di Claudio LISTANTI
Molto apprezzati dal pubblico il direttore Daniele Rustioni e l’ottima compagnia di canto. Contestata la discutibile messa in scena di dell’ucraino Andriy Zholdak.
Il 15 marzo scorso si è aperto al Teatro dell’Operadi Lione il tradizionale ‘Festival’ inserito nella programmazione annuale del teatro, una manifestazione che arricchisce la già cospicua offerta ‘operistica’ che la splendida città del sud-est della Francia riesce a dare a tutti gli appassionati di questo genere musicale, molto attesa dal pubblico e dagli addetti ai lavori per i suoi contenuti sempre stimolanti e di straordinario spessore culturale che solo un ‘festival’ può creare garantendo, ed incoraggiando, quella indispensabile ‘sperimentazione’ necessaria per essere vettore privilegiato di novità non solo nei linguaggi teatrali ma anche nel modo di vedere il teatro lirico ‘oggi’ ed introdurre validi elementi di discussione, veri pilastri di quella innovazione che, nel terzo millennio, è attesa nel mondo della Musica e dello Spettacolo che seguiamo più da vicino, ma anche in tutti gli altri campi della cultura e della conoscenza.
Quest’anno il Festival dell’Opera di Lione ha come titolo emblematico ‘Vies et Destins’ (Vite e Destini) ed ha avuto come spettacolo di punta l’esecuzione di Čarodejca (La Maliarda) di Piotr Ilijc Čajkovskij. Prima di ogni altra considerazione va sottolineata l’importanza di questa scelta in quanto è la prima volta che questa opera è stata eseguita, non solo a Lione, ma in tutta la Francia stessa per cui la serata del 15 marzo 2019 è da considerarsi una vera e propria prima assoluta.
Comunque Čarodejca è certamente una partitura poco conosciuta al di fuori dei confini della Russia, caduta in un immeritato oblio, ma possiede dei valori musicali indiscutibili; un oblio dovuto, almeno come accaduto qui da noi in Italia, per motivi di estetica musicale, in quanto è stata inquadrata dalla critica in una collocazione non perfettamente corrispondente ai suoi valori.
L’ispirazione letteraria risiede in un dramma teatrale molto in voga nella Russia degli anni intorno al 1880, scritto da Ippolit Vasilevič Špažinskij, soggetto dal quale Čajkovskij fu affascinato soprattutto dalla personalità della seducente protagonista che riesce ad attrarre l’attenzione di uomini tra i più vari, così diversa dalle altre sue primedonne, vedi Tatiana dell’Onegin di qualche anno prima o della successiva Liza di Pikovaja Dama. Il musicista chiese allo stesso Špažinskij di produrre un libretto adatto alla trasposizione del dramma in opera lirica la cui composizione impegnò il musicista per un periodo che va dal settembre 1885 all’agosto 1886 con la prima assoluta avvenuta, dopo vari ripensamenti e modifiche su alcune scene previste dal libretto, il 20 ottobre 1887 presso il Teatro Marinskij di San Pietroburgo sotto la direzione dello stesso Čajkovskij.
Protagonista principale è Nastasia, la maliarda, giovane ed attraente vedova che gestisce un albergo nella zona che vede la confluenza dei fiumi Oka e Volga, soprannominata Kuma. La giovane e avvenente donna è però sospettata di stregoneria cosa che potrebbe costringere il principe Nikita Kurljatev, governatore della zona, a prendere seri provvedimenti. Entra così in ballo Mamyrov, una sorta di monaco puritano che pone all’attenzione del suo principe certi aspetti giudicati dissoluti dei comportamenti di Kuma che vengono sottolineati durante una loro visita ai luoghi dove la ragazza vive. L’arte ammaliatrice di Kuma ed il suo indiscutibile fascino conducono il principe Nikita ad innamorarsi di lei provocando così la reazione della sua consorte, la principessa Evpraksija, sua moglie, aprendo così le porte ad una conclamata crisi di coppia mitigata dall’arrivo del loro figlio Jurij vicino al matrimonio ma anche dal fatto che la principessa apprende che questa relazione extra coniugale può essere interrotta grazie agli effetti di un filtro magico.
L’amore di Kuma per il principe si attenua e nello stesso tempo il suo indiscutibile fascino conquista sempre di più il giovane Jurij ed i due decidono anche di fuggire insieme Nel frattempo Evpraksija ha provveduto a far preparare il filtro magico che dovrebbe agire su Kuma per interrompere l’attrazione del Principe per lei. Il filtro però avvelena e provoca la morte di Kuma ed il suo corpo gettato nel fiume. L’evento conduce Jurij a ritenere responsabile principale il Principe suo padre ma questi lo uccide con un pugnale provocando l’orrore della principessa.
