di Maria BUSACCA
Maria Busacca, catanese, è laureata in lettere moderne con indirizzo storico artistico e abilitata all’insegnamento di storia dell’arte, con la qualifica di catalogatrice di beni storico artistici dal 1999 ha prestato servizio alla Soprintendenza per i BB.CC.AA di Catania, e attualmente presta servizio al Parco archeologico di Catania e della valle delle Aci, redigendo schede e saggi in pubblicazioni scientifiche dal 2001. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con About Art.
GLI INCISORI DI CASA VERGA
Casa Museo Giovanni Verga è sita in via Sant’Anna 8 a Catania, in pieno centro storico, a due passi da quella che era Piazza San Filippo, oggi Piazza Mazzini, che ospitava il mercato al chiuso. La casa giunse al Verga per parte di madre, Caterina Di Mauro Barbagallo; si trova al secondo piano del palazzetto di tardo settecento che sorge sull’area del Conventino di sant’Anna dei padri trinitari della Redenzione, o Captivi, i quali possedevano anche botteghe e magazzini al piano terra e che abbandonarono il sito verso la fine del Settecento.
Dichiarata monumento nazionale l’11 gennaio 1940, nel 1980 è stata venduta dal nipote prediletto dello scrittore verista, Giovannino, e acquistata dalla Regione siciliana. Contenitore di una svariata gamma di oggetti d’arte appartenuti allo scrittore, annovera oltre ai mobili e ad alcune suppellettili, una corposa biblioteca e dipinti dei pittori catanesi Calcedonio Reina e Alessandro Abate; insieme ai ritratti di famiglia, il ritratto ad olio di Verga eseguito intorno al 1912 dal pittore veneto dai soggiorni catanesi Amedeo Bianchi, e la targa in ottone e marmo per gli 80 anni dello scrittore del palermitano Giovanni Nicolini1.
Minore attenzione è stata dedicata alle stampe, che si rivelano interessanti testimonianze della produzione italiana ed estera omaggiate allo scrittore dagli stessi artisti, con i quali intratteneva rapporti di amicizia e collaborazione, o dalle associazioni culturali delle quali egli era socio: nello specifico le acqueforti del catanese Francesco Di Bartolo, del torinese Celestino Turletti, del piemontese Eleuterio Pagliano e del belga Edmond De Prater. In questo breve testo si offre una prima ricognizione delle incisioni esposte.
A Francesco Di Bartolo 2 pittore e fine incisore catanese, amico fraterno e assiduo frequentatore della casa del Verga, si deve la versione ad acquaforte del famoso dipinto di Domenico Morelli 4 “Gli Iconoclasti ” (fig. 1); con dedica autografa apposta a penna sul passe-partout “All’amico Giovanni Verga F. Di Bartolo ”, reca la data 1865.
Il giovane Francesco, dopo un breve apprendistato a Catania sotto la guida del pittore Giuseppe Gandolfo3 nel 1854 ottenne per merito una pensione per studiare le tecniche dell’incisione all’Accademia di Belle Arti a Napoli, città dove restò godendo della stima e dell’amicizia, fra gli altri, proprio del maestro Morelli. Amico anche degli scrittori catanesi Federico De Roberto e Mario Rapisardi (che lo chiamava nelle sue lettere “Don Bartuliddu”), ritornato a Catania dal 1890 ca., frequentò con loro la casa di via Sant’Anna. L’omaggio con dedica potrebbe risalire pertanto a questo segmento cronologico.
Il quadro originale di Morelli è esposto al Museo di Capodimonte; realizzato nel 1855 e di ben più grandi dimensioni, interpretando in chiave romantica il medioevo quale fonte storica di ispirazione dei valori etici di resistenza, ritrae il monaco Lazzaro detto lo Zographos (il pittore) o l’Iconografo – nato in Armenia verso la fine del VII secolo -, mentre viene catturato nei sotterranei della Chiesa di San Giovanni in Studium a Costantinopoli perché trovato nuovamente intento a dipingere immagini sacre. 5
Di Bartolo traduce il forte cromatismo morelliano con un segno grafico deciso, che sottolinea i dettagli, come il brano di natura morta, con il vaso per il colore in frantumi sul pavimento e i pennelli sparpagliati (fig.2). L’artista era noto anche, o forse soprattutto, per la capacità di accostarsi con rispetto al mondo animale e di ritrarlo senza cadere nel banale o nello stucchevole col trasferirvi attitudini o simiglianze con l’umano; così altre sue due trasposizioni all’acquaforte, da “Vitello e capre” (fig.3) e “Il Ciucciarello” (fig.4), due dipinti dell’altrettanto noto caposcuola Filippo Palizzi. 6
I due si conobbero a Napoli, presso il Real Istituto di Belle Arti dove il Palizzi, già insegnante di disegno, nel 1860 ebbe la direzione, e nel 1868 collaborò con Morelli a una riforma dell’insegnamento accademico, e Di Bartolo da allievo, fu successivamente nominato Professore Onorario nel 1870. Divenuto abile nella tecnica incisoria egli rese omaggio al maestro e realizzò fra le altre le due acqueforti “forse per bizzarria o forse per dar prova, a se stesso e agli altri, della sua versatilità“7 restituendo le tinte decise e contrastare con altrettanto vigore di tratto.
