di Elena TAMBURINI
Secondo Svetonio, la vita di Cesare è stata segnata da una sorta di trauma.
Giunto a Cadice e dunque all’estremità del mondo allora conosciuto, come questore della Spagna Ulteriore (69-68 a. C.), gli accadde di vedere, vicino al tempio di Ercole, la statua di Alessandro Magno[1]. Le straordinarie imprese di Alessandro, eroe mitico per gli antichi, gli erano ovviamente ben note. Ma c’è di più: il tema dell’imitatio Alexandri condizionò Cesare al punto da condividere con lui il sogno di una conquista di quello che i Greci chiamavano l’oikoumène, inteso come tutto il mondo allora conosciuto e abitato. E non sono pochi gli scrittori antichi e contemporanei che nel tempo hanno accostato i due condottieri: fra i primi, come è noto, Plutarco. Eppure la visione di quella statua ebbe il potere di farlo piangere: perché quella visione lo rese improvvisamente consapevole di non aver compiuto alcuna impresa memorabile a un’età in cui il condottiero macedone aveva già sottomesso il mondo intero. Un’altra immagine ancora lo condizionò e lo turbò, quella di un sogno ékthesmon, raccapricciante[2] in cui egli si accoppiava sessualmente con la madre: ma questa ebbe il potere di spronarlo alle più alte imprese, dal momento che gli indovini, espressamente consultati, interpretando la madre come la terra, gli preconizzarono un futuro glorioso, di dominio sul mondo.
Forse fu così che egli apprese il potere delle immagini.
L’archeologo tedesco Paul Zanker, che ha studiato quelle di Roma, intendendo
“mostrare come un mutamento di sistema politico possa condurre allo sviluppo di un nuovo linguaggio visivo, che riflette e insieme condiziona in modo essenziale l’evoluzione della mentalità”[3],
vede il nodo fondamentale del mutamento in quelle di Augusto: è a partire da lui, egli scrive, che l’arte è messa al servizio del potere e del mito imperiale.
In realtà è Cesare che sembra capire per primo, e in maniera quanto mai moderna e spregiudicata, l’importanza del linguaggio delle immagini. E sembra di poter ricondurre questa sua precoce intuizione a un motivo importante e preciso.
Fin dai primi atti del suo consolato (59 a. C.), egli dichiarò che avrebbe governato solo con il concorso del popolo. In un altro suo discorso, tenuto in un momento in cui avrebbe potuto mettere in atto le peggiori vendette (45 a. C.), dichiarò ancora che si doveva realizzare un nuovo patto di reciproco sostegno e che non era nel suo carattere governare senza il consenso dei romani, rinnegando promesse già fatte, come era avvenuto ai tempi di Mario e di Silla[4]. Non si tratta solo di magnanimità. Cesare scopre la forza e l’importanza del consenso popolare e addirittura dell’opinione pubblica, se è lecito ripetere quanto scritto da Jerôme Carcopino. L’espressione usata dallo storico francese è certamente discutibile, essendo l’opinione pubblica un concetto legato all’età moderna; ma nella sostanza lo è meno di quanto si potrebbe pensare.
Accusato di autoritarismo, Cesare impose la diffusione degli Acta Senatus e degli Acta populi, che erano una sorta di gazzette ufficiali del Senato e del popolo e che poi egli trasformò in Acta diurna, con notizie politiche e cronachistiche: una consuetudine che si sarebbe mantenuta per tutto il corso dell’impero e in cui si è riconosciuta la prima idea dei nostri giornali.
Cesare era un uomo colto, un letterato e un intellettuale: a lui si riconduce la trasformazione dei macchinosi volumina da srotolare in più agili codices, libri da sfogliare, nonché il primo progetto di una biblioteca pubblica in Roma[5]: iniziative che, ufficialmente nate da preoccupazioni di trasparenza e di diffusione culturale, pur con tutti i limiti del caso – anche i giornali attuali possono essere strumento per indirizzare e manipolare l’informazione e Cesare non era certamente in tal senso uno sprovveduto[6] – , basterebbero ad assicurargli vera fama anche in questo campo.
Ma sono in realtà le immagini il suo strumento più prezioso. Cesare riuscì a capire che il popolo di Roma non era più quello, integro e omogeneo, dei primi tempi della repubblica e che con esso non sarebbe stato facile comunicare con gli strumenti tradizionali. Appiano scrive chiaramente di questo mutamento:
“Il popolo […] è un vero miscuglio per la presenza di stranieri, il liberto gode gli stessi diritti del cittadino, lo schiavo veste come il padrone; se si esclude la veste del senatore, ogni altro abito è comune a liberi e schiavi”[7].
A quel popolo, misto per linguaggio e per cultura, era certo più facile comunicare con le immagini e Cesare se ne servì fin dall’inizio con un’audacia e una sicurezza che sarebbero rimaste insuperate. Secondo Plutarco, le enormi spese e i debiti che sempre lo gravarono erano diretti all’organizzazione di feste e spettacoli di ogni genere con cui egli si assicurava “a basso costo” obiettivi importanti come appunto il favore popolare e le cariche pubbliche[8]. Erano dunque immagini il più delle volte effimere, di cui resta solo, e non sempre, una sommaria descrizione; e probabilmente per questo oggi si è portati a sottovalutare l’intervento in questo campo del dittatore romano.
Plutarco scrive che all’inizio si segnalò fra i concittadini per i funerali di due donne. Era ancora questore quando organizzò il funerale di sua zia Giulia, vedova di Mario. Come poté capire che era tempo di recuperare agli onori la figura di Mario, già bandito dalla damnatio memoriae sillana? Si direbbe che lo guidasse una sorta di istinto politico legato al sentire delle masse, che infatti sempre lo predilessero. In occasione di queste esequie egli fece infatti esporre pubblicamente le eikònes Marìon, i ritratti dei Marii. [Fig. 1]
Quanto allo stesso generale, sembra che durante i rituali si scoprisse all’improvviso una statua che lo ritraeva vestito con la veste trionfale: essa era legata ad un meccanismo che ne permetteva la completa rotazione perché la si potesse ammirare da ogni lato[9]. L’audacia di queste esposizioni suscitò vivaci proteste fra i sillani; ma il popolo reagì positivamente e gli fu grato. Cesare approfittò di quelle esequie per un discorso pronunciato dai Rostri[10], cioè dalla tribuna degli oratori posta nel Foro romano, vale a dire nel luogo in cui ogni atto e ogni orazione diventavano ufficialmente “pubblici”.
Quel luogo, che si potrebbe dire un archetipo della repubblica e dei populares, risuonava ancora delle arringhe dei tribuni della plebe e dei Gracchi; ed è in qualche modo significativo che la vita politica di Cesare inizi – e poi finisca – in questo luogo mitico. Quel discorso di Cesare, apparentemente concepito in lode della zia, aveva infatti una forte valenza politica: ricordava a tutti l’origine regale, da Anco Marzio, e perfino divina, da Venere, della sua famiglia. [Fig. 2]
L’evento gli consentì dunque di ingraziarsi sia i populares che gli optimates. Ma nel rivendicare la propria origine divina egli si dimostrava anche degno erede di Alessandro, che si era autoproclamato figlio di Zeus; e si richiamava ai vari sovrani ellenistici, tutti più o meno impegnati a trovarsi progenitori divini. Venere, antica dea indigena laziale, era considerata protettrice dell’Urbe e vi era onorata e invocata. Un po’ tutti i dittatori le furono devoti: si pensi alla Venere di Quinto Fabio Massimo, alla Venus Felix di Silla e alla Venus Victrix di Pompeo e dello stesso Cesare. Si sa che il piccolo tempio di Venere di Pompeo (di cui si dirà) era dedicato a Venus Victrix e che Cesare aveva dato alle sue legioni come parola d’ordine proprio Venus Victrix; ma il caso di quest’ultimo era infinitamente più prestigioso rispetto a quello di tutti gli altri, potendo rivendicare la dea come ava, come Venus Genetrix[11]. E non perse occasione per farlo.
