di Francesco PETRUCCI
Francesco Petrucci (Roma, 1958) architetto e storico dell’arte è tra i massimi studiosi della pittura barocca romana; ha pubblicato importanti monografie su Giovan Battista Gaulli (il Baciccio), Pier Francesco Mola, Ferdinand Voet, Giovanni Battista Beinaschi (in collaborazione con il compianto Vincenzo Pacelli), 6 volumi sulla ritrattistica romana del Seicento e del Settecento; è considerato tra i massimi esperti internazionali di Gian Lorenzo Bernini di cui ha ritrovato una scultura scomparsa raffigurante papa Paolo V Borghese oltre a disegni e dipinti; ha promosso in Palazzo Chigi ad Ariccia il Museo del Barocco romano, che raccoglie capolavori della pittura sei-settecentesca frutto anche di donazioni di pretigiose collezioni private, e del quale è da tempo Conservatore, promuovendo in questa veste iniziative espositive e convegnistiche di cui è impossibile dar conto in questa sede. Con questo saggio inizia la sua collaborazione ad About Art
Guercino: tra Mahon, Turner e Pulini
Il 2017 è stato un anno memorabile per gli studi su Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento 1591 – Bologna 1666), culminato, dopo la mostra curata da Daniele Benati e Antonella Gigli nel Palazzo Farnese di Piacenza, seguita da un convegno internazionale di studi, nella monumentale monografia di Nicholas Turner, Ugo Bozzi Editore. Allo scadere dell’anno ha visto poi luce un’agile pubblicazione di Massimo Pulini, che, attraverso il tipo del romanzo storico, affronta con intelligenza creativa alcuni problemi legati al linguaggio giovanile dell’artista e alla sua metamorfosi in campione del classicismo.[1]
Per quanto mi riguarda sono stato coinvolto dagli autori, con Piero Boccardo nel primo caso e Sergio Guarino nel secondo, alla presentazione delle loro fatiche, rispettivamente il 31 ottobre a Piacenza, Palazzo Rota Pisaroni, e il 12 gennaio 2017 a Roma, Pinacoteca Capitolina.
Tra i miei scarsi meriti sull’argomento, la pubblicazione di uno studio inerente i dipinti del Guercino della collezione Chigi, che raggiungevano la cospicua compagine di una ventina di esemplari. In quella sede, oltre a un Paesaggio con san Paolo eremita donato nel 1631 dalla comunità di Cento a monsignor Fabio
Chigi, poi Alessandro VII, reintrodussi nel catalogo dell’artista anche il Damone e Pizia della collezione Rospigliosi, precisando che l’opera non era mai stata donata dal cardinale Pallotta ad Alessandro VII, come erroneamente riportava Malvasia, ma al suo successore Clemente IX. Trovava così giustificazione la legittima presenza della grande tela presso gli eredi del papa pistoiese e l’identificazione con il quadro citato nel “Libro dei Conti” nel 1632.[2]
In precedenza avevo restituito al Guercino, sulla base di una vecchia fotografia anteriore al furto del 1973, il San Francesco stigmatizzato di Campello Monti, correlandolo alla perduta pala di San Giovanni in Persiceto, ritrovata in Svizzera e rimpatriata nel dicembre 1999.[3]
Non posso non ricordare gli incontri e scambi di corrispondenza con Sir Denis Mahon (1910-2011), la luminosa figura di studioso cui si deve la riscoperta di Guercino, anche attraverso l’acquisizione di numerosi suoi capolavori poi donati a vari musei europei (dalla National Gallery of Ireland di Dublino, all’Ashmolean Museum di Oxford, alla Pinacoteca Nazionale di Bologna e soprattutto alla National Gallery di Londra, ove Guercino è l’artista italiano del XVII secolo più rappresentato), e una piena rivalutazione della pittura barocca italiana. Mahon peraltro mi ha onorato di visitare quasi tutte le mostre organizzate nel Palazzo Chigi di Ariccia, prima della sua scomparsa ormai ultracentenario.
