primo pagamento nel 1539, ma credendo che essa sarebbe stata collocata al centro di Piazza San Matteo la modellò a tuttotondo, e quando poi invece essa fu posta a fianco del portone di Palazzo Ducale addossata al muro, ebbe a lamentarsene perché così la statua perdeva molto dei valori estetici per cui era stata concepita.
Per rappresentare il sommo ammiraglio egli si discostò dall’immagine allegorica ideata dal Bandinelli e connotò Andrea Doria come un generale all’antica con la spada e il collare del Toson d’oro. Di gusto imperiale romano col gesto dell’allocutio la statua rischiava di cadere nel retorico ma il turgore delle forme tradotto in forma carnosa e fluida non lontano da un certo pittoricismo lo salva dal pregresso michelangiolismo e c’è anche chi, come il Gamba, vede nei fregi e nelle figure ornamentali delle frange della lorica così finemente trattate, il suggerimento se non addirittura l’intervento di Silvio Cosini (fig.1) (G.Gamba, Silvio Cosini, Dedalo settembre 1929).
Purtroppo nel 1797 la statua di Andrea Doria e il suo pendant, raffigurante il vincitore di Lepanto Giovanni Andrea Doria eseguito da Taddeo Carlone a stretta imitazione della precedente, furono abbattute e terribilmente mutilate dai rivoluzionari giacobini. Dell’Andrea Doria si persero così la testa, le braccia, una gamba e un pezzo del basamento, forse la parte più fantasiosa, il quale ultimo però, per riflesso, si può immaginare, simile a quello copiato dal Carlone, nell’opera di quest’ultimo, che in quel punto si è fortunosamente salvata (fig.2).
Montorsoli non si limitò a ritrarre Andrea Doria a figura intera, seppure vagamente allegorica quale virtuale principe della città per il Palazzo ducale di Genova, ma, come ricorda il Vasari, si impegnò a ritrarlo due volte in forma di busto all’antica che, come altri due ritratti analoghi di Carlo V eseguiti a Genova nel Palazzo del Principe, sembra finirono in Spagna (figg.3,4).
Di tutto quel fervore creativo sorto nel Palazzo fuori mura del Principe Doria e tutto attorno nel suo giardino molto si è disperso o è andato perduto. A partire dai due ritratti dello stesso Andrea Doria ricordati dal Vasari di cui uno il più aulico e finito in Spagna e ora fa bella mostra di sé al Museo del Prado.
A Genova è tuttavia rimasto un busto di Andrea Doria eseguito dal Montorsoli, non in veste ufficiale, ma in forma domestica, dove il Principe viene rappresentato all’antica nudo ma con la sua tipica berretta in testa a sottolineare il suo potere come primo cittadino e ammiraglio. Il richiamo alla classicità è evidente nella sua esemplare nudità, anche se addomesticato dalla berretta marinara e mercantile (fig.5). Sfrondato di tutto, fuorchè di un’impressionante accigliata espressione di virile volontà e decisione, Montorsoli offre in questo ritratto di non grandi dimensioni un’immagine indimenticabile di colui che non si è lasciato intimidire da un Dragut o da un Gian Luigi Fieschi.
Il richiamo al ritratto di Sebastiano del Piombo (1526) è evidente ma l’originalità del Montorsoli di rappresentare l’ammiraglio nudo e crudo con la sola berretta non è certo da meno (figg. 5 , 6) .
L’opera poteva essere stata progettata per fare bella mostra sulla mensola di un camino del Palazzo, ma, essendo finita a tutto tondo, poteva essere destinata anche ad altre collocazioni.
Occorre premettere che il Montorsoli, seguendo anche i disegni di Pierin del Vaga, e sfruttando le sue cognizioni idrauliche mise a punto la sistemazione del giardino attorno al Palazzo di Fassolo e una prima collocazione delle sue monumentali fontane. Non tutto quello che rimane oggi della sistemazione e dei monumenti scultorei del Giardino di Fassolo si deve alla primitiva progettazione del frate, perchè notevoli sono state le successive acquisizioni e purtroppo anche le manomissioni e le perdite.
