redazione
Giulia Napoleone: la meditazione ininterrotta dei segni
Bruno Corà
E’ la poesia di Dante, in questo ritorno fiorentino di Giulia Napoleone al “Ponte”, a fornire l’apertura alla riflessione sulle sue più recenti opere costate circa due anni di lavoro e molti di più per dotarla oggi di una lingua visiva in grado di suscitare immagini che ammirerebbe anche l’altissimo poeta se si trovasse al mio posto:
«La gloria di colui che tutto move/ per l’universo penetra e risplende/ in una parte più e meno altrove»[1]
E basterebbero questi primi versi della protasi del Paradiso dantesco a suggerire un possibile sentiero ermeneutico da percorrere tra i molti che l’opera di Giulia Napoleone provoca avendo raggiunto la semplicità potente che è qualità dei grandi artisti. Il lavoro infatti esibito in queste recenti opere, non diversamente da quello che lo ha preceduto nel corso di mezzo secolo, seppur compiuto con elementarità lessicale -il punto e talvolta la linea, il segmento geometrico circolare- si rivolge ai valori universali del tempo dello spazio, dell’immaginazione, della memoria, della realtà, del sogno, del desiderio, dell’esperienza, dell’episteme rivolta ai principi e ai limiti come pure agli illimiti insondabili e irraggiungibili, non esclusi quelli della coscienza. E, come ogni autentico poeta, Giulia Napoleone di ritorno dall’osservazione dei cieli e della luce potrebbe ripetere, come Dante stesso suggerisce nei versi che seguono quei primi evocati, «…Vidi cose che ridire né sa né può chi di là sù discende»[2].
Già, ma questo è il destino e il limite della parola! Per questo però l’arte ha dotato qualcuno come Giulia Napoleone della capacità di visualizzare l’indicibile e di dare forma all’invisibile.
Gli effetti che la pittura o comunque l’immagine d’arte reca, a seguito di esperienze che si rivelano essenzialmente metafisiche, hanno il potere di condurre il pensiero alla causa prima e al cospetto degli enigmi più resistenti.
Inseguire la luce nell’andare verso un dove ignoto
Della luce e dell’ombra Giulia Napoleone visualizza la silenziosa ma pervasiva entità. Di giorno e di notte i due fenomeni non conoscono soluzione di continuità. Dirò subito pertanto che la sua arte affronta uno dei rovelli più ardui che hanno attraversato la vita di taluni grandi artisti e – credo di poter affermare – non diversamente quella della stessa Napoleone.
A Roma, dove Giulia Napoleone ha compiuto un lungo tratto della sua vita e del suo lavoro, tra il 1959 e il 1962, attua la sua breve ma intensa parabola artistica anche Francesco Lo Savio, all’insegna di un binomio di ricerca audacissimo: “Spazio e Luce”. Purtroppo il tragico epilogo esistenziale di quell’artista coraggioso e pieno di intuizioni precoci e di straordinaria intensità né interromperà gli sviluppi. Ma mi sembra lecito pensare che, seppur con un sentiero autonomo e parallelo, il lavoro di Giulia Napoleone si sia anch’esso spinto in quella dimensione ardua e solenne inseguendo la luce nello spazio in aperture e latitudini sempre più estreme, piene di rischio ma stupefacenti, ai confini del pensiero visivo e di quello scientifico.
Alcune fotografie sperimentali eseguite nel 1960 dalla Napoleone si mostrano dialettiche con le ricerche relative ai “Filtri” di depotenziamento luminoso realizzati da Lo Savio in quello stesso anno. Forme circolari scure in contrasto con forme circolari chiare distinguono le foto di Napoleone mentre Lo Savio sovrappone carte di diversa grammatura e trattamento nelle quali ricava a ritaglio dei tondi che servono a denotare la diversa capacità di attraversamento della luce da un foglio all’altro. In fasi successive si può constatare il reiterato studio della luce in numerose opere di Napoleone, sopratutto nell’acquaforte, acquatinta Ricerca di luce, 1972, nella xilografia Senza titolo, 1976, nelle maniere nere Orizzonti, 1977, nel Mutare dell’ora, 1982-83 (acquerello), in Luci a Numana, 1983, negli inchiostri Oscurarsi, 1984, nella Notte a Numana, 1985, e in Sentieri di luce, 1991.