L’ingente lavoro portato a compimento da Turner si pone all’insegna della continuità, sia per la lunga collaborazione con Mahon, che per il fatto di aver affidato le sue carte alla gloriosa casa editrice fondata nel 1965 da Ugo Bozzi, portata avanti dopo la sua prematura scomparsa dal compianto Patrizio Busiri Vici, oggi guidata con passione e competenza dal figlio Ulrico: la stessa casa editrice promotrice trent’anni or sono della prima monografia sull’artista, curata da Luigi Salerno con la supervisione di Mahon.[4]
Turner infatti dal 1979 al 1989 affiancò l’insigne studioso nel catalogo degli oltre ottocento disegni del pittore emiliano conservati presso le collezioni reali di Windsor Castle, pubblicato a Cambridge nel 1989. Non a caso Salerno nell’introduzione alla sua monografia aggregava anche Turner tra i componenti della “brigata guercinesca” che si era raccolta attorno al maestro londinese, assieme a Prisco Bagni, Carolyn Wood, David Stone e se stesso.[5]
Dall’inizio degli anni ’80 del secolo scorso Turner effettivamente ha licenziato numerosi studi su Guercino, in particolare inerenti la sua vasta produzione grafica, poi anche su dipinti, soprattutto dopo la scomparsa di Mahon nel 2011. La pubblicazione è infatti sostenuta dalla “Sir Denis Mahon Charitable Trust”, benemerita istituzione che ha dato puntualmente seguito alle volontà dello studioso e ne rende viva la memoria attraverso varie iniziative.
La monografia trova la sua principale ragione di essere nell’aggiornamento del catalogo dei dipinti dell’artista, che dalle circa 350 opere pubblicate da Salerno giunge alle 508 del catalogo di Turner, cui debbono aggiungersi anche vari multipli schedati con lo stesso indice numerico e l’aggiunta di numeri romani. Infatti, grazie all’apporto di vari studiosi, tra cui David Stone, autore di un’ulteriore monografia nel 1991, Massimo Pulini, Alessandro Brogi ed altri, compreso lo stesso Turner, sono riemerse dagli anni ’90 numerose opere riferite all’artista, molte correlate allo stesso “Libro di Conti”, quindi con un supporto documentario. Significativa la scoperta a Rimini di un gruppo di quadri provenienti dalla collezione Manganoni, commissionati dal mercante di stoffe riminese Francesco Manganoni a Guercino e bottega tra il 1659 e il 1662, esposti in una mostra a cura di Pier Giorgio Pasini, Piero Meldini e Massimo Pulini nel 2002.[6]
A mio avviso tra le aggiunte più significative al catalogo del pittore nella monografia di Turner, pubblicate a colori nei saggi introduttivi, i due frammenti della perduta pala giovanile di Ognissanti per la chiesa dello Spirito Santo a Cento (n. 5, riconosciuti dallo studioso e passati in asta a Parigi da Tajan nel 2015), la Vanitas con Elena di Troia come una vecchia in collezione privata (n. 24), il Padre Eterno con un putto, prima versione rispetto alla tela di Palazzo Bianco a Genova (n. 94.I), il Memento mori in collezione privata (n. 121), una nuova superiore versione di Salome visita san Giovanni Battista in prigione (n. 99.II), ma anche la restituzione al suo vero autore della Natività giovanile della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini (n. 17), dell’Angelo annunciante e della Vergine annunciata nel medesimo museo (n. 67, 68), della Testa di Cristo coronato di spine del Museum of Fine Arts di Budapest (n. 106), ed altro ancora, compreso lo splendido disegno con l’autoritratto di scorcio pubblicato come antiporta.