Per fortuna molto si è salvato tanto da far rimpiangere maggiormente quello che si è perduto.
Così ad esempio non v’è più traccia della colossale statua di Nettuno eseguita in stucco dal Montorsoli che forse riecheggiava il ritratto di Andrea Doria in veste di Nettuno che il Bandinelli aveva approntato a Carrara, ma che, rifiutato perchè evidentemente non corrispondeva al gusto del Principe e del suo entourage, rimase in quella città (fig.7), dove lo vide il Montorsoli quando lì anche lui lavorava.Non a caso il motivo dei delfini ai piedi del dio marino del Bandinelli ritrova nel Nettuno della fontana omonima di Messina (fig.17).
E così pure non esiste più la grande Peschiera che era stata la sede per cui Montorsoli aveva approntato li Tritone, il suo capolavoro genovese, che pur essendosi conservato non gode più della posizione dominante per cui era nato.
La più audace e innovativa testimonianza del Montorsoli nel giardino di Palazzo Doria è infatti senza dubbio la Fontana del Tritone il cui ruolo in origine differiva da quello proprio delle fonti in quanto il compito idraulico del mostro marino era quello di fornire l’acqua dalla bocca tenuta spalancata del delfino sottomesso ad un’ampia peschiera che dominava il giardino di Fassolo (fig.8).
Nella modellazione di questa scultura, come nelle altre eseguite a Genova, il contatto con il linearismo di Pierin del Vaga fu utile al Montorsoli per scaricare un po’ il gigantismo delle forme che lo legava al maestro e per rendere il plasticismo ancora michelangiolesco della sua scultura più morbido e sentimentale e ciò è ancor più evidente laddove glielo suggerisce il piccolo formato così come esprimono le morbide carni dei fanciulli della fontana andata in Spagna. Nel Tritone che si erge dalle rocce chiuso oggi in basso agli sguardi da una balaustra marmorea troppo avvicinata, ma che un tempo stava isolato al centro di una grande peschiera, si possono apprezzare solo in parte gli effetti chiaroscurali e pittorici che ne alleggeriscono la massa corporea grazie alla superficie lasciata grezza e porosa soprattutto in basso così da con-fondersi con la roccia sottostante (fig. 9).
Le smorfie del tritone e le sue torsioni preludono quelle altrettanto mirabili e ancor più drammatiche delle due stupende nereidi messinesi a guardia dello stretto, Scilla e Cariddi, un tempo poste ai lati del dio del mare della Fontana di Nettuno e ora riparate nel Museo di Messina (figg.10,10 bis).
Il successo di questo Tritone fu immediato e il Vasari ricorda che il Montorsoli fece una replica di questo mostro marino per il ministro imperiale Perrenot de Granvela e inviata in Spagna. Pertanto il motivo del Mostro che tiene stretto a sé un delfino a cui allarga la bocca perché dalla sue fauci esca copiosa l’acqua della fontana venne dal frate scultore replicato più volte, anche in forma più ridotta come in questa piccola fontana dove, alle fattezze del tritone, mostro marino, il Montorsoli diede forme mostruose terrestri di satiro (figg. 11, 12).
Del resto il Montorsoli si era già autorevolmente cimentato a Carrara in soggetti satireschi nell’Arcadia posta sulla base del Monumento a Iacopo Sansovino aiutato dal Cosini che probabilmente aveva ri-finito l’idea del rilievo impostata dal Frate ma non completata per l’impegno nel frattempo assunto a Genova presso il Principe Doria (fig.13).
Ed è significativo che la grande formella dell’Arcadia assieme ad altri elementi del Monumento, prima di essere montato a Napoli, fosse stata portata a Genova all’ammirazione dei genovesi ma soprattutto del suo nuovo potente committente.