Nel 1863 da Napoli inviò al Calamatta, uno dei più quotati incisori di quegli anni che aveva conosciuto a Milano, cinque opere: una S. Agata a bulino e delle incisioni ad acquaforte da dipinti del Palizzi; insieme ad “Una testa di cane” e “Due vitellucci”, erano proprio “Un ciucciariello con altri animali”, e “Un vitellino che beve”, con Una contadinella. Il Calamatta lo esortò ad insistere nell’acquaforte e così per una decina di anni il Di Bartolo vi si dedicò esclusivamente.
Nel 1872 si trasferì a Roma, divenuta capitale dell’Italia unita, al seguito del Maestro Alojsio Juvara, che era stato chiamato dal Ministro dell’Istruzione Pubblica per attuare “il riordino” della Regia Calcografia, un Organismo statale che si occupava della “traduzione” ad incisione, della stampa e della diffusione delle opere d’Arte più importanti del patrimonio artistico nazionale; alla Regia Calcografia Di Bartolo diede di nuovo in stampa le lastre delle nostre due acqueforti, come si legge in margine ai fogli, riferibili dunque a quella data. Rientrato a Catania dal 1892, ne omaggiò allora una copia all’amico Giovanni Verga con dedica autografa “Al Chiar.mo Giovanni Verga Francesco di Bartolo”; dopo alcuni anni di partecipazione alla vita culturale catanese – fu nominato direttore del Museo civico, presidente del Circolo artistico, presidente della scuola di arti e mestieri -, si ritirò a vita privata nel suo villino di via Cifali.
I soggetti dei dipinti originali del Palizzi negli anni erano da lui stesso replicati con varianti; così del nostro vitellino che si abbevera insieme alle caprette in una stalla ne abbiamo qui rintracciati altri due ma ritratti specularmente, uno in interno ma con due bambini e pastorella (fig. 5),
l’altro in aperta campagna con ovini e con la stessa pastorella – “All’abbeverata”, 1867- (fig. 6).
Del Ciucciarello abbiamo individuato il bozzetto (fig.7), molto scarno e poco dettagliato, ma identico nella posa, con l’asinello colto quasi di sorpresa a masticare un ciuffetto di fieno.
Varca i confini regionali, una stampa anch’essa di ambientazione agreste; una pastorella scruta l’orizzonte da un promontorio roccioso, le mani dietro la schiena, all’unisono con il piccolo gregge riunito attorno a lei, che similmente cerca di capire cosa abbia attratto il suo sguardo.
Il titolo emblematico, “Che c’è” (fig.8), sintetizza il soggetto rappresentato: non una semplice scena di genere ma la ricerca di qualcosa di esterno al quadro che sfugge allo spettatore diviene essa stessa soggetto.
L’allineamento secondo la diagonale ascendente da sinistra a destra aiuta la lettura, la tensione emotiva creata dal dare le spalle a chi guarda è mista al senso di appartenenza, di comunanza fra uomini e animali; le pecore infatti mimano in pose anche un po’ comiche la curiosità della ragazzina e una di esse, in bilico fra le rocce, allarga le zampe per non scivolare. Il dipinto originale del piacentino Stefano Bruzzi 8 da cui è tratta l’incisione, è conosciuto anche come “La piccola guardiana” (fig. 9). Realizza la nostra copia Celestino Turletti 9 certo entro il 1887, anno in cui la Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente di Milano ne fa omaggio ai soci, fra i quali Giovanni Verga, come in calce al foglio, per la Calcografia Lovera.
Turletti si formò all’Accademia Albertina, perfezionandosi poi a Firenze; valente acquafortista dal 1870, sebbene vigoroso esecutore di quadri di genere dall’umana vena comica, raggiunse la fama riproducendo opere di artisti contemporanei, come in questo caso; molte sue opere sono alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino – tra i suoi allievi il pittore di paesaggi alpini Giuseppe Sauli d’Igliano.
Lo stesso Bruzzi, la parte più viva della cui produzione è costituita dagli studi eseguiti dal vero – una intera sala gli è riservata nella Galleria d’arte moderna Ricci-Oddi di Piacenza -, replicò il suo dipinto con il quale è presente a Torino nel 1884, traducendolo in acquaforte (fig. 10).
Messe a confronto le versioni rivelano le profonde differenze stilistiche e interpretative: Turletti rende con segno corposo ma allo stesso tempo morbido il colore che Bruzzi ripropone nella sua incisione con toni pastello.