Diverso ma altrettanto assiduo in ricorrenti versioni è lo studio dell’ombra che consegna esiti di differente ed originale sviluppo spaziale. Si va dalle Ombre della sera, 1978, Ombra del mattino, 1978, e Ombra del mare, 1978, tutti inchiostri su carta astratti, ad inchiostri come Studio per Kitawa, 1978 dove l’ombra è deliberatamente ancillare al dato naturale e figurale. Ma dell’ombra Napoleone offre anche altre apparizioni: nella matita Solo se ombra, 1983 o nell’inchiostro L’ombra, 1987 fortemente differito nei segni e nelle forme, o nell’inchiostro su carta Ombre a Villa Doria Pamphili, 1985 sensibilmente diverso dall’omologo Ombre, 1989, in maniera nera.
Entrambi tuttavia mettono in risalto adombrati orli di vegetazione che sembrano echeggiare i ‘frattali’ costieri studiati da Benoît Mandelbrot per le sue inedite geometrie. Estremamente lirico Luce ed ombra, 1991 con l’inchiostro dà corpo ulteriormente alla più antica delle antinomie, mentre le maniere nere di Specchi d’ombra, 1992 hanno la sensibilità di riportare alla ribalta insieme con Acqua VI, 1992 e la puntasecca Sera, 1996, l’ossessivo tema della mutevolezza simultanea dei dati naturali luce, ombra, acqua, nubi, vento, cielo che già impegnarono per un ventennio la tenace pittura di Monet nelle Ninfee osservate nel suo giardino a Giverny.
Tra fisica e poetica: gli interlocutori linguistici
Se in fisica la misura dell’importanza di una teoria si valuta dallo sconvolgimento della visione dei fatti naturali che in precedenza sembrava immutabile (Brian Greene) analogamente in arte l’importanza di una teoria linguistico-visiva si misura sulla nuova concezione della qualità di spazio che ci consente di riguardare il mondo e la realtà con altri occhi, come se tutto si riaprisse davanti a noi.
Il lavoro di Giulia Napoleone ha la proprietà di chiamarci a constatare come l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo si manifestano in una ambigua equazione che parla dei principi della materia come delle leggi cosmiche, provocando il pensiero a una sintetica presa di coscienza di un quadro coerente delle proprietà dello spazio-tempo: il sistema segnico da lei messo in atto non appartiene al dominio della scienza ma a quello dell’arte, eppure esso invita a capire che l’universo è costituito di particelle elementari, che in esso si oppongono delle forze, che il vuoto è pieno di fluttuazioni di forme ed energie; le immagini di Napoleone sovente alludono indirettamente a colonie di atomi, ognuno col suo nucleo e con neutroni e protoni circondati da sciami di elettroni che orbitano attorno al nucleo. Naturalmente il disegno della Napoleone non intende descrivere tutto ciò poiché non è naturalistico ma suscitare molto di più poiché le sue configurazioni di spazio integrano quello che si può osservare nei cieli e nell’universo con ciò che elabora la sua mente e anche la nostra. Infatti, nell’immaginario di ciascuno considerato come ‘altroverso’, tutti noi ci rivolgiamo all”universo’ per percepire una totalità non solo fisica, non solo psichica ma perfino auspicatamente trascendente che verrebbe da definire come sorta di ‘multiverso’.
«Anni di affannose ricerche al buio, di intenso desiderio, di alternanza di ottimismo e disperazione, e alla fine di tutto la luce».[3]
Queste parole di Einstein potrebbero essere pronunciate, con i dovuti coefficienti di relazione riferiti al proprio lavoro, da artisti epocali come Lucio Fontana, Enrico Castellani, Sol Lewitt, Roman Opalka, Agnes Martin, Dadamaino e da Giulia Napoleone.
La quale, in questa specifica compagine rapidamente da me supposta e tracciata può, a buon diritto, rivendicare le sue unicità intuitive e i propri principi metodologici e linguistici. Se Fontana infrange il diaframma della tela per indicare una spazialità ulteriore a quella della rappresentazione per giungere alla nozione di ‘concetto spaziale’ reale e Castellani sensibilizza e modula la superficie suscitando spazi dai ritmi infiniti, Opalka nomina ed enumera gli intervalli istantanei sulla tela, come la clessidra con la sabbia, enucleandone la spazio-temporalità; non diversamente, un analogo processo di strutturazione dello spazio compiono Agnes Martin e Sol Lewitt, incentrato sulla declinazione dei segmenti lineari in ordine ciascuno a personali criteri compositivi e di organizzazione delle superfici investite dal segno.