Questa è la storia per sommi capi alla quale Čajkovskij ha dato linfa vitale con una partitura di straordinario fascino che, come già accennato, è ingiustamente poco conosciuta. In Italia è stata anche considerata di stampo ‘verista’ forse perché attigua al fatidico 1890 anno della Cavalleria Rusticana, vero capostipite del genere. I caratteri della musica che abbiamo ascoltato contraddicono questa visione. Certamente c’è l’elemento popolare nei cori e nelle danze che pervadono soprattutto il primo atto ma, questo, non è uno stilema prettamente verista, perché la caratterizzazione dell’ambiente che circonda l’azione è utilizzato spesso nell’opera lirica, soprattutto nella seconda metà del’800, grazie all’esperienza proveniente dal Grand Operà, genere che vide lo zenit con i grandi affreschi storico/musicali dei Vêpres siciliennes e Don Carlos di Giuseppe Verdi e, soprattutto, con le scene popolari contenute nella Forza del Destino il capolavoro che vide la luce nel 1862 proprio a San Pietroburgo costituendo così una sorta di modello fornito da un musicista che certo non si può definire verista.
Nemmeno la linea di canto di Čarodejca possiede la specificità di quella verista perché lontana da quel tipo di recitativo, spesso ostinato, anche se, spesso, particolarmente espressivo ma poco incline alla melodia, elementi che in quest’opera non sono in pratica presenti; al contrario è sempre ben presente la cura per l’espressività delle arie, che qui è più coerente considerarli veri e propri ariosi, spesso dalla melodia prorompente riuscendo così ad entrare con forza nello stato d’animo del personaggio per trasferirlo intatto allo spettatore/ascoltatore. E’ un’opera, quindi, a tutti gli effetti ‘cajkovskiana’.
La partitura prevede un nutrito organico orchestrale, soprattutto nella sezione dei legni e delle percussioni mostrando così una orchestrazione particolarmente ricca e variegata per giungere alla realizzazione di una preziosa gamma di colori e timbri. L’opera ha forse un piccolo difetto, quello di avere, in alcuni momenti, un po’ di discontinuità dovuta a cali di tensione drammatica ma nel complesso riesce ad essere veramente coinvolgente. Il primo atto è dominato dai cori e dalle danze popolari ma anche dalla caratterizzazione dei personaggi minori, un modo per arricchire con efficacia tutto il contorno dell’azione. Di particolare fascino il il geniale ‘decimino’ a cappella contenuto nel finale, di difficile esecuzione per la complessità di intonazione. Sono frequenti scene d’insieme e quartetti ma soprattutto duetti, come nel terzo atto, sicuramente il più compatto ed il più riuscito drammaturgicamente dei quattro previsti dove se ne contrappongono due particolarmente grandiosi. Come accennato poco prima, molta espressività è riservata ai numerosi ariosi dalla linea vocale senza dubbio impegnativa, non solo per i cinque interpreti principali ma anche per quelli secondari. C’è anche un utilizzo del coro cospicuo ed affascinante che negli ultimi due atti diviene esclusivamente maschile e grande protagonista dello strepitoso finale con una sorta di accattivante e travolgente canto funebre, incastonato tra le sonorità che descrivono il placido e continuo fluire delle acque del fiume Oka e la turbinosa tempesta, pagine che assieme costituiscono uno dei vertici di tutta l’opera.
Per riferire della rappresentazione alla quale abbiamo assistito iniziamo dalla messa in scena.
Come capita, ormai quasi sempre ovunque oggi, anche qui a Lione è stata costruita in modo particolarmente creativo per la ricerca di una attualizzazione della trama. Andriy Zholdak, che oltre alla regia ha curato anche le luci e le scene assieme a Daniel Zholdak, ha concepito un allestimento tanto fantasioso quanto onirico e surreale nel quale il personaggio di Mamyrov viene assegnata una centralità assoluta dove l’oltranzismo del ‘fanatismo puritano’ di carattere religioso assume veri e propri caratteri di Santa Inquisizione realizzata con strumenti moderni, telecamere, cineprese, binocoli e cannocchiali le cui rilevazioni confluiscono, telematicamente, all’interno del cervello di Gesù crocefisso che può così venire a conoscenza, come se già non le conoscesse, di tutte le depravazioni dell’umanità. Attorno a questo ‘prete’ gira tutta la galassia degli altri personaggi che a turno salgono alla ribalta a seconda della loro parte, elemento questo che ha un po’ soffocato il personaggio di Kuma, soprattutto il suo essere attraente, sensuale ed ammaliatrice, caratteristiche che fortunatamente vengono messe ben in risalto dall’indiscutibile pregio della musica e della vocalità che Čajkovskij ha riservato a questa sua meravigliosa creatura.