Affinché queste sue divine ascendenze fossero sempre ricordate, egli portava al dito un anello in cui era incisa Venere armata, cioè recante in mano una piccola Vittoria alata[12]: una Venere dunque trionfante e vittoriosa, simile all’Afrodite Nicefora greca[13]. Se fosse vero che una statua intitolata a quest’ultima era venerata dai sanniti e che essa fu portata a Roma (292 a. C.), non solo e non tanto come bottino di guerra, ma soprattutto perché era considerato importante appropriarsi degli dèi dei popoli vinti, essa potrebbe essere un tramite per quella fusione di Venere con l’Afrodite dei greci che si è sempre postulata, senza troppo documentarla.
Va notato che in Grecia il culto della dea Nike fu sempre unito a quello di Atena[14], mentre a Roma quello della Vittoria sembra associato proprio a quello di Venere; e non c’è dubbio che Cesare abbia dato a questo culto nuovi argomenti. Un denario che per lui fu coniato (e i cui temi furono più volte ripresi) [Fig. 3-3 a unire in Fig. 3] mostra sul recto la testa laureata di Cesare e sul verso proprio questa Venus Victrix, con lo scettro nella mano sinistra e una piccola Vittoria alata nella destra protesa[15].
3-3a. Denario coniato forse per la morte di Giulio Cesare, 44 a. C. D.: Testa di Cesare con scritta “Caesar Imp” e con stella a 8 raggi dietro la nuca. R.: Venere con una piccola Vittoria alata nella mano destra protesa e uno scettro con stella alla base nella sinistra.
Un altro denario (46 a. C.) [Fig. 4] mostra sul verso un erculeo Enea, figlio della dea (e dunque anch’egli avo di Cesare), che porta in salvo il padre Anchise, reggendo in mano il Palladio troiano.
E’, tra l’altro, una rara figurazione del prezioso cimelio: una piccola Pallade, alata come la vittoriola citata, ma armata, e che si diceva gelosamente conservata a Roma nel tempio di Vesta, come uno dei sette pignora su cui si fondava la sacralità dell’Impero romano[16].
Non c’è dubbio che l’immagine di valore e di clemenza che egli si impegnò nel tempo a impersonare e a diffondere trovasse in quest’immagine non poche rispondenze; anche se il suo grande modello non fu tanto il pius Aeneas, ma, come detto sopra, Alessandro Magno e probabilmente non è un caso che, proprio sul fronte delle immagini, molti dei temi cesariani – di cui si dirà – sembrino ripresi da quelli del grande condottiero macedone: l’elefante, l’Oceano, il carro dorato, la stella a otto raggi, la statua con dedica al Deus invictus [17] [Fig. 5].
Venere era anche legata alla dea Fortuna: il tractus Veneris era un colpo fortunato del gioco dei dadi: a questi e alla fortuna, più che alla virtus [18], Cesare sembrò ispirarsi quando pronunciò il celebre alea iacta est. Ma vale anche la pena di ricordare che, secondo Svetonio, alla sofferta decisione del passaggio del Rubicone egli arrivò dopo la prodigiosa visione di un uomo bellissimo che suonava il flauto, come a incitare quel passaggio[19].
Il secondo funerale che gli fu utile fu quello della sua prima moglie Cornelia di cui recitò, ancora pubblicamente, l’elogio funebre; cosa consueta per le donne anziane, ma non per le giovani. La novità di un’indole “mite e affettuosa” in un uomo di potere, osserva Plutarco, fu molto apprezzata dal popolo e servì ad accattivargli l’affetto universale; forse, particolarmente delle donne, che infatti sempre lo amarono.
Osserva peraltro Plutarco[20] che fu la sua consuetudine di organizzare magnifiche feste e conviti e il suo splendido tenore di vita che furono i fattori determinanti del suo successo. Non si erano visti mai spettacoli così grandiosi come quando fu eletto edile: promosse rappresentazioni, cacce, parate e banchetti pubblici; e ludi di ogni genere, ludi che avevano perso da tempo ogni senso religioso. Eppure egli dedicò ai Mani di suo padre morto uno spettacolo in cui si esibirono ben trecentoventi coppie di gladiatori con splendenti e preziose armature d’argento[21].Così come offrirà gladiatori, banchetti e naumachie ai Mani della figlia (già moglie felice di Pompeo), pure defunta: e anche in questo caso fu notato come una simile offerta alla memoria di una donna fosse una novità assoluta[22].
Non erano certo riti funebri: era evidente sia che egli condivideva con i concittadini la passione per quegli spettacoli, sia – soprattutto – che egli coglieva ogni occasione per strumentalizzare quella comune passione ai propri fini. Era infatti incontestabile che, per ricambiare tanta munificenza, ogni romano si sentiva impegnato ad eleggerlo in tutte le cariche possibili. I suoi avversari inizialmente sottovalutarono il grande favore popolare che poté accattivarsi in tal modo. Uno dei pochi che lo capì fu Cicerone. Il quale di lui pensava infatti che preparasse la tirannide; eppure non riusciva a conciliare questo sospetto con il suo aspetto elegante e curato fino all’effemminatezza: che era probabilmente un modo, anche quello, di distinguersi fra tutti.
“Nella cura del corpo, scrive Svetonio, fu alquanto meticoloso al punto che non solo si tagliava i capelli e si radeva con diligenza, ma addirittura si depilava, cosa che alcuni gli rimproveravano. Sopportava malissimo il difetto della calvizie per la quale spesso fu offeso e deriso, e per questo si era abituato a tirare giù dalla cima del capo i pochi capelli”[23];
cioè si pettinava con i riporti.
Il che risulta anche dal famoso busto di Tuscolo che è forse il suo ritratto più affidabile. Scrive ancora Svetonio che nessun onore o privilegio egli apprezzò più della corona d’alloro (o era forse piuttosto di mirto, sacro a Venere[24]?) che gli consentì di nascondere la calvizie. [Fig. 6]
Cesare fu sempre fedele alla parte politica della sua famiglia, quella dei populares, benché essa, specie agli inizi del suo cursus honorum, fosse decisamente perdente. Alcune statue di Mario, il più famoso dei populares, accompagnate da Vittorie che portavano trofei, statue scintillanti d’oro, eseguite con arte e corredate di scritte che ricordavano le molte vittorie del generale, furono nottetempo collocate in Campidoglio[25]. Era una reazione di Cesare al mancato conferimento di un comando straordinario in Egitto e nessuno ebbe dubbi su chi fosse l’autore di questa ulteriore trasgressione.
Ancora una volta le reazioni furono contrastanti, ma prevalsero nettamente quelle di plauso. I mariani questa volta ebbero il coraggio di uscire allo scoperto e furono tanto numerosi da riempire il Campidoglio; e molti piansero di gioia e ci fu chi disse che Cesare era l’unico degno di essere imparentato con un generale così grande. Ancora una volta si disse di lui che quelle immagini erano state uno strumento politico: con esse infatti era riuscito a conquistare l’ambitissima carica di pontefice massimo.
Chi gli fu sempre nemico fu Catone l’Uticense, “l’uomo più amante della democrazia e più saldo nei suoi propositi fra tutti i contemporanei” (Cassio Dione), ma sentito anche, ingiustizia della sorte, come “noioso e litigioso” (Plutarco). Catone avvertì il pericolo di quella personalità brillante e fascinosa. E un nodo importante del loro contendere fu forse la diversa posizione sulle immagini.