Ma non consiste solo in questo l’interesse della nuova monografia. Dal punto di vista critico e metodologico l’imponente ricerca di Turner si distingue per la stretta correlazione stabilita tra disegni e dipinti, fondata sulla sua vastissima conoscenza del disegno barocco e in particolare guercinesco, che gli ha consentito non solo di comprendere meglio il processo creativo dell’artista, ma anche la paternità di alcune invenzioni, comprese opere perdute.
Uno dei problemi più delicati della vasta produzione del Guercino, comune alle più affollate e prolifiche botteghe del ‘600, è quello della presenza di repliche e ulteriori redazioni della medesima composizione.
Certamente è difficile dare un giudizio sull’autografia dei numerosi multipli pubblicati da Turner senza aver preso visione delle opere e basandosi solo sulle riproduzioni in bianco e nero in piccolo formato nella parte di catalogo, tuttavia le belle immagini a colori presenti nei saggi introduttivi del volume ci mostrano effettivamente esiti di equivalente livello qualitativo, con piccole variazioni sostanziate più nella modalità esecutiva, nel ritmo delle pennellate e negli accordi luministici, che nella composizione. In tal caso sarebbe arbitrario stabilire una priorità tra le differenti versioni e declassarne alcune a copie o ad opere di bottega, restando in molti casi un problema di lana caprina individuarne il prototipo.
L’impostazione critica novecentesca di stampo idealistico – non solo nel caso di Guercino -, tendeva a considerare originale un solo esemplare, mentre altre redazioni che riemergevano erano riferite alla bottega o ritenute copie. Tra l’altro secondo Mahon e Salerno, seguiti da Turner, a differenza di altri artisti Guercino non avrebbe mai realizzato veri e propri bozzetti o modelli, ma nemmeno cartoni preparatori per gli affreschi, preferendo un approccio diretto, meno vincolante nell’esecuzione, per conservare la libertà di cambiare, anche sulla scorta di dichiarazioni fatte dall’artista stesso a Don Antonio Ruffo.[7]
Se questo orientamento in linea generale può essere condivisibile, resto dubbioso sul fatto che Guercino per composizioni pubbliche molto complesse non predisponesse alcuno studio propedeutico, sia da mostrare ai committenti, che come strumento indispensabile di lavoro.
Un caso emblematico è il monumentale Seppellimento di santa Petronilla per la Basilica Vaticana. Come si poteva affrontare una tela di oltre sette metri di altezza e quattro di larghezza senza l’ausilio di alcun mezzo sussidiario, eludendo peraltro anche qualsiasi preventivo benestare al progetto – basato necessariamente sulla visione di modelli – da parte della esigentissima Congregazione della Reverenda Fabbrica di San Pietro?[8]
Per quanto riguarda l’annoso problema delle repliche, il riemergere di versioni caratterizzate dalla medesima qualità rispetto a quelle presunte ufficiali, ma con una conduzione più sciolta e meno accurata, definite da Mahon “bozzettoni”, aveva indotto il longevo studioso negli ultimi anni della sua carriera ad una revisione delle precedenti posizioni, considerando possibile la presenza di redazioni autografe della stessa composizione propedeutiche alle opere più finite.
Tale posizione critica è stata adottata da Turner, che ha pubblicato studi abbozzati di una parte di una composizione e versioni nello stesso formato dell’intera opera, adottando il termine “bozzettoni”.[9]
In una grande bottega del Seicento i livelli di produzione e immissione sul mercato di opere d’arte erano abbastanza complessi e diversificati, con prodotti in cui il grado di partecipazione del maestro era variabile, a seconda del committente e della destinazione. Lo testimonia chiaramente una lettera scritta il 28 aprile 1618 da Rubens a Sir Dudley Carleton, ove il pittore fiammingo fornisce un’ampia casistica di dipinti con il marchio di fabbrica del suo atelier, tra originali totalmente autografi, opere di allievi da lui completate, copie di sue invenzioni interamente ritoccate di propria mano.[10]
Cesare Malvasia parla di molte copie dipinte dagli allievi di Guido Reni e da lui ritoccate, ma che il maestro non voleva fossero spacciate per proprie: forse lo stesso avvenne nella bottega del Guercino, dato che nel “Libro dei Conti” non si fa riferimento a repliche.