Che la sucitata fontanella sia nata nell’ambiente scultoreo del Palazzo di Fassolo e in più che fosse dedicata ad Andrea Doria risulta comprovato dal fatto che Montorsoli per vezzeggiare maggiormente il Principe, suo committente, ormai praticamente signore di Genova, diede al fauno le fattezze di Giano bifronte protettore e simbolo della città di Genova. Il modellato del corpo e degli arti del Giano bifronte risulta più delicato di quello del Tritone, non solo per le minori dimensioni, ma anche perché su quel soggetto il Frate risentiva direttamente l’influsso del Cosini con cui si era già cimentato proprio sullo stesso tema dei fauni a Carrara e a Genova, se non nel Palazzo del Principe , sicuramente negli stucchi che ornano la volta della scala d’accesso al sepolcro di Andrea Doria nella Chiesa di San Matteo (fig.14).
In pratica lo spunto iconografico della fontana nasce dalla coniugazione del fauno della formella del Monumento al Sansovino nata a Carrara con il motivo del tritone che soggioga il delfino inventato a Genova (figg. 15, 16).
Stilisticamente di Michelangelo rimane ben poco, soltanto nelle parti meno esposte il vezzo del grezzo e del non finito, mentre l’insieme della delicatezza anatomica fa pensare al Cosini. Per le sue dimensioni ridotte la fontana era stata progettata per venire alloggiata non nel giardino, ma forse all’interno stesso del Palazzo del Principe in maniera simile alla fontanella di Nettuno di Taddeo Carlone nella sala di Costantino (fig.17).
Il motivo del Tritone che allarga le fauci al delfino si è radicato nella tradizione iconografica della sculura genovese che lo ricorderà ripetutamente nei secoli posteriori,applicandolo non più a mostri ma ad innocenti putti e bambini a partire dall’Orsolino (fig.18) per arrivare al Parodi e ai suoi epigoni (fig.19).
Alla fantasia del Montorsoli “genovese”è assai probabilmente legata la maschia modellazione di due fontanini a forma di delfino, la cui splendida patina testimonia la loro assodata collocazione domestica (fig.20), molto probabilmente all’interno anch’essi nel Palazzo del Principe, dove li vide Taddeo Carlone che, come aveva già fatto in precedenza con altre opere del Montorsoli, si appropriò del motivo per ripeterlo all’infinito sul perimetro della Fontana del Nettuno eseguita per il giardino del Palazzo di Fassolo di Andrea Doria (fig. 21).
Ma che l’idea parta dal Montorsoli lo si intuisce non solo dalla constatazione che il delfino ornamentale ma anche altamente simbolico, accompagna un po’ tutta l’opera del Montorsoli a Genova e a Messina altra città marittima per eccellenza (fig.22),
ma soprattutto lo conferma a pieno titolo il confronto con il delfino che attornia la gamba destra della figura gigantesca del Nettuno oggi riparata all’interno del Museo di Messina (fig.23).
Esso infatti è l’unico esemplare di delfino che possiede la stessa posa verticale e che condivide la stessa fiera grinta del muso dei due suddetti delfini (figg. 24, 25).