Prima di tutto quella di se stessi. Catone infatti era tutt’altro che elegante: si dice che fosse solito vestire una semplice tunica. Ma anche il loro giudizio su altre immagini, quelle dell’arte per esempio, era diverso. Non era in realtà una questione di poco conto. Si direbbe che la posizione del primo riproducesse, perfino con maggiore rigidità, quella del suo celebre avo, il Censore.
Già quel più antico Catone si era scagliato contro le opere d’arte che, giunte da Siracusa a Roma come bottino di guerra (195 a. C.), erano state esposte all’ammirazione dei romani nei due templi dell’Onore e della Virtù[26]. I romani infatti avevano risposto con un tale entusiasmo all’iniziativa – era la prima volta che essi erano posti a diretto contatto con simili raffinatezze – che egli dichiarava di temerle. Ed era non solo una diffidenza istintiva verso una cultura diversa, quella greca, che era già sentita da molti superiore a quella romana; ma probabilmente anche un retaggio di quel potere sacrale delle immagini che era comunemente loro riconosciuto dagli antichi. Il Censore diceva infatti:
“Mi viene il timore che siano quelle cose a prendere possesso di noi, più che noi di esse”.
Oltre un secolo dopo, quel timore sacrale sembrava superato. Cesare lo dimostrò quando, nel suo obiettivo di conciliazione, volle che le statue di Pompeo, già abbattute a terra dopo la sua sconfitta, fossero rialzate; e Cicerone giudicò quel gesto come un’accorta mossa politica, osservando che in questo modo egli “rafforzava le proprie”[27]. Quanto alle opere d’arte, Cesare le ricercava e le amava: da edile fece ornare il Campidoglio con portici provvisori (moeniana) in cui espose parte delle sue ricche collezioni all’ammirazione universale[28]. Non basta. Vedendo gli antichi santuari in declino, l’antico Catone ne attribuiva la colpa ai moderni e bellissimi templi marmorei dei greci:
“Sono già in troppi, a quanto vedo, a lodare e ammirare i fasti di Atene e Corinto e a deridere le figure di argilla nei frontoni dei templi romani”[29].
Secondo l’austero conservatore, proprio quelle immagini, rozze all’apparenza, recavano ancora in sé qualcosa di divino, di quel tempo arcano in cui gli dei usavano mescolarsi e parlare con gli uomini[30].
All’epoca di Cesare anche questa convinzione era ormai assai poco condivisa; e si direbbe anzi che sia stato proprio il dittatore a dare impulso alla grandiosa trasformazione urbanistica e monumentale di Roma antica. Non era una questione di parte politica; ma era, comunque, politica.
Pompeo apparteneva come Catone l’Uticense agli optimates, ma quest’ultimo, degno erede dell’avo, non approvava certamente il triumviro quando eresse un enorme teatro fuori del pomerium nel Campo Marzio, donandolo alla città [31]: il tempio di Venere, collocato al centro del teatro, era troppo piccolo per giustificare il monumento, le cui statue e immagini, disseminate in abbondanza, evocavano in realtà le vittorie di Pompeo ed erano la testimonianza di un culto della personalità che a Roma non aveva precedenti. [Fig. 7]
Lo stesso Pompeo non poteva dissimularsi del resto che quella dea era innanzitutto legata a Cesare: sì che, prima della battaglia di Farsalo, sognò di essere in quel teatro, applaudito dal popolo, e di adornarlo devotamente con molte spoglie; e quando si svegliò, pensò con terrore che forse erano le sue, con cui egli avrebbe dato gloria e lustro alla gens Iulia, che da quella Venere discendeva[32].
L’Uticense in realtà era contro tutti e tre i triumviri, in questo senso molto meno austeri. Cesare – forse anche, come soleva, con i fondi di Crasso – rispose infatti a Pompeo superandolo: eresse un Forum Iulium accanto al vecchio Foro (e cioè nel cuore della città), ma più bello, tanto che fu chiamato il “Grande Foro”. Un’iniziativa costata una cifra folle, che avrebbe avuto largo seguito tra gli imperatori romani[33]. [Fig. 8]
Il nuovo Foro, per far posto al quale l’antica Curia fu spostata e la tribuna degli oratori (i Rostri) sopraelevata, consisteva in un’ampia piazza rettangolare porticata, chiusa su uno dei lati corti da un tempio a Venus Genetrix (capostipite della gens Iulia) . [Fig. 9, 10]
Al centro della piazza era collocato un monumento equestre del dittatore che si richiamava esplicitamente, e per più aspetti, al mito di Alessandro Magno.
La statua era infatti almeno simile a quella del re macedone scolpita da Lisippo (o forse era proprio quella, anche se la testa era stata sostituita con quella di Cesare). Il cavallo ricordava sia quello di Cesare che quello di Alessandro Magno, il famoso Bucefalo: perché entrambi avevano piedi quasi umani (prodigio che, secondo gli aruspici, significava che avrebbero dominato il mondo) e non sopportavano altro cavaliere[34]. [Fig. 11] Il dittatore citava così, oltre alla vittoria alessandrina (ex Aegypto), la statua equestre di Alessandro Magno eretta ad Alessandria (dove era appena stato): con questa audace, orgogliosa analogia egli avvalorava anche quella parte della sua propaganda che lo voleva (ri)fondatore – insieme con Romolo – della stessa Roma[35].
La consacrazione dell’edificio, avvenuta il 26 settembre del 46 a. C. – a conclusione dei suoi primi quattro trionfi – fu solennizzata con i primi Ludi Victoriae Caesaris (detti anche Ludi Veneris Genetricis), istituiti come gare annuali. All’interno del tempio, oltre alla statua di Venere[36] [Fig. 12], ne furono collocate altre due: una in marmo dello stesso Cesare e l’altra in bronzo dorato di Cleopatra[37].
Due cose però non gli furono perdonate: la prima che egli ricevesse il corteo dei senatori venuti a rendergli omaggio davanti al tempio, rimanendo seduto; e la seconda fu la corona d’alloro legata con candide bende, che, posta da uno dei suoi sostenitori sulla testa della sua statua, figurava come un emblema del potere regio[38].
E’ certo che il suo potere crebbe nel tempo. I suoi ultimi anni vedranno i più grandi onori e le cariche più prestigiose accumularsi sulla sua persona. Molti li accettò, altri li rifiutò[39]. Negli ultimi anni gli saranno riconosciuti i titoli di dictator perpetuus, di pater patriae e di imperator: onori e poteri straordinari che accetterà. Ciò gli fu rimproverato: è evidente infatti che il rifiuto degli altri, a quel punto, contava poco.
Ma la sua eccezionalità fu sancita soprattutto dai suoi trionfi[40]. Sconfitti i suoi nemici, esterni e interni, ne ebbe ben cinque e molti secoli dopo (1460) lo storico umanista forlivese Flavio Biondo scriverà che essi, pur inserendosi in una tradizione squisitamente romana “furno così magnifici, che avanzarono quanti ne fussero fatti mai”[41]. Studiandoli oggi, si direbbe che essi ebbero anche alcuni caratteri originali che saranno ancora vivi e vitali nelle feste del Rinascimento e anche oltre, in quella che sarà chiamata “civiltà di corte” (Norbert Elias).
I primi quattro trionfi gli furono offerti dal senato nel 46 a C. , furono conclusi da un lauto banchetto e si svolsero in giorni distinti, ma nello stesso mese di settembre; il quinto seguì l’anno seguente, ai primi di ottobre. Il più grandioso fu probabilmente il primo, quello che celebrò la vittoria sui Galli di Vercingetorige [42].