Con un sentimento disciplinato dalla tensione iterativa che evoca la prassi quotidiana dell’amanuense medioevale e sorretta da una motivazione etica che si rivolge tanto al sentire sociale che al privato, Dadamaino aspira anch’ella con i segni a rivelare il continuum del flusso degli eventi, delle cose, del tempo-spazio fino a occuparne porzioni sensibili. In tale contesto Giulia Napoleone ha individuato altre leggi, altri ordini, ulteriori dimensioni che, pur dialettiche sul piano semiologico con quelle degli artisti sin qui indicati, hanno però la forza e l’intensità di rivelare enigmi naturali e relative risonanze endopsichiche che con quelle ignote manifestazioni del micro e macrocosmo hanno diretta empatia.
Ad occhi chiusi chiunque si stropicci le palpebre, sullo schermo buio della caecitas momentanea, può osservare caleidoscopiche formazioni di fosfemi della durata di millesimi d’istante, molto simili alle colonie di microrganismi rivelati da una lente di microscopio o alle concatenate formazioni di nebulose piene di costellazioni e di corpi celesti, stelle o pianeti raggiunti da un potente telescopio. La novità del lavoro di Napoleone consiste da tempo nell’antico segreto di saper estrarre chiavi e regole da quelle incommensurabili dimensioni percepite in natura e dentro di sé, per elaborare in segni elementari scelti alla bisogna, cerchi, punti, linee, una diversa densità misteriosamente organica, topos di tracciati ideali e di configurazioni conformi, che hanno limiti aperti, che forzano il lato convenzionale delle morfologie rintracciabili in natura per annunciarne altre inedite. Anche se in natura, osservandone gli aspetti, il richiamo alla perfezione è continuo, il mondo nell’insieme rivela però anche la propria ottusità indifferente, il proprio caos, le proprie casualità o – non si sa come altro definire – la sua estraneità fenomenica verso le aspettative ingenue e ignare di un’umanità che invano presume, ancorché si abbia grande considerazione della scienza, di poter porre tutto sotto il proprio controllo.
L’arte di Napoleone disegna quella parte del mondo che non si manifesta mai e che invece, grazie a un mutevole paradigma di segni tracciati per inventare lo spazio-tempo, riesce a visualizzare e dunque a far venire alla luce.
E’ un’integrazione tra il mondo che si mostra così come è in varie apparenze e quello nascosto e percepito interiormente, grazie a quell’«incertezza assidua» che la spinge ogni volta a racchiudere in un’immagine, un eterotopia del pensiero, che tuttavia non ha niente a che vedere con la mimesi o con la cosiddetta ‘illustrazione’. Semmai – molto più efficacemente indirizzata – l’operosità di Giulia Napoleone è rivolta a scoprire l’essenza enigmatica del tempo-spazio, in un processo orientato sia ad avanzare nell’incognita dell’arte sia nella ‘conoscenza di sé’.
L’attività incisoria e calcografica – di cui deliberatamente taccio in questa circostanza per quanto è unanime l’apprezzamento che la circonda – e, alla stregua, il disegno a inchiostro inducono fortemente alla meditazione chi pratica tali arti. E Giulia Napoleone ha dedicato ad entrambe una gran parte della sua vita e della sua attività.
La mostra
L’osservazione nella più recente produzione di disegni presenti in questa mostra sembra proprio confermare l’attitudine autoconoscitiva e al contempo speculativa a cui il disegno reca. L’espressione «Gli uomini sono creature che partecipano a spazi di cui la fisica non sa nulla» (Sloterdijk) può in gran parte sorreggere l’ipotesi avanzata in questa mia breve riflessione secondo cui lo studio della natura e quello stesso della propria interiorità conducono un’artista come la Napoleone ad un grado di conoscenza che descrive spazi ignoti alla fisica e anche alla filosofia stessa.
La topologia di cui in molte opere Napoleone traccia le coordinate spaziali è quella di uno spazio che evoca luoghi notturni e diurni, di sogno e di veglia ipnagogica, di desiderio e di ansia, di quiete e di inquietudine; sono luoghi che dimostrano effettivamente che ognuno di noi non risiede solo là dove abbiamo dichiarato di vivere ma in molti ulteriori ‘altrove’.