Grazie ad un recente restauro e alla sua nuova più felice collocazione presso il Museo de las coleciones Reales è ricomparsa agli onori del mondo e soprattutto degli studiosi italiani che quasi la ignoravano, la Fontana dell’Aquila (Fuente del Aguila), così chiamata perché sovrastata da un’aquila in metallo dorato, peraltro ora perduta, che si ergeva in alto sull’ultima tazza marmorea a sbandierare l’insegna araldica imperiale di Carlo V (fig.26 ) ( A.Perez de Tudela, Un regalo para el Emperador, Ars Magazine, n. 2023, pp. 64-72)
Questa grande fontana, scolpita da Giovannangelo Montorsoli nel cantiere di Fassolo e lì terminata nel 1539, sembra sia stata donata per ragioni diplomatiche da Andrea Doria a Carlo V, che sovente era stato ospitato dal Principe nel suo Palazzo genovese, laddove l’imperatore aveva potuto apprezzare la valentia dello scultore artefice. Arrivata smontata da Genova a Madrid nel 1540 con l’interessamento del segretario dell’imperatore, Francisco de los Cobos, la fontana non ebbe in verità la fortuna che meritavano la sue straordinarie qualità artistiche. Essa fu in un primo tempo collocata presso l’Alcazar rimanendo smontata perché in quel sito non esistevano le condizioni idrauliche per farla funzionare. Ne lì si provvide a creare quelle strutture idrauliche necessarie nel 1561 quando l’Alcazar divenne la residenza di Filippo II. Tuttavia per fortuna già nel 1562 si pensò di trasferire la fontana nella Casa del Campo residenza campestre circondata da larghi giardini che si pensò bene di arricchire con fontane di diversa tipologia fra cui si provvide alla sistemazione della Fontana dell’Aquila e finalmente all’acqua necessaria per il suo funzionamento, come sembra assodato in alcune carte del 1584 che riguardano l’incanalamento delle sue acque.
In questa sede fu vista e menzionata da Diego Perez de Mesa nel 1590 e da Cassiano dal Pozzo nel 1626 e riprodotta in un quadro anonimo del Museo di Burgos ora al Museo del Prado e in un fedele disegno fatto eseguire nel 1668 da Edward Montagu, I conte di Sandwich al suo segretario William Ferrer. Tuttavia in quello stesso anno Cosimo de Medici in visita alla casa del Campo dichiarava che lo zampillo della fontana non funzionava più. In seguito con la venuta dei Borboni la fontana tornò a funzionare ed era ancora in buono stato nel 1776 quando fu inclusa da Antonio Ponz nella sua descrizione della città di Madrid.
Nel 1895 La regina Maria Cristina in seguito la fece traslocare nel patio dell’antica Casa campestre annessa al Monastero de El Escurial. Nel 1998 la tazza ottagonale della fontana fu montata in Aranujez in occasione della Mostra Felipe II. El Re Intimo. Jardin y naturaleza en el sigloXVI, ma poi si tornò a immagazinarla nelle cantine del Palazzo Reale di Madrid prossimo alla casa del Moro, finchè finalmente ora si è arrivati al suo completo restauro e alla sua definitiva collocazione nella Galeria de las Colecciones Reales.
La Fontana dell’Aquila segue la tipologia della fontana a “Candelabro” propria del primo cinquecento italiano inaugurata dal Tribolo e poi seguita dal Montorsoli, dal Cosini e dagli altri, che consisteva in un pilone centrale che, partendo dalla prima vasca a terra, sorreggeva una serie di tazze di diametro via via degradante intercalate da figure portanti addossate al pilone centrale e terminante in alto da in una figura o animale simbolico che si ergeva all’apice dell’ultima vasca (v. fig.21). Un modello che ripete la tipologia della Vasca dei Delfini eseguita da Silvio Cosini forse anche in collaborazione del Montorsoli nel giardino del Palazzo del Principe, probabilmente sull’indicazione di un disegno di Pierin del Vaga di collezione inglese.
Nella Fontana dell’Aquila la prima vasca a terra a forma ottagonale è sottolineata da grifoni dalla testa leonina posti agli spigoli dei vari lati (v. fig. 26),mentre nella prima vasca della Fontana dei Delfini anch’essa ottagonale i grifoni dalla testa di grifo sono posti a metà di soli quattro lati mentre al giusto meszzo degli altri quattro lati al posto del Grifone sta una mensola sorretta da una zampa leonina (fig.27).
Nel complesso la Fuente de aguila appare come la prova generale del capolavoro assoluto del Montorsoli, la messinese Fontana di Orione (figg. 28, 29).
