Gli affreschi dei due fratelli Calandrucci e  di Girolamo Giacobbi in Palazzo Lante in piazza dei Caprettari.

di Rita RANDOLFI

Nella biografia di Giacinto Calandrucci Lione Pascoli raccontava:

«Voleva anche il duca Lanti abbellire, ed ornare di pitture il suo [palazzo]; ed essendogli stato proposto Giacinto gliene parlò, e stabilito il prezzo, e ciocché vi bramava s’accinse poco dopo all’impresa, che dovendo essere a guazzo prestamente la compì coll’aver rappresentato in una stanza Indimione, e la Luna coll’ore, ed in altra diverse deità»[1].

Il duca di cui si parla è Antonio Lante, primogenito di Ippolito, il primo membro della casata che, grazie ad un’abile politica matrimoniale e diplomatica,  aveva decretato il successo della propria famiglia trapiantata da Pisa a Roma.

Antonio  divenne un personaggio di  rilievo  soprattutto in conseguenza del matrimonio, contratto il 15 febbraio del 1683, con Luisa Angelica de la Trémoille,  sorella di Maria Anne.

Anonimo francese, Presunto ritratto di Marie Anne de La Trémoille, Princesse des Ursins, Museo Condé, Chantilly

Quest’ultima aveva sposato in seconde nozze don Flavio Orsini, duca di Bracciano e, rimasta vedova, divenne cameriera maggiore della regina di Spagna Gabriella di Savoia.  Marie Anne era molto legata alla sorella e le combinò  il matrimonio con Antonio Lante, in modo che anche Luisa  Angelica fosse insignita del titolo di duchessa. Ma l’unione  apportò notevoli vantaggi  soprattutto ad Antonio, il quale, grazie all’intermediazione della cognata, ottenne il grandato di Spagna di prima classe, il cavalierato dello Spirito Santo e tutti i feudi del Regno di Napoli precedentemente appartenuti al principe di Monaco, ricaduti in proprietà di Luigi XIV. Come se non bastasse, Marie Anne lasciò la cospicua raccolta di opere d’arte ereditata dal marito al nipote prediletto Luigi II, figlio della sorella, in modo che i Lante potessero esibire una collezione degna di nota.

Dal canto suo Antonio, oltre ad essere fregiato il titolo  di duca di Bomarzo, feudo ottenuto dal padre, in cambio della cessione al Papa di alcuni appezzamenti di terreno sul Gianicolo,   fu elevato al rango di principe di Belmonte da Innocenzo XI.

Sebbene l’unione con Luisa Angelica de la Trémoille non fosse delle più felici, a quanto sembrerebbe dedursi da una lettera di pugno della  donna, , il nuovo principe non diede troppo peso al comportamento libertino della moglie, teso, com’era, a godersi  i privilegi che gli erano stati concessi.

Antonio, dunque, si occupò anche dell’abbellimento del palazzo di rappresentanza della famiglia in piazza dei Caprettari e, come si diceva all’inizio, contattò Giacinto Calandrucci per la decorazione di alcuni ambienti del piano nobile.

Se non vi è più traccia della tela con Diana ed Endimione, citata dal Pascoli e replicata più volte  dal seguace di Maratta,  «l’altra stanza» cui si riferiva il biografo è stata identificata con quella oggi suddivisa nei due uffici occupati  fino a qualche anno fa dalla Presidenza dell’Istituto  Nazionale di Fisica Nucleare.

Il 19 dicembre del 1682, infatti, l’artista palermitano fu pagato dal Banco di Santo Spirito 25 scudi per le pitture  realizzate nel palazzo. E’ probabile che Calandrucci avesse già ricevuto un acconto,non rinvenuto tra le carte d’archivio.

Sul soffitto dell’ambiente di cui si diceva sono affrescati Venere, (fig. 1)   Bacco (fig. 2) e Cerere (fig. 3)

adagiati su soffici nuvole, mentre Mercurio è rappresentato in volo (fig. 4).

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Ogni divinità occupa uno scomparto diviso dal successivo da travi lignee, e nelle due sezioni  laterali compaiono putti in volo (figg. 5, 6).

La dea della bellezza  scosta il mantello rosso, colore della passione, per farsi ammirare e indica Cupido armato di faretra, come se stesse affidandogli un incarico, Cerere, invece, tiene un fascio di spighe di grano e rivolge il suo sguardo al putto che reca in mano una fiaccola accesa, simbolo del calore dell’Estate. Bacco è preceduto dai putti che governano il carro trainato dalle pantere (fig. 7);

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il suo capo è ornato di una corona di pampini, le cui foglie sono attorcigliate attorno al suo scettro del comando, mentre esibisce un grappolo d’uva matura.