L’episodio espositivo fiorentino d’oggi di Giulia Napoleone, voluto dalla passione reiteratamente premurosa e da ‘connoisseur‘ di Andrea Alibrandi[4] impegnato ad offrire pubblicamente le sue più recenti creazioni si articola in tre gruppi di opere elaborate ad inchiostro di china di diverso formato e supporto. Si tratta di chine su carta pregiata distinte dalle misure (sette di esse di cm 103×103, quattro di cm 103×153) e di tavole preparate (una decina di cm 50×50). La diversità degli esiti fa riflettere sulle alterne pregevoli qualità ottenute dalla Napoleone.
Il trattamento diverso delle chine sulle carte e sul legno induce a motivi che trovano il loro equilibrio attraverso tracciati che l’occhio e la mano governano con soluzioni adeguate. Così le chine su carta Vaste rumeur e Au borde du vîde evidenziano rispettivamente l’estendersi sia degli inanellamenti sonoro-visivi dei tracciati alla stregua degli effetti prodotti da gocce di pioggia in uno stagno, sia la geografia di orli e arcipelaghi di luce ed ombra in cui la complementarietà delle due entità è assoluta. In Me plain d’ombre come in L’istant qui oscille la maglia fitta dei segni sembra estendersi come una rete e nuovamente si attua quel miraggio-miracolo in cui è quasi indistinguibile la prevalenza del dominio della luce sull’ombra o viceversa. Au dessu du vîde esibisce la sua regale geometria di triangoli equilateri concentrici come in una matrioska.
I tracciati puntiformi che compiuti a mano libera derogano dalla perfezione in realtà esaltano il dato della manualità che rivela il valore temporale e spaziale necessario alla realizzazione dell’opera. La valenza geometrica è protagonista anche delle chine Stabilité du silence e Etoile qui s’ensuite, circonferenza e cuneo come zone di sensibilità segnica parziale ma definita e zone determinate in una latitudine indeterminabile. Le chine sui fogli di carta più grandi lasciano differentemente percepire la qualità estensiva delle processioni di segni che in Ou courent les signes si rivelano orizzontalm ente aperti in ogni direzione, come faglie sismiche enunciate anche nel Le tremblement du corps entier dove una circonferenza e la sua metà rendono emblematica, rispetto a La lampe et c’est le noir, la differenza tra una divisione fisica ed una cromatica ottenuta per diversa intensità di segno. Totalmente soggetta ad una forza idealmente disgregatrice è infine Un geometrie qui tremble.
Sulle tavole preparate e disegnate ugualmente a china, se si esclude il linearismo puntiforme dominante La trace, disegno ramificato come meandri fluviali, la maggior parte dei motivi celebra le numerose facoltà geometrico-iconografiche di rappresentazione del quadrato nel quadrato, come Clarté I, o della circonferenza nella forma quadrata del supporto come Le noir e sto arrivando, Chute des atomes, Tout est nuit, Le clarté II, Au milieu, e infine il poligono dai venti lati L’espace, 2018 in sublime metamorfosi verso una circolarità quasi raggiunta.
Nella successione di morfologie esibite dalla Napoleone è forte il richiamo ai giacimenti dell’elaborazione disegnata di geometrie che dalla tradizione platonica del Timeo a quella protorinascimentale del “De Divina Proportione” giunge sino alla complessità delle geometrie teoriche del fisico Thomas Wright (1750) e a quelle frattaliche del tutto contemporanee alle intuizioni-invenzioni della nostra artista.
Sono convinto e concordo pienamente col pensiero di Carlo Bertelli quando afferma, a proposito di personalità artistiche come la Napoleone, che «chi ha tenuto duro non resterà solo», se una «critica radicale priva di compromessi» saprà coniugare quella tensione etica con il «desiderio di silenzio» di generazioni realmente dedicate all’arte e protese come lei all’indipendenza poetica.
[1] Dante Alighieri, Divina Commedia – Paradiso, Canto I.V. , v.1-3, a cura di N. Sapegno, La Nuova Italia, Firenze, 1999, p. 5.
[2] Ibid.
[3] Albert Einstein, in Martin J. Klein, recensione a R.W. Clark, “Einstein: The life and Times”, in «Science» vol. CLXXIV, pp. 1315-16, ripubblicato in Brian Greene, L’universo elegante, Einaudi, Torino 2016.
[4] Cfr. i contributi critici dedicati alla Napoleone in “Andrea Alibrandi – Giulia Napoleone, La percezione della luce come emozione”, Edizioni Il Ponte, Firenze, 1996 e “Giulia Napoleone, Mutano i cieli – Dipinti 1999-2001”, testi di Andrea Alibrandi e Lucia Presilla, Edizioni Il Ponte, Firenze, 2002.
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