Nel corteo figuravano, trasportate in ferculis, su portantine, ad simulacrum (come statue? statuette?) le figurazioni del Reno, del Rodano e dell’Oceano, i limiti geografici della Gallia. Quest’ultimo, entità immensa e lontana, era figurato in oro, ma come un prigioniero: perché fosse ben chiaro che perfino il grande oceano che bagnava l’estremo lembo nord-occidentale della Gallia, era ormai prigioniero di Roma [43]. E forse Cesare intendeva anche ricordare un altro limite estremo, l’Oceano (orientale) di Alessandro, figurato in un pesce mostruoso, attributo del macedone[44]. [Fig. 13] Ma il centro dell’attenzione generale era lo stesso Cesare, incoronato di alloro, vestito di un’ampia toga purpurea intrecciata con fili d’oro e calzato di alti calzari scarlatti (alla maniera dei re albani, con cui diceva di essere imparentato attraverso Iulo)[45]. Preceduto da un gran numero di littori[46], avanzava sul carro tradizionale, tirato da quattro cavalli bianchi. Ad esso era probabilmente incatenato Vercingetorige, lo sconfitto re dei Galli: con la sua partecipazione al trionfo e la sua esecuzione, appositamente rinviata di sei anni dopo la vittoria, Cesare riprendeva e potenziava quella che sembra l’usanza principale dei più antichi trionfi[47]. Seguivano i suoi soldati, intonando i canti tradizionali denigratori del trionfatore: alcuni di essi alludevano pesantemente alle sue sfrenatezze sessuali, compresi il suo legame con Cleopatra e i suoi trascorsi giovanili con Nicomede, re di Bitinia[48]. Pare che Cesare accettasse lietamente le prime; e che non apprezzasse invece la seconda allusione, generalmente considerata disdicevole per un romano.
Nei pressi del Velabro il carro rischiò di rovesciarsi: i plebei gridarono terrorizzati, interpretando l’incidente come un presagio infausto, ma il dittatore trovò il modo di esorcizzare quell’immagine, sostituendola subito con un’altra: quella di lui stesso che saliva, devotamente genuflesso, le scale del Campidoglio[49].
Torna alla mente un’altra immagine negativa che egli sentì il bisogno di correggere: quella di una sua caduta a terra nel momento in cui scendeva dalla nave che approdava in Africa; anche qui seppe annullare l’infausto presagio, esclamando trionfalmente “Ti tengo, Africa !”[50]. Una sensibilità particolare gli faceva dunque cogliere immediatamente quella che poteva diventare un’incrinatura nella sua immagine pubblica di uomo superiore e vincente; ad essa egli sapeva opporsi con prontezza, con una sorta di talento d’improvvisazione.
Il secondo trionfo fu quello sull’Egitto di Tolomeo XIV e di sua sorella Arsinoe. Anche qui sfilarono le immagini del Nilo e del Faro di Alessandria illuminato, come nella realtà, da una pira di fuoco che bruciava al suo interno. Forse in quel plurale, ignium, non mancava un’allusione all’incendio che egli stesso vi aveva appiccato[51]; forse non era inutile ricordarlo, dal momento che il suo legame con Cleopatra gli era aspramente rimproverato.
Gli altri due trionfi ebbero per oggetto il Ponto di Farnace e l’Africa di Giuba. Grande fu l’ilarità popolare al comparire del quadro comico di Farnace che fuggiva precipitosamente all’impetuoso assalto di Cesare; ci si entusiasmò quando apparve un’insegna con il già famoso messaggio Veni, vidi, vici; e forse qualcuno riuscì a intenerirsi nel vedere sfilare su una portantina un bimbo in lacrime, figlio del re Giuba[52].
Che poi Arsinoe, considerata usurpatrice (ma era pur sempre regina ed era una donna), sfilasse in ceppi, che i trofei fossero anche quelli dei nemici concittadini caduti in Africa, che il numero dei littori che accompagnavano Cesare fosse così alto, che egli a quel tempo ospitasse Cleopatra con il fratello-marito Tolomeo proprio nel suo palazzo[53] furono fatti che suscitarono commenti negativi e riprovazioni.
Nell’ultimo di questi trionfi, in particolare, quello su Giuba, Cesare rischiò molto, perché umiliare i concittadini era severamente proibito; ma concentrando l’attenzione sul re di Numidia, egli evitò di citare la sua vera vittoria, quella sui pompeiani sconfitti. Eppure, secondo Appiano, egli osò mostrare nel corteo “le significazioni di tutti questi scontri con le molteplici immagini dei protagonisti”, non escluse quelle di tre cittadini romani (tra cui Catone) nell’atto di trafiggersi ed evitando solo quella di Pompeo, ancora troppo rimpianto[54].
Le numerose trasgressioni non riuscirono tuttavia ad offuscare il favore e la gloria di cui godeva[55].
L’ultimo di questi trionfi, dopo il tradizionale banchetto finale, vide Cesare, incoronato di fiori diversi e multicolori – per celare la calvizie – e con i suoi alti calzari rossi – per sembrare più alto -, fare un ingresso spettacolare nel Foro che portava il suo nome[56]. Alla fine fu accompagnato alla sua dimora da quaranta elefanti, che portavano sul dorso grandi torchi accesi. Giunti a destinazione, essi si disposero ai due lati della strada; dietro di lui il popolo, affascinato, seguiva lui che avanzava fra gli enormi pachidermi[57].
Gli elefanti erano un’attrazione irresistibile, non solo per le loro dimensioni, ma perché si diceva che avessero poteri straordinari, come quello di capire il linguaggio degli uomini del loro paese e anche la capacità di interpretare i fenomeni celesti[58]. Si potrebbe ricordare che due anni prima, probabilmente per ordine di Cesare, era stata coniata una moneta con un elefante figurato sul lato principale: e che, oltre al precedente specifico di analoghe monete di Alessandro che, come lui, aveva affrontato e vinto gli elefanti (del re indiano Poro), egli intendeva rinnovare anche il ricordo di un suo avo che a suo tempo ne aveva abbattuto uno, meritando il nome di Caesar, una parola che in punico sembra significasse elefante[59]. [Fig. 14a, 14b, 14c]
Il bottino razziato ai nemici, esposto in queste occasioni trionfali e successivamente donato all’erario, ai soldati e al popolo fu ricchissimo.
Ci furono elargizioni pubbliche di grano, olio e denaro e banchetti straordinari non solo per l’abbondanza e la qualità dei cibi[60]: uno di essi fu infatti offerto simultaneamente a tutti i cittadini, comodamente stesi, secondo l’uso romano, su ventiduemila triclinia [61]. Furono apprezzate l’originalità e la ricchezza dei materiali degli apparati, allestiti con rare e preziose qualità di materiali, come la tuia e la mimosa, la tartaruga, l’avorio e l’argento levigato, ogni materiale caratterizzante, nell’ordine, ognuno dei suoi trionfi[62]. Fu mostrato un animale mai visto, un kamelopardàlis, che Cesare aveva portato dall’Africa, ossia un “cammelloleopardo”, forse una giraffa [63]. E poi, come scrive Svetonio[64], furono organizzati spettacoli di ogni genere. Anche spettacoli di attori: ne furono offerti in tutte le regioni dell’Urbe e in tutte le lingue.
I romani amavano soprattutto i mimi. Un autore di questi, Decimo Laberio (106-43 a. C), un cavaliere poi retrocesso a causa di un’esibizione giudicata indecorosa per un cittadino romano, in occasione di questi trionfi (o dei Ludi Veneris Genitricis che furono celebrati alla loro conclusione), interpretò un mimo da lui appositamente composto e fu generosamente ricompensato dal dittatore.
Macrobio nei suoi Saturnali [65] dà in proposito altri particolari che ci fanno capire i limiti della famosa liberalità di Cesare. La richiesta di un potente è un obbligo: Laberio non era così desideroso di esibirsi personalmente, eppure dovette farlo per l’espresso invito di Cesare. Ma essendo uomo di “rude franchezza di linguaggio”, espresse chiaramente la sua protesta nel Prologo del mimo:
“A chi gli stessi dèi nulla poterono negare, come avrei potuto dir di no? Io, dopo sessant’anni vissuti senza biasimo, uscito di casa cavaliere romano, vi ritornerò commediante”.