Al centro della prima vasca nella Fontana dell’Aquila si ergono quattro tritoni addossati al pilone centrale, simili a quelli della genovese Fontana dei Delfini che a mo’ di cariatidi sorregono la prima tazza, nella Fontana dell’Aquila probabilmente sostituita da un’altra rifatta posteriormente (fig.30). Questo motivo dei tritoni della prima vasca non varia granchè dalla Fontana dei delfini (fig.31) alla Fontana dell’Aquila e a quella della Fontana di Orione (fig.32).
Da questa prima tazza si ergono al centro tre uomini nudi frementi ed urlanti di cui uno con turbante (forse a significare la vittoria di Carlo V su Tunisi) in qualche modo ancora collegati fra loro,ma da cui ricadono le funi che prima li tenevano prigionieri.
Nelle figure di raccordo adossate al pilone che congiunge le varie tazze nella Fontana dell’Aquila si comincia a intravvedere quel movimento dei corpi che sarà poi la regola nella Fontana di Orione di Messina (fig.33).
Inquest’ultima le ninfe, che si sono sostituite ai “fauni-prigioni”della Fontana dell’Aquila a sorreggere la tazza più alta, si muovono e si aggrovigliano maggiormente fra di loro in un vortice di gambe e di braccia che non ha più nulla della posa ancora misurata di quelli(fig.34).
In più fra le ninfe si interpongono i delfini come avveniva fra putti e delfini nella Fontana dei Delfini. (fig.35).
Nella vasca cosiniana di Fassolo i putti si si muovono e giocano, mentre la preoccupazione maggiore per gli stessi putti nella Fuente de Aguila sembra che sia quella di tenersi avvinti con dei nastri alla colonna centrale (fig.36), quando infine nella Fonte di Orione questi si muovono e si articolano vivacemente, e, gioiosamente dimentichi della loro funzione di reggitori, aprono le fauci ai delfini e quasi si staccano dal pilone e dalla tazza col guerriero che dovrebbero sorreggere (figg. 37 , 38).
A ben vedere se dal riesame della letteratura su Giovanni Angelo Montorsoli emerge che la maggiore preoccupazione dei vari autori è stata quella di sfrondare l’egida di Montorsoli quale semplice “allievo di Michelangiolo” per arrivare a fornirgli un’immagine di artista originale ed autonomo come in effetti testimoniano ampiamente i capolavori messinesi, la tappa genovese al servizio di Andrea Doria assume un ruolo intermedio di enorme portata per l’accostamento con la cultura raffaellesca mediata a Genova dal suo allievo Pierin del Vaga e da Silvio Cosini che già l’aveva assimilata, e grazie all’assunzione di un pittoricismo fino allora ignorato, attenua l’eccessivo plasticismo delle sue creazioni in favore di un sempre maggiore naturalismo e dinamismo espressivo dei corpi.
A Genova Montorsoli non solo abbandona il michelangiolisno più vieto che lo aveva in qualche modo impacciato, ma, come anche i nuovi apporti dimostrano, egli assume un indirizzo anticlassico e un linguaggio nuovo, che quasi prelude al Barocco. In questa ottica di rinnovamento le nuove opere del soggiorno genovese qui illustrate aggiungono tasselli importanti di conferma e di nuove cognizioni di opere che sono la giusta premessa ai grandi capolavori della stagione messinese.
Spetta allo studioso, sulla base dei documenti scritti e sull’esame di quanto è rimasto, di quanto è assodato sia andato perduto e di quanto ancora si oggi ritrova cercare di ricostruire tutto l’impegno architettonico e scultoreo di Giovanni Angelo Montorsoli nella sua età di mezzo, una storia la cui valenza artistica non è stata forse ancora appieno valutata nel suo giusto valore.
Paolo MANGIANTE Genova 8 Ottobre 2023
BIBLIOGRAFIA