La necessità di garantire un sostentamento al cospicuo gruppo di collaboratori stabilmente alle sue dipendenze, potrebbe aver indotto il Barbieri a consentire duplicati delle proprie invenzioni, magari intervenendo poi per i tocchi finali come nel caso del Reni. Guercino riguardo a tali problematiche si era molto risentito nel 1638 con Bartolomeo Gennari, lamentando in una lettera del 1638 che questi aveva copiato la sua pala di Finale spacciandola per originale: “Mi dispiace, oltre modo l’intendere che siano date copie per originali…si offende la mia reputazione”.[11]
Anche la pubblicazione del libro di Massimo Pulini, dedicato alla memoria di Mahon, è sostenuta dalla “Sir Denis Mahon Charitable Trust”.[12]
Pulini, pittore, scrittore, critico d’arte ed instancabile animatore culturale (riveste la carica di assessore alla cultura del comune di Rimini), è in effetti un tardo aggregato alla citata “brigata guercinesca” sviluppatasi attorno a Mahon. Ha curato numerosi studi sul pittore emiliano, tra cui la mostra Guercino, racconti di paese, tenuta a Cento nel 2001, e con Mahon e Vittorio Sgarbi la mostra Guercino. Poesia e sentimento nella pittura del ‘600, svoltasi a Milano e Roma nel 2003-2004, nel cui catalogo ha pubblicato tre preziosi saggi con innovative aperture critiche, proponendo una lettura del linguaggio di Guercino basata sulla “poetica degli affetti” e la retorica dei sentimenti.
Ha rintracciato peraltro opere perdute, tra cui la giovanile Fiera sul Reno vecchio a Cento nei depositi dei Musei Vaticani, oggi esposta in Pinacoteca, primo mercato contadino dell’arte italiana anteriore alla Fiera dell’Impruneta di Filippo Napoletano (1618), e recentemente l’Assunta del Duomo di Aversa, in corso di pubblicazione negli atti del convegno di Piacenza.
Il libro di Pulini ha l’apparenza di un romanzo storico autobiografico, riferito non all’autore ma all’artista, in quanto, pur essendo condotto in terza persona, è Guercino che parla, o meglio Pulini-Guercino. Ma è anche un libro di critica d’arte. Massimo Pulini si è infatti immedesimato nel pittore e ha cercato di ripercorrere i primi quarant’anni della sua fortunata carriera, facendosi interprete dei suoi pensieri, delle sue impressioni, delle sue paure e delle sue certezze nella prima fase di attività, quella che si esaurisce alla fine degli anni ’20.
Pulini mostra tacitamente di propendere per la prima stagione guercinesca, più vigorosa, spontanea e diretta. Effettivamente anche nella seconda metà del Seicento tale produzione continuva ad essere molto apprezzata, se nel 1660 il Principe Antonio Ruffo chiese all’artista una mezza figura da accoppiare ad un quadro di Rembrandt secondo i modi giovanili, che Guercino stesso definiva la “mia prima maniera gagliarda”.
Anche Abrahm Brueghel sosteneva che la sua fase creativa giovanile era molto stimata, tanto che nel 1663 Guercino scriveva a Ruffo: “mi spiace che mostrandosi ella bramosa di qualche quadro fatto di mia gioventù, non averne io in propria casa…”.