Versi che confermano il disprezzo che accompagnava, a Roma, la professione del teatro (non era così in Grecia), un disprezzo che Cesare, pur nella sua concezione strumentale e autoreferenziale dello spettacolo, cercò di attenuare reintegrandolo fra i cavalieri. Macrobio scrive peraltro che, dopo essersi esibito, Laberio, scendendo dal palco, cercò di sedersi fra loro, ma vi fu respinto: anche Cicerone evitò di fargli posto col dire di essere lui stesso troppo stretto. Laberio seppe rispondergli a tono, da attore consumato: gli disse che ciò non lo meravigliava, dal momento che lui usava star sempre su due sedie … alludendo ovviamente all’incertezza delle sue scelte politiche. Su una cosa comunque Cicerone non aveva torto: la ressa in queste occasioni era incredibile, vennero a Roma per assistere e partecipare anche molti forestieri e non mancarono gravi incidenti.
Gli strali di Laberio furono però anche più acuti e diretti. Mostrò le violenze subite a Roma da uno straniero e fece anche allusioni alla mancanza di libertà; e fu considerato significativo il fatto che queste allusioni furono prontamente comprese dagli spettatori che si girarono a guardare il dittatore. Cesare allora finì per preferirgli Siro Publilio, un giovane schiavo siriano che poi divenne famoso per la presenza di spirito e la bellezza (e, verosimilmente, anche per l’opportunismo…) e che per questo riuscì a ottenere in seguito anche la libertà.
La satira non è mai piaciuta ai potenti. Neanche a Cesare.
Le vere attrazioni non erano peraltro i mimi. Com’è noto, le lotte dei gladiatori avevano senza dubbio il primato. La passione era tale che in queste occasioni almeno due di essi, in questi trionfi, erano cittadini romani (cosa che in seguito lo stesso Cesare vietò); che almeno uno di questi combattimenti fu combattuto nel Foro; e che molti altri, davvero spettacolari, si organizzarono nel Circo Massimo: mille uomini contro altri mille, duecento cavalieri contro altri duecento, venti elefanti contro altri venti[66]. A questi combattimenti Cesare portava molto interesse, se è vero che durante il suo soggiorno a Ravenna aveva pensato al progetto di un circo gladiatorio, che si impegnò sempre personalmente per istruire esercizi e scuole specifiche e che, come detto sopra, ne organizzò perfino per la memoria di sua figlia Giulia[67].
Ma quei trionfi si segnalarono anche per molto altro e le spese furono enormi. Ci furono danze pirriche[68] e ludi troiani[69]; e spettacoli di musica e gare di atletica. Questi ultimi si rappresentarono in un particolare tipo di teatro. Che Cesare fosse interessato al tema degli edifici per lo spettacolo è provato anche dal fatto che egli intendeva costruire un teatro sull’esempio di quello di Pompeo, ne gettò anche le fondamenta, anche se non riuscì a finirlo[70]. Ma l’edificio che fu costruito per questi trionfi era di tipo nuovo, privo di scena e dunque interamente strutturato a gradinate: lo scrive Cassio Dione[71] e lo ha anche confermato quando ha scritto che spettacoli di musica e gare ginniche fino a non molti anni prima si rappresentavano nei teatri[72].
Viene da credere che fosse questo il pensiero di Cesare sul circo gladiatorio di Ravenna; e anche, forse, che non solo per la concessione ufficiale del suo nome ai successivi imperatori Marziale si rivolga a Vespasiano nel momento dell’inaugurazione del suo Colosseo, chiamandolo per due volte solo “Cesare”[73], ma che egli volesse ricordare in tal modo anche i precedenti specifici cesariani. Comunque sia, il nuovo edificio, verosimilmente realizzato in legno e destinato ad essere smantellato dopo i trionfi, da allora fu detto anfiteatro ed è, come il circo, una tipologia originale romana di edifici per lo spettacolo.
A conclusione di questi trionfi fu combattuta una naumachia: il Circo Massimo, anch’esso, secondo Plinio, se non fatto costruire, almeno ampliato da Cesare, venne invaso dalle acque[74] e gli spettatori furono protetti dal sole con un enorme tendone di seta; Dione Cassio riprovò non solo la spesa folle, ma anche che si usasse un simile tessuto “di mollezza barbara”, diffuso fra i romani solo a causa della predilezione femminile … Le competizioni dovevano essere in realtà molto rischiose, perché Cesare vi volle impegnati soprattutto prigionieri e condannati a morte. Sembra che ci fosse perfino qualcosa che somigliava a un sacrificio umano: due uomini uccisi senza un vero motivo, alla presenza del pontefice massimo e del sacerdote di Marte: le loro teste furono esposte presso il palazzo di Cesare[75].
Si direbbe dunque che il proverbiale panem et circenses, le due principali aspirazioni della plebe romana che, secondo Giovenale, gli imperatori s’impegnarono a soddisfare, fosse una consuetudine almeno a partire e per opera di Cesare.
Il quinto e ultimo trionfo[76], il più delicato, dal momento che sanciva e celebrava apertamente la definitiva sconfitta subita dai concittadini pompeiani, lo vide salire l’anno seguente in Campidoglio. Fu un trionfo probabilmente in tono minore, per il quale mancano elementi descrittivi. Ne scrive solo Dione: sembra che ci fosse un “solenne banchetto”, ma Cesare fu criticato perché, come nei trionfi precedenti, sfilarono immagini connesse alle imprese compiute, ma queste erano “di legno e non di avorio”. Ma egli vi fu ugualmente acclamato dal popolo come Liberator[77]. Era invece ormai un dittatore.
Anche in questo suo ultimo trionfo, sempre secondo Dione, “non si mantenne moderato in nulla”, ma “andò superbo, come se fosse un dio”, indossando sempre l’abito trionfale di porpora e portando sempre la corona d’alloro. Due privilegi che, appena gli furono concessi dal Senato, usò mantenere costantemente, non solo nei giorni del trionfo, ma “sempre e in ogni luogo”[78]. Come se egli volesse rappresentare concretamente, nella sua persona, il prolungamento della festa nel tempo ordinario.
Cesare inaugurava in tal modo una concezione della festa e del teatro del tutto strumentale alle proprie ambizioni politiche. E su questo del resto sembrò incontrare l’adesione entusiasta del popolo e del senato.
In misura crescente, e particolarmente in quei pochi mesi di pace che intercorsero tra l’ultima vittoria (Munda, 17 marzo 45 a. C.) e la sua morte, si fece a gara per offrirgli onori e privilegi. Gli fu donata una casa “in modo che abitasse in un edificio dello Stato”; su di essa fu posto un pinnacolo, come nei templi, e la sua persona fu dichiarata sacra e inviolabile.
Gli fu concesso il diritto di sedersi sulla sedia curule insieme con i consoli e di dare udienza su seggi criselefantini, cioè d’avorio e d’oro. Il Senato lo chiamò Iuppiter Iulius (espressione equivalente a Divus Iulius, dunque un dio) e gli dedicò almeno un tempio, quello intitolato a Cesare e alla Clemenza[79]. [Fig. 15]
In teatro ebbe una corona ornata di raggi. Ancora vivente – un privilegio straordinario – furono coniate monete con la sua effigie; sulle insegne lo si raffigurò in atteggiamenti diversi e con una corona di quercia che lo qualificava come “salvatore della patria”, protetto da Giove[80]. Si celebrò la festa delle Parilie con una corsa di carri che da allora sarebbe diventata una consuetudine annuale, non in onore di Roma, che si diceva fondata lo stesso giorno, il 21 aprile, ma per la vittoria di Cesare[81]. Davanti alla statua di Giove fu messo il suo carro, come un oggetto sacro[82]. Il mese in cui era nato fu dedicato a lui e si chiamò Iulius e si dichiararono festivi i giorni delle sue vittorie.