Se gli attributi delle prime  tre divinità, fiori e colombe, che tuttavia non compaiono nella composizione con Venere, ma nei riquadri con i putti,  uva e spighe di grano sembrano connessi alla tematica delle  stagioni, ma anche a quella dell’amore e dell’abbondanza e al verso di Terenzio, tanto di moda in ambito arcadico: «Sine Cerere et Baccho friget Venus», la presenza di Mercurio non trova riscontri immediati nella tradizione iconografica. Il messaggero degli dei va forse considerato in relazione a Venere e alla decorazione del salone di Romanelli, dove compaiono appunto Venere, Mercurio e Marte. Mercurio, infatti,  annuncia l’avvento di Venere, dea dell’Amore e della Primavera, i cui attributi, si trasformano in “giocattoli” per i deliziosi puttini dipinti alle estremità. Del resto è evidente che queste tele, e anche quella perduta con Diana ed Endimone, celebrassero il matrimonio di Antonio con Luisa Angelica de La Trémoille.

I colori utilizzati sono estremamente vivaci e le  pose dei personaggi, in alcuni casi, come ad esempio in Mercurio, si rivelano piuttosto goffe e impacciate. Si osservano anche alcuni errori di proporzioni: le braccia di tutti gli dei sembrano corte rispetto al resto del corpo, le mani di Mercurio, soprattutto quella appoggiata al petto, appare gigantesca, il viso di Cerere ha lineamenti sgraziati.

Tra i disegni preparatori, di qualità decisamente superiore, rinvenuti da Graf a Düsseldorf[1], mancano quelli riguardanti alcuni putti e  BaccoMercurio (fig. 8) risulta ugualmente sproporzionato, Venere e Cerere (fig. 9) presentano tratti più delicati.

Non va dimenticato che Calandrucci spesso collaborava con il fratello Domenico, sicuramente meno dotato di lui, il quale può forse  aver eseguito le parti meno riuscite.  Nell’inventario dei beni degli eredi di Calandrucci, datato 1737, è citato un «disegno di molte deità di sotto in su ordinario», che potrebbe essere messo in relazione con le tele Lante.  Colpisce, nell’elaborazione grafica afferente la composizione  con Venere, (fig. 10)

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la presenza, sulla destra, di un clipeo con il ritratto di un imperatore romano visto di profilo, sostituito, nella versione definitiva, dall’aquila dello stemma Lante (fig. 11).

Questo particolare rivela la presenza di un altro collaboratore attivo insieme ai due fratelli Calandrucci. Infatti intorno al 1684  Antonio affidò l’incarico di eseguire le cornici delle tele con le Divinità al pittore-ornatista Girolamo Giacobbi, che lasciò una descrizione minuziosa del suo operato. Ogni tela è contenuta all’interno di elaborate inquadrature, terminanti ognuna in due cartelle. Quelle che fiancheggiano Bacco e Venere  ospitano aquile ad ali spiegate, emblema dei Lante della Rovere, le altre,  personificazioni. Ai lati di Cerere   compaiono la Prudenza, con lo specchio in mano (fig. 12),

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e l’Abbondanza con la classica cornucopia (fig. 13),

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mentre Bacco è attorniato da una figura ormai quasi del tutto illeggibile  e dalla Forza con la colonna (fig. 14).

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Le cartelle delle due sezioni con i Putti sono impreziosite da volti femminili, da cui si dipartono festoni e fiocchi (fig. 15).

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Nel complesso la decorazione si rivela ariosa e piacevole, anche se in precarie condizioni conservative.

Inoltre in palazzo Lante si assiste, intorno agli anni ottanta del Seicento,  al cambio di guardia tra la  bottega di Cortona, il cui allievo Romanelli aveva decorato il salone principale ed un altro ambiente del primo piano,  e quella di Maratta, di cui i Calandrucci  rappresentavano due illustri seguaci.

Rita RANDOLFI   Roma  26 aprile 2020

NOTE

L. Pascoli, Vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, ed. critica Perugia 1992, p. 749. Per la decorazione si rinvia a R. Randolfi, Palazzo Lante in piazza dei Caprettari, Roma 2010, pp. 59-70; Ead., Giacinto e Domenico Calandrucci a palazzo Lante in piazza dei Caprettari, in “Lazio Ieri e oggi”, Anno XLIX, n. 11, (588), Novembre 2013, pp. 344-346, con bibl. precedente.
D. Graf, Die Handzeichnungen von Giacinto Calandrucci, Düsseldorf 1986, I, pp. 34-36, II, tavv., 1-10.