La scena, dopo aver accantonato le indicazioni del libretto, era idealmente divisa in tre sezioni, con quella centrale che raffigurava una chiesa con crocifisso mentre all’estrema sinistra c’era una camera da letto nella quale transitavano vari personaggi, forse richiamo alla fama di dissolutezza dell’albergo di Kuma e, all’estrema destra, una sala dello stesso albergo. (Fig. 5) Questi tre elementi alle volte assumevano diverso ordine a seconda dell’esigenza dello svolgimento teatrale. Per il resto Mamyrov alle volte dismetteva l’abito talare per assumere altre sembianze tra le quali, nel finale, quella di un tennista in verde acceso riuscendo così a togliere potenza drammatica allo strepitoso finale dell’opera al quale abbiamo prima accennato. In questi ambienti avvenivano cose costantemente fuori di logica come uccisioni senza effetto, amori di vario tipo, etero, omo, saffici con cameriere costrette a rapporti orali o ragazze sottoposte a sculacciate punitive (o erotiche?) assieme ad altre stranezze varie.
Di tutto ciò dobbiamo però dire che, dal punto di vista registico, erano realizzate grazie ad una estrema cura dei movimenti testimonianza della notevole esperienza teatrale posseduta dal regista ucraino alla cui visione generale hanno contribuito con assoluta fedeltà, e pregio, i costumi di Simon Machabeli, i video di Étienne Guiol ed il consigliere drammaturgico Georges Banu.
Per quanto riguarda la parte musicale è risultata curata sotto ogni aspetto grazie alla direzione di Daniele Rustioni,
artista che ricopre la carica di direttore principale dell’Orchestra dell’Opera di Lione, musicista che apprezziamo molto per le varie esecuzioni che abbiamo ascoltato; anche questa volta, ha fornito una interpretazione di grande spessore basata sull’estrema cura della parte orchestrale valorizzando non solo la ricca orchestrazione di Čajkovskij ma anche i ritmi, i colori, i timbri e la dinamica dei suoni adottando dei tempi che ne hanno esaltato la cantabilità e l’azione drammatica dell’opera per ottenere una buona integrazione tra parte strumentale e vocale grazie ad una convincente prestazione del Coro diretto da Christoph Heil e ad una compagnia di canto di ottimo livello.
A proposito di quest’ultima Čarodejca richiede l’impegno di sedici cantanti tra i quali i cinque principali di grande spessore vocale ‘da Trovatore’ come lo stesso Rustioni ha dichiarato presentando l’opera. Ed infatti nei ruoli fondamentali abbiamo potuto apprezzare Elena Guseva una Kuma dalla voce suadente e calda, adatta al fascino proprio del personaggio particolarmente a suo agio nella difficile tessitura. Affianco ad essa una principessa Evpraksija di grande spessore, il mezzosoprano Ksenia Vyaznikona, alle prese con una ampia tessitura alla quale ha messo a disposizione i suoi sostanziosi ed accattivanti toni gravi ed un fraseggio appassionato ma, purtroppo, con qualche difficoltà nel registro acuto.
Apprezzabili anche i ruoli maschili: il baritono Avez Abdulla è stato un efficace principe Nikita Kurljatev mentre il tenore Migran Agadzhanyan un principino Jurij dalla voce svettante per nulla in difficoltà nella tessitura acuta che arriva fino al si naturale. Piotr Micinski si è rivelato ottimo Mamyrov non solo per aver dimostrato di essere a suo agio nella realizzazione dell’eccentrica parte scenica a lui dedicata ma anche per il suo stile di canto riuscendo a ben amalgamare le emissioni pacate con quelle più istintive ed impetuose.
Il resto della compagna ha dimostrato di essere felicemente omogenea con il resto dello spettacolo sia musicalmente che scenicamente: Mairam Sokolova (Nenila), Oleg Budaratskly (Ivan Jouran), Simon Machlinskj (Foka), Daniel Kluge (Bslskine), Roman Hoza (Potap), Chrisstophe Poncet de Solages (Loukach), Evgeny Solodovnikov (Kitchiga), Vasily Efimov (Païssi), Sergey Kaydalow (Koudma), Clémence Puossin artista dello Studio di Opera di Lione (Polia) e Tigran Guiragosyan artista del Coro di Opera di Lione (Invité).
Al termine della recita (15 marzo) ci sono stati diversi fischi e ‘buu’ per il regista ma per la parte prettamente musicale tanti applausi e molte richieste al proscenio per tutti i cantanti e per il direttore Daniele Rustioni che ha ottenuto un lusinghiero successo personale testimonianza del gradimento che riscuote presso l’attento ed esperto pubblico di Lione.
Claudio LISTANTI Lione marzo 2019