Pier Francesco Mola, che frequentò la bottega del Guercino in un periodo compreso tra il 1644 e il 1646, adottò come modello di riferimento tale fase, ma lo stesso fecero Giuseppe Maria Crespi, i Gandolfi e Giuseppe Cades. Malvasia ha creato il mito di Guercino prima caravaggesco, poi reniano, ma la critica tradizionalmente ha avuto una propensione verso la produzione giovanile, a partire da Matteo Marangoni autore delle prime aperture critiche novecentesche sul pittore.[13]
Il titolo del libro Mal’occhio trae spunto dallo strabismo del pittore, stigmatizzato nel soprannome “guercino”, per un’analisi psicologica e comportamentale, ipotizzando offese subite dal giovane nel carnevale centese, con l’aggiunta di un soprannome locale, ancor più impietoso.
Pulini definisce Guercino, “cresciuto come una pianta spontanea in una palude ferrarese”, rimarcando la sua natura di pittore autodidatta, “allievo di un dipinto anziché di un pittore”, in riferimento alla Sacra famiglia con san Francesco di Ludovico Carracci nella Chiesa dei cappuccini di Cento, che l’artista stesso chiamava “la sua cara cinna” o “carraccina”, cioè il seno da cui trarre nutrimento, equivocando sul cognome del maestro (Malvasia).[14]
Come ha evidenziato la critica, opere quali il San Carlo Borromeo in orazione della Collegiata di San Biagio a Cento (1613-14) o il Miracolo di san Carlo Borromeo della Chiesa Parrocchiale di Renazzo di Cento, sono un esplicito paradigma di tale insegnamento.
Nel libro Pulini descrive con toni romanzati l’incontro di Ludovico con Guercino, secondo Alessandro Brogi suo vero erede, ipotizzando l’intermediazione dell’arcivescovo Alessandro Ludovisi, poi papa Gregorio XV. Un incontro che effettivamente dovette esserci, suscitando una viva impressione nel maestro il quale descrisse il talentuoso giovane in una lettera del 1617 a don Ferrante Carli “gran disegnatore e felicissimo coloritore: è un mostro di natura e miracolo da far stupire chi vede le sue opere. Non dico nulla: ei fa rimaner stupidi i primi pittori”.[15]
Pulini si sofferma anche sulla scuola di disegno aperta a Cento dal giovane Guercino in casa Fabbri, sulla scorta delle affermazioni di Malvasia che lo diceva “maestro nell’imparare ad altri, insegnando ciò ch’egli non imparò mai da veruno, e con tanto amore, e cortesia faceva questo ufficio che più che da scolari, li trattava come figli”.
Lo studioso fornisce acute letture di alcune opere, come quando, a proposito della Sepoltura e Assunzione di S. Petronilla (1623), scrive che “Il colpo di teatro gli venne dopo aver fatto una decina di disegni, quando immaginò che, da dentro la tomba, qualcuno avrebbe aiutato la calata del corpo nella fossa. Di costui si sarebbero viste solo le mani: due gigantesche mani nodose che ricevevano la salma per accompagnarla entro la fossa”.
Effettivamente la critica si è interrogata sulla metamorfosi del Guercino, nel passaggio da un’espressività ruvida, passionale e fortemente emozionale, naturalista e proto-barocca, ad un sofisticato classicismo, che caratterizza la sua produzione dagli anni ’30 alla morte. Un cambiamento segnato nel 1629 dall’inizio della compilazione del Libro dei Conti a cura del fratello e collaboratore Paolo Antonio Barbieri, singolare figura di pittore-ragioniere, che accompagna la trasformazione della bottega di Guercino in una srl, nel passaggio ad una concezione aziendale, rigorosamente imprenditoriale, basata sulla codificazione di un tariffario preciso: 25 ducatoni per un testa, 50 per una mezza figura e 100 per una figura intera.
La dedica a Sir Denis Mahon è indicativa di un postulato, una sorta di assioma che si vuole discutere in termini critici e che costituisce il vero filo conduttore del libro: perché Guercino all’apice del successo compì tale improvvisa virata di rotta?