Altro contesto artistico ed altro soggetto nell’acquaforte monotipata “La figlia del Tintoretto” (fig. 11) del pittore Eleuterio Pagliano .10
Deriva, ribaltandolo specularmente, da un dipinto ad olio (fig. 12) dello stesso autore esposto in mostra alla Galleria d’arte Moderna di Milano e datato 1861, data che possiamo considerare quale terminus post quem.
L’opera seguiva il percorso morelliano di aggiornamento della pittura storica enfatizzando gli effetti cromatici e luminosi che Pagliano stesso traduceva poi nei contrasti bianco nero dell’acquaforte.
Negli anni milanesi Verga fu membro della Società di Belle Arti ed Esposizione permanente fondata nel 1882, che provvide a regalarne ai soci una copia nel 1884, come si legge in margine nel foglio.
L’interpretazione melodrammatica ben si accordava con le inclinazioni letterarie del Verga milanese: la donna morente è ritratta in un ambiente spoglio, il padre riverso sul letto ai suoi piedi, una candela che anticipa la dipartita, la luce radente da destra (o da sinistra se si analizza il dipinto originale), e le coperte che sono tutte un fremito.
In epoca romantica ebbe un certo fascino anche la leggenda che Jacopo avesse ritratto la figlia sul letto di morte: la scena fu soggetto di alcuni dipinti di cui il più noto rimane quello di Léon Cogniet (1794 – 1880) del 1843 circa, al Musée des Beaux-Arts de Bordeaux (fig. 13).
Il padre attonito ha al suo fianco sul cavalletto il ritratto non finito della giovane figlia agonizzante, che ne riporta il nome, Maria (Marietta) Robusti, detta la Tintoretta.11 Era la primogenita amatissima di Jacopo Robusti, il Tintoretto, nata da una sua relazione con una cortigiana tedesca, tale Cornelia; crebbe nella casa paterna dove undicenne la notò il pittore olandese Pieter Vlerick.
“Essendo piccoletta vestiva da fanciullo, e conducevala seco il Padre dovunque andava, onde era tenuta da tutti un maschio“ (Ridolfi,1648).
Imparò così bene l’arte di dipingere da essere richiesta a corte sia da Filippo II, re di Spagna (il quale ebbe fra le artiste Sofonisba Anguissola), che da Massimiliano II d’Austria12.
Secondo la tradizione è tumulata a Venezia, nella chiesa della Madonna dell’Orto, dove in seguito venne sepolto anche il padre.
L’ultima stampa della carrellata elude i confini nazionali: due ciuchi, una mamma col suo piccolo, guardano diritto negli occhi il fruitore, il pensiero si palesa nel titolo “Thinking it over” (fig. 14), Pensandoci su.
L’autore si firma in basso a sinistra: Edmond de Prater, 1880. Lo tradusse in incisione dal suo dipinto (fig. 15), di cui il 1880 costituisce la datazione ante quem, che pare sia stato acquistato dal re del Belgio Leopoldo Il.
Attualmente i Musei reali di belle arti del Belgio a Bruxelles espongono uno studio di teste di asini (fig. 16)13, e altre copie in stampa. L’incisione, come si legge in foglio, è stata “Fatta entrare secondo l’atto del congresso nell’anno 1882 da M. Knoedler & C.14 nell’ufficio del bibliotecario del congresso a Washington”, in ristampa.
Edmond de Prater 15, figlio di Josef Bernard ufficiale giudiziario e di Eugénie Vincent, non era il solo componente della famiglia ad eccellere nella pittura; i due fratelli, il maggiore Henrik ed il minore Paul, erano molto dotati artisticamente. Edmond iniziò praticando la pittura decorativa insieme a Hendrik, e prima del 1850 iniziò ad applicarsi con successo alla pittura di animali che lo ha reso artista conosciuto in patria e all’estero.
Il soggetto della nostra stampa cela allusioni morali, come nella tradizione che vede nell’asino un animale ambivalente, ora stupido ora riflessivo, già dalla classicità di Apuleio; il tratto è espressionista, come ben si coglie nello studio delle teste esposto a Bruxelles, energico e deciso anche nella trasposizione grafica. Come sia giunta alla collezione del Verga è ancora incerto allo stato attuale dei lavori.
Gli interessi di Verga per l’incisione si evincono anche attraverso i numerosi libri illustrati della biblioteca personale custodita nella sua interezza nella Casa Museo. A proposito di questo argomento, che probabilmente sarà oggetto di un’ ulteriore riflessione, si segnalano le illustrazioni di Carlo Carrà accluse nel suo libro “Guerra pittura”, edito a Milano nel 1915, di cui l’autore omaggia una copia con dedica autografa allo scrittore verista; in particolare quella intitolata Prigionieri di guerra / Prisonniers de guerre (fig. 17), che denuncia un influsso cubista. 16
Maria BUSACCA Catania 20 Novembre 2022
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