di Giorgia TERRINONI
“Siamo di nuovo a Roma dopo un viaggio a Napoli, e da lì a Pompei in auto. Credo che nessuna città al mondo possa piacermi più di Napoli. L’Antichità classica brulica, nuova di zecca, in questa Montmartre araba, in questo enorme disordine di una kermesse che non ha mai sosta. Il cibo, Dio e la fornicazione, ecco i moventi di questo popolo romanzesco. Il Vesuvio fabbrica tutte le nuvole del mondo. Il mare è blu scuro. Scaglia giacinti sui marciapiedi”. (Jean Cocteau)
Si è aperta oggi alle Scuderie del Quirinale di Roma – e la si potrà visitare fino al 21 gennaio – la mostra Picasso. Tra Cubismo e Classicismo 1915-1925, curata da Olivier Berggruen insieme ad Anunciata von Liechtenstein. L’evento si colloca all’interno del progetto Picasso Méditerranée (2017-19), avviato dal Musée National Picasso di Parigi, che coinvolge più di sessanta istituzioni internazionali impegnate a immaginare una serie di mostre che indagano la natura mediterranea dell’opera di Picasso.
Alla mostra romana partecipano anche le Gallerie Nazionali di Arte Antica che mettono a disposizione il salone del piano nobile di Palazzo Barberini – quello del Trionfo della Divina Provvidenza di Pietro da Cortona – all’interno del quale è esposta Parade, l’immensa tela dipinta da Picasso come sipario per l’omonimo balletto ideato da Jean Cocteau.
In realtà Parade – che fu messo in scena per la prima volta al Théâtre du Châtelet di Parigi nella primavera del 1917 – nasce dalla stretta collaborazione tra Cocteau, Picasso, l’impresario dei Balletti Russi Sergej Djagilev, il musicista Erik Satie e il coreografo Léonide Massine.
L’idea per il sipario venne a Picasso proprio in Italia, durante un viaggio che egli fece nel 1917 insieme a Cocteau e Stravinskij. L’artista si divise principalmente tra Roma e Napoli (la scorsa primavera, Parade è stata esposta anche al Museo di Capodimonte), catturato irrimediabilmente dalle rovine romane, da Raffaello, dai capolavori del Museo archeologico di Napoli, dal fascino della pittura pompeiana, oltre che dalla natura artisticamente vernacolare che le due città italiane condividono.
“Le definizioni di Parade fioriscono ogni dove, come rami di lillà in questi giorni di tarda primavera. È un poema scenico che il musicista innovatore Erik Satie ha trasposto in una musica singolarmente espressiva (…). Il pittore cubista Picasso e il più audace dei coreografi, Léonide Massine, l’hanno realizzato consumando per la prima volta questa alleanza della pittura e della danza, della plastica e della mimica che è il segno dell’avvento di un’arte completa”.
Questa la preziosa cronaca dell’evento fatta allora da Guillame Apollinaire. Parade rievoca l’atmosfera di uno spettacolo di vaudeville; ma la guerra in corso è uno spettro che incombe, Dada è vicino è il Surrealismo è prossimo, e così Cocteau lo immagina come una serie di scene burlesche, che Picasso traduce in un linguaggio stenografico che dialoga, per contrasto, con lo stile naturalistico del sipario. Anche i sei personaggi ideati dall’artista, se da un lato sono ispirati al repertorio della Commedia dell’Arte, dall’altro prefigurano una realtà meccanomorfa alla maniera cubofuturista, com’è evidente nella figura del cavallo e nei due uomini moderni, sorta di manager dei tempi a venire.
La mostra romana, che celebra il centenario del soggiorno di Picasso in Italia, raccoglie più di cento opere tra tele, gouaches e disegni; a queste si aggiungono fotografie, lettere autografe e altri documenti. Il percorso è cronologico e intende mettere in luce la natura da sperimentatore dell’artista spagnolo: così, nella prima sala incontriamo il cubismo, quello tardo colto nel momento in cui Picasso ha già del tutto scardinato la tradizionale separazione delle tecniche artistiche (e lo aveva fatto insieme a Braque!), aprendole a un ménage che prende il nome di assemblage e nel quale coesistono collage, papier collé, scultura polimaterica, ma anche ancora pittura.