In apertura compaiono infatti le prime righe dell’introduzione di Mahon al suo fondamentale libro, Studies in Seicento Art and Theory, edito a Londra nel 1947, ove il grande studioso si interroga sul problema del cambiamento espressivo: “Lo stile del G. subì un sorprendente voltafaccia. Chi scrive ha cercato di scoprire perché questo avvenne, e si è imbattuto, durante la sua indagine, nei diversi aspetti riguardanti le teorie espresse nel Seicento sull’arte”.
Secondo Mahon l’incubazione del virus classicista sarebbe stata lenta, mediata da un “periodo di transizione”, tra il 1623 e il 1632, svolgendo progressivamente una maggiore chiarezza e semplificazione delle composizioni, una ricerca di ordine, una frontalità dell’immagine con abbandono di soluzioni in profondità. Dal 1645 prenderebbe avvio la cosiddetta “ultima fase” del Guercino, dopo la morte di Reni, sostanziata dalla sua aspirazione a divenire primo pittore di Bologna, qualificandosi come erede del grande maestro.
La nuova fase effettivamente è caratterizzata dalla scelta iconografica di mitologie arcadiche senza drammi, dalla tendenza allo sfumato, con passaggi cromatici delicati e una misurata pacatezza emotiva. Tuttavia in Guercino traspare sempre un’umanità e un sentimento che Reni non aveva.
Opere emblematiche della svolta, come è stato rilevato, sono l’Apparizione di Cristo alla Madonna della Pinacoteca Civica di Cento (1628-30) e soprattutto la spettacolare Morte di Didone della Galleria Spada (1629-31), vera messinscena da melodramma barocco all’insegna dell’equilibrio compositivo, in un pathos più teatrale che esistenziale.
La critica ha formulato varie ipotesi su questa palingenesi. Secondo Mahon, Salerno ed altri si tratterebbe di un adeguamento del Guercino alla cultura classicista romana propugnata da monsignor Giovan Battista Agucchi, segretario del papa, ed espressa al massimo grado da Domenichino. Tale mutazione viene quindi ricondotta sostanzialmente ad un progressivo conformarsi alle teorie dell’arte del Seicento, in un fenomeno di intellettualizzazione della produzione artistica come reazione agli eccessi naturalistici, quale accentuazione del legame tra arte e letteratura, a discapito della manualità, del mestiere e dell’ingegno. Un’idea di artista che acquista progressivamente quella dimensione speculativa, connotativa di maestri di quel secolo come Domenichino, pittore intellettuale, Pietro Testa o Nicolas Poussin, pittori filosofi.
Tale tesi fu rifiutata da Donald Posner nella recensione alla mostra bolognese del 1968, specificando che all’epoca Domenichino non aveva ancora pubblicato a Roma nulla di importante, tale da influenzare il centese.[16]
Secondo altri studiosi si tratterebbe invece di un adeguamento all’indirizzo dominante e poi di una strategia imprenditoriale, finalizzata ad accaparrare la committenza del Reni dopo la sua scomparsa nel 1642, quando Guercino si trasferì a Bologna.