Il gran numero di statue che, in quei mesi, furono erette in suo onore in luoghi sacri e/o prestigiosi, entro il pomerium, confortano anche l’ipotesi di un progetto di divinizzazione, secondo il modello dei sovrani ellenistici. Ancor prima del suo ritorno a Roma, una sua statua di avorio era portata nelle corse dei carri accanto a quella degli dei; un’altra (o forse era la stessa?) fu collocata nel tempio di Romolo con la scritta “Al dio invitto”, (statua e dedica sembrano ancora riprendere quelle di Alessandro, poste nell’Agorà ateniese[83]).
Si collocò una sua statua in Campidoglio accanto a quelle degli antichi re di Roma e di Lucio Giunio Bruto, cioè di colui che era riuscito a cacciare i re Tarquini (una simile collocazione fu vista come uno straordinario presagio e, secondo Dione, fu una vera sollecitazione per il suo discendente cesaricida)[84].
Ancora in Campidoglio gli fu eretta una statua di bronzo con la scritta “E’ un semidio”, una scritta troppo esplicita che in seguito egli fece togliere probabilmente per una prudenza politica. La statua poggiava col piede su un globo, immagine del mondo a lui soggetto[85]: e potremmo riconoscere alcuni precedenti di questa postura sul verso di alcuni denarii emessi fra il 75 e il 46 a. C., in cui, prima un Genius Populi Romani, poi la stessa Roma figuravano con il piede sul globo[86]. [Fig. 16] Cesare prendeva dunque il posto di un Genio romano e di Roma; forse fu a partire da questa statua che il piede sul globo si impose come un’icona anche nella statuaria.
Non tutti in realtà, come osservò Cicerone, lo apprezzarono in questa sua nuova veste divinizzata: essa dava nuovi argomenti agli oscuri timori dei repubblicani. Come scrisse Anneo Floro, tutti quegli onori “si accumulavano sul suo capo come le bende ornamentali su quello della vittima destinata alla morte”, l’odio prevalse sulla clemenza del dittatore, anzi “divenne gravosa per quegli uomini liberi la stessa possibilità che egli aveva di far loro dei doni”.
Cesare ostentava sicurezza e sprezzo del pericolo; ma in questo, com’è noto, sbagliò.
Fu assassinato ai piedi della statua di Pompeo, una statua proveniente dal grande teatro del triumviro e poi trasportata nella Curia. I congiurati, nel momento dell’azione delittuosa, sembrarono attingere coraggio col rivolgersi ad essa. Ai suoi piedi il dittatore si arrese, accasciandosi e coprendosi il volto con la toga[87]. Come scrisse ancora Anneo Floro,
“egli che aveva riempito la terra col sangue dei suoi concittadini, alla fine inondò la curia del suo stesso sangue”[88].
Fu dunque una morte fortemente simbolica, che lasciò una traccia pesante nella memoria degli spettatori. Non a caso, dopo l’attentato, quella statua fu riportata da dove era venuta, nel teatro di Pompeo[89]; e il tema del sangue sarà fortemente ripreso, quando si volle suscitare l’indignazione popolare.
La città fu sconvolta da quello che fu sentito come un sacrilegio, poiché la sua persona era stata dichiarata sacra e inviolabile. I gladiatori, che fin dall’alba erano equipaggiati e pronti ai combattimenti, accorsero dal teatro vicino alla curia, ad essi si mescolarono i congiurati, gli spettacoli furono interrotti, cominciarono disordini e saccheggi e tutti si chiusero dentro le loro case, preparandosi al peggio[90]. Ma la situazione rimase a lungo sospesa. Perché, scrive Appiano, il popolo romano non era più quello dell’antico Bruto che aveva potuto cancellare la monarchia: gli ideali originari non erano più condivisi e la vita politica era corrotta, [91].
Alla fine, furono le esequie di Cesare a far risolvere il popolo: esse non solo, come fu detto, ebbero apparati degni di un dio, ma furono anche potentemente indirizzate[92].
Era allora console Antonio, com’è noto, legatissimo al dittatore e certo anche mosso dall’ambizione di sostituirlo. Svetonio scrive che egli fece allestire un’edicola aurea simile al tempio di Venere Genitrice e pose al suo interno un letto di avorio, ornato d’oro e di porpora; a capo di quel letto era esposta, come su un trofeo, la toga insanguinata di Cesare. Era un modo per ricordare a tutti che non era morto solo il dictator perpetuus, ma anche un dio, un dio che, come gli altri, era custodito nel cuore di un tempio.
Il cadavere fu portato nel Foro, davanti ai Rostri, da magistrati e altre autorità, sistemato all’interno dell’edicola e proprio lì, in quel luogo pubblico per definizione e proprio dove la sua carriera politica era cominciata, gli fu dato fuoco. [Fig. 17] Non fu un rogo secondo le regole, perché la pira era stata preparata nel Circo Massimo, vicino alla tomba di sua figlia.
Secondo Plutarco, fu il discorso di Antonio che, infiammando gli animi, suscitò la diversione; in realtà sembra di poter dire che non fu tanto il discorso, quanto il luogo, il contesto e il modo in cui esso fu pronunciato: insomma la messinscena[93]. Vedendo il popolo “straordinariamente trascinato e commosso”, egli non si limitò infatti al compianto del dittatore né all’elenco dei generosi lasciti al popolo; ma
“agitando in alto le vesti del defunto, insanguinate e forate dai colpi di spada, e chiamando scellerati e assassini coloro che avevano commesso tale crimine”,
seppe suscitare nei presenti un dolore e un’ira violentissimi. Flautisti, attori e danzatori che, insieme alle prefiche, guidavano tradizionalmente le processioni funerarie e che erano stati sempre apprezzati da Cesare, si strapparono le vesti che avevano prese dagli apparati dei trionfi e le buttarono tra le fiamme. Anche i soldati di Cesare vi gettarono le armi e le matrone i gioielli: un immenso rogo a cui ognuno partecipò “secondo il proprio costume”, in particolare gli ebrei, protetti e beneficati dal dittatore (mentre Pompeo aveva osato violare il loro tempio[94]). Altri corsero alle case degli uccisori, assalendole con i tizzoni ardenti strappati al rogo.
Sull’evento c’è un’altra fonte importante, quella di Appiano, che accentua ancora il carattere in qualche modo “teatrale” di queste esequie. Egli scrive che Antonio lesse “con volto severo e commosso” tutti quegli onori che avevano sollevato Cesare “al di sopra dell’umano” e che elencò i titoli straordinari a lui attribuiti, “volgendo il volto e la mano verso il cadavere di Cesare” e “accentuando il fatto con l’ausilio della parola”: la parola dunque concepita solo come un aiuto del gesto. Poi ”raccolse la veste come un invasato”, se la legò in vita per avere le mani libere e
“si accostò al feretro, come fosse sulla scena e piegando il capo verso di esso e poi risollevandolo, […] intonò l’inno a Cesare come a un dio celeste”,
alzando le mani in segno di fede.
Gridò tutte le straordinarie imprese di Cesare, sottolineando ognuna di esse con tono di ammirazione; finché “mutò il registro di voce da esaltato a lamentoso” chiedendo di poter offrire la sua vita in cambio di quella dell’amico ingiustamente offeso. Infine “agitò su una lancia la veste, strappata e insanguinata dai colpi inferti al dittatore”.