A seguire è la volta delle opere romane e dei ritratti. Durante il soggiorno in Italia, pur essendosi dedicato soprattutto a Parade (nel celebre studio di via Margutta), Picasso realizza altre due opere di grandi dimensioni: Arlequin et femme au collier e L’Italienne. Entrambe attingono all’immaginario della Commedia dell’Arte, eppure mostrano un linguaggio pittorico d’impianto modernista, fatto di superfici piatte. Così pure nel celebre ritratto di Olga in poltrona (1918), dove la maniera di Ingres s’incontra/scontra con una superficie disarticolata.
Al centro della mostra sta la reinvenzione picassiana del classicismo, la riabilitazione dell’illusione in arte. Una necessità anche tragica, se si pensa a quello che era accaduto in Europa, ma anche a quello che stava per accadere! Al Museo archeologico di Napoli, Picasso incontra i capolavori della classicità greca. Alcuni anni dopo, il gigantismo e la potenza della statuaria classica (l’Ercole Farnese) – mixate alla lezione di Cézanne – erompono dalle opere di Fontainebleau. È il caso delle Trois femmes à la fontaine (1921). In La Flûte de Pan (1924) invece l’artista abbraccia altre forme di classicità, che dai motivi etruschi, passando per i rilievi romani tardo antichi, arrivano a Poussin.
Nei primi anni Venti, Picasso e Olga trascorrono spesso l’estate in varie località della riviera francese. Qui egli realizza numerosi studi di bagnanti, dee, ninfe e altri esseri mitologici, le cui forme solide ma piatte si stagliano su un paesaggio mediterraneo. Le opere esposte nella nona sala mostrano bene quel che si diceva poc’anzi; ovvero che il classicismo di Picasso, lungi dall’essere un esercizio di maniera, è invece una reinvenzione. Una reinvenzione passata attraverso il postimpressionismo, la lezione di Cézanne, l’esperienza scioccante della I avanguardia e carica, inoltre, di un disperato bisogno d’illusione. Un bisogno che s’infrangerà del tutto un decennio dopo con Guernica, un’immagine immensamente più dura di tutte le fotografie scattate dai reporter partiti per le guerre che dilaniano l’Europa.
Gli ultimi spazi della mostra ripercorrono, attraverso l’esposizione di molteplici documenti, la collaborazione tra Picasso e la compagnia dei Balletti Russi. A partire da Pulcinella (1919), la cui idea inizia a germogliare nel 1917, quando Picasso e Stravinskij assistono a uno spettacolo di burattini per le strade di Napoli e restano affascinati dalla bizzarria e dalla comicità volgare che caratterizza la maschera. Diagjlev affiderà a Massine la coreografia, a Stravinskij la musica e a Picasso le scene e costumi. Pulcinella rappresenta un’opera particolarmente compiuta, poiché ogni elemento coinvolto confluisce armoniosamente in una rievocazione del passato che è romantica eppure, al contempo, ironica.
Nel 1924, con il Mercure, Picasso torna a collaborare con Massine e Satie. In questo caso, l’artista realizza una serie di tableaux vivants, nei quali aspirazione alla bidimensionalità, suggestioni classiche e riferimenti a una modernità meccanomorfa coesistono. L’estetica complessiva è molto riduzionista e si sposa perfettamente con le pose ieratiche dei ballerini, con la loro gestualità rigida, impassibile.
Parallelamente, nei disegni dello spagnolo, iniziano a fare la loro comparsa linee molto fluide, in grado di veicolare un’idea potente di movimento. L’apparizione della linea fluida nell’arte di Picasso prefigura il suo ménage, assai prossimo, con il surrealismo.
Ma a questo punto inizia un’altra fase!
di Giorgia TERRINONI Roma 22 settembre 2017