La risposta di Pulini è diversa. Lo studioso riconduce infatti tale mutamento espressivo non a ragioni di carattere commerciale o squisitamente intellettuale, secondo un atteggiamento filologico, ma a motivazioni di ordine psicologico, legate al contesto storico contemporaneo e a vicende personali nella vita dell’artista: la terribile epidemia di peste del 1630 che toccò anche lo stato estense, la guerra dei trent’anni che ebbe riflessi per la successione al ducato di Mantova dopo la morte senza eredi di Vincenzo II Gonzaga (1627), il distacco di un committente ed amico al quale Guercino era legato da affinità culturali e spirituali come Alfonso III d’Este. Quest’ultimo rinunciò al regno abdicando a favore del figlio Francesco I ed entrò in un convento cappuccino, ove assunse il nome di Frà Giovan Battista da Modena. In appendice al volume è pubblicata una corrispondenza fittizia tra il frate-principe e Guercino, completamente inventata, ma credibile e plausibile, a supporto delle ipotesi dell’autore del libro.[17]
I fatti esteriori tuttavia non possono chiarire tutto, essi non possono dirci nulla sulla sfera emotiva individuale. A queste motivazioni Pulini aggiunge infatti anche una disillusione amorosa, creando la figura di Lavinia, figlia di Antonio Coma, personaggio effettivamente esistito che fu maestro di Cappella della comunità di Cento: un amore ideale che attinge alla dimensione privata e intima nella vita del pittore, aggiungendo una componente affettiva che non ci è dato conoscere. Già in un saggio del 2002 Pulini aveva ipotizzato, per spiegare il cambiamento, “oltre alle suggestioni teoriche ed estetiche”, una delusione amorosa, prendendo spunto da un passo della biografia di Cesare Malvasia: “pose la remora perpetua al suo negoziato di matrimonio, del quale si era trattato sino dall’anno 1623, e si era stato quasi per concludere; ma egli c’avea nel pensiero solamente idee di Paradiso, non curò cose terrene, e risolse di vivere così, concludendo non volersi ammogliare”.[18]
A li là di tali congetture, tutte plausibili sebbene non dimostrabili, effettivamente perché Guercino, che
non studiò mai l’antico e che non manifestò in alcun modo preoccupazioni teoriche ed intellettualistiche, dovrebbe aver subito l’influsso delle teorie di Agucchi, se nelle sue opere romane e in quelle degli anni successivi non si ravvisa alcuna traccia di tale condizionamento?
Peraltro a Roma l’indirizzo dominante, dopo il tramonto del caravaggismo, volgeva verso un nuovo linguaggio, il Barocco, mentre la tendenza classicista, costituente uno dei vari filoni della variegata scuola romana, si sarebbe affermato come preminente soltanto nell’ultimo quarto del secolo attraverso le teorizzazioni di Giovan Pietro Bellori e il magistero di Carlo Maratti.
Guercino, che si stabilisce nella città papale lo stesso anno dell’arrivo dei Baccanali Ludovisi di Tiziano, è neoveneziano e barocco dieci anni prima dei pittori romani. Sembra quasi che abbia visto Rubens, alla luce di opere manifestamente innovative in “stile concitato” come la Vestizione di San Guglielmo e Sansone e i Filistei del Metropolitan Museum, ritrovato nel 1981 da Mahon. Guercino è in anticipo su tutti, se già nel 1618 compie il viaggio a Venezia, mentre nel 1626 torna a Parma per rivedere Correggio, prima degli affreschi di Piacenza. A conferma della sua fama nel 1629 Velázquez visita il suo studio a Cento, ricavandone sicuramente un’impressione per la propria svolta neoveneta dopo il viaggio in Italia.
Personalmente, esclusi sodalizi come quelli Agucchi-Domenichino, Bellori-Maratti o Mengs-Winckelmann, basati su un’estetica che alla prassi sostituisce la riflessione teorica, non ho alcuna certezza che fossero gli intellettuali e la teoria a guidare la mano degli artisti, mentre credo che in gran parte dei casi siano stati invece gli artisti stessi, per la loro capacità intuitiva di interpretare e precorrere il cambiamento dei tempi, ad imporre attraverso la loro creatività un corso diverso alla storia dell’arte.
Questo ritengo abbia fatto Guercino, quando alla fine degli anni ’20 avviò la sua svolta espressiva e stilistica, fino a divenire più classico e sofisticato di Reni, ancora una volta in anticipo rispetto alle tendenze della seconda metà del secolo, ponendosi in alcune opere, come La Sibilla Cumana ex Mahon, La Sibilla Samia o il Re David profeta della collezione Spencer (Londra, National Gallery), come un precursore del proto-neoclassicismo di Pompeo Batoni.
di Francesco PETRUCCI Roma febbraio 2108
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