A quella vista il popolo, come in un coro tragico, si unì ai suoi lamenti “nel modo più commovente”, e dal dolore di nuovo passò all’ira. Furono intonati i canti funebri tradizionali e sembrò che lo stesso Cesare chiamasse per nome i nemici che aveva beneficato e che aggiungesse, come meravigliandosi: ‘Eppure io ho salvato la vita anche a costoro, quelli che mi avrebbero ucciso’. Erano versi di grande effetto del tragediografo Pacuvio e ne furono pronunciati anche altri simili di un meno noto Atilio: essi ebbero il potere di ricordare quanti uomini e quante volte erano stati salvati dalla clemenza di Cesare[95].
Infine un tale (probabilmente un attore)
“sollevò sul feretro un’effigie di Cesare stesso fatta di cera; il cadavere infatti, in quanto disteso sulla bara, non era visibile” e quest’immagine, grazie a “un artificio meccanico ruotava da ogni parte, e furono viste ventitré ferite inferte bestialmente in tutto il corpo e sul volto”.
Quintiliano rileva l’efficacia “enorme” di quei gesti, di quell’immagine e di quella toga insanguinata: essi indussero i presenti, che pure erano già a conoscenza del delitto, “quasi a rivivere l’evento”, come se il dittatore “venisse trucidato in quel momento” e ne provocarono il “furore”[96] .
Naturalmente non mancò chi disapprovò queste modalità viscerali di esprimere il lutto. Dione, che pure dà grande spazio al discorso di Antonio, lo disapprovò come “inopportuno”, così come disapprovò l’ostensione “dissennata” della salma di Cesare, esposta “così come stava, insanguinata e con le ferite aperte”[97], un vero incitamento ai disordini che infatti seguirono. Ma dal punto di vista formale quelle esequie non erano così strane. I funerali dei nobili romani avevano una parte davvero teatrale: dopo sette giorni nella camera ardente, il cadavere veniva accompagnato da un corteo in cui un attore impersonava il morto e amici e parenti indossavano le maschere degli avi; poi si pronunciava l’orazione funebre dai Rostri e solo allora il morto veniva sepolto; a conclusione veniva imbandito il banchetto. Per Cesare ci fu tutto questo e anche di più: musiche, scenografie, cori; e forse anche cinque attori che, portando maschere di cera con l’effigie del defunto, indossando le sue vesti trionfali e avanzando con il suo incedere e i suoi atteggiamenti, impersonavano i suoi cinque trionfi[98].
Si direbbe che il famoso discorso di Antonio scritto da Shakespeare, necessariamente privo delle accentuazioni sceniche sopra indicate, sia molto più sobrio di quanto appaia in queste fonti; certo più vicino a Plutarco che ad Appiano.
A suo tempo l’evento dimostrò che, almeno per questa capacità di manipolare la folla per mezzo di effetti premeditati che si potrebbero dire genericamente “teatrali”– non manca oggi chi ha rilevato come l’evento, con i suoi scambi tra Antonio e gli attori da un lato e la folla dall’altro, abbia tutti i caratteri di un vero dramma politico[99] – era Antonio in realtà il vero erede di Cesare.
Cominciava così il culto di Cesare morto. La comparsa in cielo per sette giorni di una cometa fu considerata il segno della sua assunzione in cielo e dunque di quella divinizzazione che, ancora in vita, aveva probabilmente cercato. A ricordo dell’evento prodigioso, da allora, per volere di Ottaviano, un sidus Iulium fu posto sui templi, sulle statue e sulle monete che lo raffiguravano[100]. [Fig. 18, 19]
“La lotta per la successione durò tredici anni”, scrive Zanker. E aggiunge:
“Il linguaggio delle immagini e delle forme architettoniche svolge in questa fase un ruolo importante. [… ] L’uso di forme e simboli greci problematici e ambigui, da parte di Ottaviano e di Antonio, fu così massiccio da far pensare a due sovrani ellenistici in lotta per il dominio su Roma”[101].
In realtà l’uso che ne facevano i due contendenti era diverso.
Come è noto, gli eventi portarono Ottaviano in primo piano. E’ certamente vero che anche Ottaviano fosse molto interessato alle immagini, che le usasse senza risparmio e che molte di esse fossero opere d’arte non effimere[102]; ma è certo anche che, pur non perdendo occasione per rivendicare la discendenza da Cesare (lo fece anche riprendendo nelle monete icone a lui legate, come la stella, la dea Venere, la piccola Vittoria protesa e la stessa testa del dittatore), il nuovo imperatore, teso a una conciliazione con i repubblicani, era molto preoccupato della moralità della sua immagine pubblica e volle farne un uso più austero.
Dione Cassio riproduce un discorso di Marco Vipsanio Agrippa, sostenitore di una costituzione democratica, un discorso diretto a Ottaviano, suo suocero e amico. Un passo interpella direttamente il nostro tema:
“Per quanto riguarda te […] non permettere che, da parte del senato o da altri, ti venga concesso alcun privilegio che passi la misura né come titolo né come vantaggio effettivo […] Dunque per procurarti ulteriore rinomanza devi fare affidamento sulle buone azioni e non devi permettere mai che ci siano delle statue d’oro o d’argento che raffigurino la tua persona […]: piuttosto fai produrre a titolo di beneficio altri tipi di immagini che restino perennemente ed indelebilmente scolpite nelle anime degli uomini. Non permettere neppure che venga edificato un tempio in tuo onore, […perché] dai templi non deriva alcuna particolare gloria. E’ la virtù se mai, che rende molti uomini simili agli dèi, mentre nessun uomo è mai divenuto un dio per voto popolare. Così se sei un uomo di alta levatura morale e se sei un buon amministratore del potere, tutta la terra sarà il tuo recinto sacro, tutte le città saranno i tuoi templi, tutti gli uomini le tue statue”[103].
Sembra infatti che Augusto facesse rimuovere statue a lui dedicate e che, con il denaro ricavato, facesse apporre offerte votive nel tempio di Apollo; che non accettasse mai un culto alla sua persona se non in associazione della dea Roma; che ostentasse un ossequioso rispetto della religiosità tradizionale; e che promuovesse solo la costruzione di statue dei summi viri della storia di Roma nel suo Foro (2 a. C.).
Non c’è dubbio che Cesare avesse nei confronti delle immagini e del teatro molto minori difese. Affascinato lui stesso da ogni tipo di spettacolo e da ogni tipo di attore, era soprattutto convinto dell’utilità di simili strumenti e si serviva senza scrupoli sia delle feste che del teatro; concepiti dunque con sfarzo e con larghezza, in funzione personale e politica.
Si direbbe che egli stesso avesse doti d’attore. Si è detto dei suoi talenti nell’esibizionismo e nell’improvvisazione, della cura della sua persona e del suo abbigliamento. Ma non c’è solo quello. Secondo Plutarco, possedeva ottime qualità naturali per l’oratoria civile e seppe coltivarle, tanto da raggiungere “il secondo posto tra gli oratori romani” e rinunciando ad andare oltre, per concentrare i suoi sforzi sulle sue ambizioni politiche. Svetonio scrive anche che pronunciava i suoi discorsi “con voce acuta e con un movimento e un gesticolare ardente, non privo però di grazia”[104]. Perfino Cicerone apprezzava molto la sua oratoria.
Cesare capì molto presto che questo suo talento avrebbe potuto essergli utile. Ma, insieme a questo, aveva anche la capacità di dissimulare la propria abilità politica[105] e le proprie (forse indicibili) convinzioni. Secondo Svetonio (che non lo amava), Cesare tacciava Silla di analfabeta per aver rinunciato alla dittatura, sostenendo che “la repubblica non è altro che un nome senza forma né sostanza”[106]; e anche che egli aveva sempre sulle labbra un verso di Euripide da lui tradotto in questo modo:
“Se infatti si deve violare il diritto per regnare, lo si violi; negli altri casi si rispetti la giustizia”[107]:
insomma per Cesare la vera regola, quella che non si poteva violare, era quella del potere.
Dione Cassio scrive anche che i suoi soldati, nel corso dei trionfi potevano accusarlo impunemente di aver violato più volte la legge e di aspirare in realtà a diventare re[108]. Non è questa la sede per indagare a fondo un problema così complesso su cui del resto molti illustri storici si sono spesi. Basti dire che il dittatore era certamente mosso anche da impulsi generosi, come dimostrano le sue leggi agrarie e quelle sull’abbassamento dei debiti. Esercitava, anche se non sempre, la clemenza – ai suoi tempi si poté dire che perdonò i nemici in una misura tale da “oltrepassare l’umana credibilità” (Velleio Patercolo) – e aveva con tutti atteggiamenti di cortesia, affabilità e generosità. Ma se i documenti e le testimonianze di cui sopra hanno un senso, credo si possa convenire con chi lo ha visto come un aristocratico e un individualista, in apparenza un dandy[109], in realtà determinatissimo a conquistare i vertici del potere con ogni mezzo, anche al di là delle leggi e della morale. Forse è vero che, come scriveva Plutarco, bramoso com’era di glorie sempre nuove, era diviso in due e che era geloso perfino di se stesso[110].
Cicerone osservava che la sua stessa clemenza era insidiosa, perché celava la natura tirannica della sua politica[111]. Sull’onda del celebre oratore, si potrebbero pensare come insidiosi anche altri suoi gesti. Per esempio quel suo respingere, anche se in maniera non troppo netta, la corona di re che a più riprese gli fu offerta da Antonio[112]. Quel suo far cancellare quella scritta “E’ un semidio” che probabilmente egli sentì troppo audace. Quel suo indurre Pompeo e Crasso a lottare l’uno contro l’altro, pur ostentando di stimolare la loro conciliazione. Quel suo sfruttare, da console, l’opposizione degli ottimati in Senato per ricorrere al popolo e anche ai triumviri. Quel suo dichiarare il suo dolore alla morte dei suoi più acerrimi nemici: Pompeo e Catone[113].
La finzione sembra in lui naturale e credibile. Non è legata allo spettacolo: è uno strumento politico con cui accattivarsi l’“affetto” del popolo. La parola greca di Plutarco è éunoia, sta per benevolenza, propensione, simpatia, affetto”[114]. Per essere protetto, Cesare contava sull’éunoia, “la più bella e nel medesimo tempo la più sicura delle protezioni”, non sulle guardie. Un rapporto intimo. Oggi si direbbe, almeno per certi versi, populismo. All’epoca, ben pochi avevano coscienza di quale baratro di distanza il dittatore aprisse in questo modo con gli ideali della repubblica.
E’ certo che, grazie al suo talento seduttivo, Cesare fosse più amato di Ottaviano. In questo Cesare davvero non ebbe rivali: Plutarco, che non sempre è tenero verso di lui, dichiara la sua superiorità rispetto ad ogni altro generale romano, non solo per il valore militare, ma proprio per essere il più amato, dai soldati e dal popolo[115]. Se poi si guarda al lungo elenco di opere realizzate e a quello, davvero impressionante, dei suoi progetti per il futuro (molti dei quali diretti a esaltare l’immagine di Roma)[116], anche il più acceso repubblicano non può non essere pervaso di un’ammirazione assoluta: perché Cesare fu insieme letterato insigne, inimitabile condottiero, uomo politico a un tempo concreto e visionario.
Quando, nel Rinascimento, si volle trovare un precedente classico significativo per il giovane Ludovico II Gonzaga, prossimo a una crociata contro i turchi, lo si trovò, non in Ottaviano – eppure la sua integrità era più universalmente riconosciuta – , ma in Cesare. E di Cesare il pittore Andrea Mantegna (certamente in accordo con i suoi committenti) volle ricordare i famosi trionfi.
La loro memoria era stata tenuta in vita nel Medio Evo non solo dalle memorie degli scrittori, ma anche dai racconti fantastici dei giullari e dei trovatori[117]. Ma il Mantegna fece riemergere dal passato anche quelle immagini che al tempo di Cesare non ci si era preoccupati di fissare e tramandare. Ai nostri occhi – non forse a quelli dei contemporanei – l’artista, che pure si segnala fra i primi del Rinascimento per la sua erudizione e il suo classicismo, non realizzò una ricostruzione di tipo archeologico: egli sembra infatti riunire nel famoso ciclo di nove tele vari elementi tratti da tutti e cinque i trionfi, attribuendoli tutti al trionfo gallico e forse per questo essi sono in genere chiamati Trionfi al plurale[118].
L’accento che egli volle dare all’impresa è innanzitutto quello di una rievocazione grandiosa ed eroica. Quello che a lui (e ai committenti) davvero importava lo si potrebbe trovare nell’opera Roma triumphans di Flavio Biondo, già citata, che l’artista ebbe certamente presente. Biondo dice infatti che il trionfo aveva per i romani un preciso scopo politico: quello di mostrare la buona armonia del conquistatore trionfante con il popolo e con l’esercito e perfino con i popoli conquistati: in breve, il trionfo era una dimostrazione spettacolare della giustificazione del potere. Non a caso dunque quei Trionfi di Cesare del Mantegna, con il loro senso politico e giubilare, divennero presto una delle attrazioni più ammirate della corte di Mantova e furono usati anche come decorazione mobile per apparati teatrali e festivi[119]. [Fig. 20, 21]
Dopo un’interpretazione così autorevole, non furono molti che si avventurarono nella ripresa del tema. Eppure il tema circolava. Ne vediamo una testimonianza anche in un oggetto di bassa cultura: una celebre spada, detta la “Regina delle spade”, destinata a Cesare Borgia, è decorata da un cesellatore ferrarese con un Trionfo di Cesare il cui soggetto potrebbe essere ispirato al coevo e già famoso ciclo mantovano[120]. [Fig. 22]
Non stupisce, a questo punto, che Ottaviano ostentasse costantemente di essere Divi filius [Fig. 23] e che riprendesse il nome Caesar, premettendolo al suo; e che, com’è noto, lo abbiano fatto anche sovrani di imperi lontani nel tempo e nello spazio (Kaiser; Czar; Scià).
Anche l’appellativo di imperator, originariamente alludente a un potere sovrano e sacrale (il famoso imperium) esercitato da magistrati e promagistrati (exconsoli e expretori) e da comandanti militari (perfino, si diceva, da Giove sugli altri dei), proprio con Cesare passò a indicare qualcosa di personale, definitivo e perfino ereditario[121]. Il titolo, a lui concesso dal Senato nel 45 a. C., da usare come praenomen, quasi come se fosse un nome proprio, sarebbe poi passato, unito a quello di Cesare, appunto ad Ottaviano (Imperator Caesar Divi filius Augustus: nuovo cognomen quest’ultimo, conferitogli dal Senato nel 27 a. C.), quindi ai successivi imperatori: detentori ormai di un potere assoluto e senza controllo.
Ma Cesare aveva ciò che a Ottaviano mancava, ciò che a lui e ad altri, tesi a creare e a rinsaldare la forma di un mito imperiale inattaccabile ed eterno, sarebbe mancato sempre: quel legame con le masse, intimo e spontaneo, che nasce da una “sprezzatura” solo apparente, da un fascino personale, da un misterioso carisma. Aiutati, ora lo si potrebbe proporre, da un uso insieme “empatico” e sapiente delle immagini.
Elena TAMBURINI* Roma 17 Novembre 2024
*(Ringrazio per la lettura di questo testo e i preziosi consigli il prof. Paolo Carafa)
NOTE