di Mario URSINO
La furbizia di Picasso
Molto convincente mi è apparsa la notizia che la celebre opera di Picasso, Guernica, 1937, Madrid, Museo Reina Sofia, non sia Guernica. Fiumi di inchiostro sono stati versati sin da quando il monumentale dipinto fu presentato all’Esposizione Universale di Parigi [fig. 1] il 25 maggio di quell’anno; da allora quel lavoro dell’artista spagnolo (peraltro già celebre) era l’evidente denuncia dell’orrore della guerra, e in particolare del bombardamento che distrusse la cittadina basca da parte dell’aviazione tedesca durante la guerra civile in Spagna (alla famosa battuta di Picasso all’ufficiale tedesco che chiedeva, in occasione della mostra, all’artista se fosse stato lui a dipingere Guernica, l’astuto Picasso rispondeva: “No, l’avete fatta voi”; anche questa potrebbe essere una vera e propria invenzione del pittore, a mio parere). Quindi ora a mettere in discussione tutta la retorica della denuncia della guerra in ogni esegesi simbolica di quel quadro (che è comunque un capolavoro del “cubismo sintetico”), è il singolare e acuto studio da parte di uno storico dell’arte spagnolo, José Maria Juarranz de la Fuente, nel suo libro Guernica. La obra maestra desconocida [fig. 2], edito nell’aprile di quest’anno.
L’autore sostiene che l’opera fu commissionata a Picasso dal governo della Seconda Repubblica Spagnola per l’Esposizione Universale parigina, ben prima del bombardamento di Guernica del 26 aprile del 1937; inoltre, quando Picasso aveva iniziato a lavorare alla grande tela, non pensava affatto alla guerra civile spagnola; tra l’altro ci informa Juarranz che nei mesi precedenti Picasso era fuori Parigi con la sua amante Marie-Thérese Valter con la loro figlia Maya, ed era tormentato dal divorzio in corso con la prima moglie Olga Koklova. Ciò che andava studiando e dipingendo, secondo lo scrittore spagnolo, non era altro che una potente e simbolica opera autobiografica di quello stato d’animo. Del resto Picasso ha sempre affermato che “l’opera che ciascuno fa è la sua autobiografia”.
Ma allora come nacque l’idea di chiamare la grande tela Guernica? Juarranz ha scritto che durante una visita di un gruppo di amici, tra cui il poeta Paul Éluard, nell’atelier di Picasso a Parigi, in Rue des Grands Augustin [fig. 3], lo scrittore e poeta, Juan Larrea [1895-1980], riferisce nel suo libro Guernica Picasso, 1947, che, vedendo gli studi preparatori e l’opera in corso uno di loro esclamò: “Guernica!”. L’astuto Picasso colse al volo codesta intuizione e la utilizzò da “opportunista e grande venditore di se stesso”, ha scritto de la Fuente. Fino ad allora, Picasso non si era mai interessato di politica, ma questa fu l’occasione pienamente riuscita per aumentare la sua notorietà attraverso l’impegno politico quale grande testimone artistico degli orrori della guerra. Questa, a mio avviso, è la tesi del libro.
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Nell’analisi simbolica e iconografica, Juarranz ci dice sostanzialmente che tre furono gli episodi autobiografici narrati nella tela (oltre alla testa del toro che rappresenterebbe il pittore stesso, e quindi non avrebbe alcun riferimento al bombardamento di Guernica, n.d.a.): il primo è il ricordo del terremoto di Malaga del 1884, quando lui bambino di tre anni fu portato velocemente fuori dalla casa dalla madre terrorizzata, che nel quadro sarebbe rappresentata sia dal braccio della donna con la lampada, sia da quella figura femminile che poggia il ginocchio sul pavimento; il secondo episodio sarebbe rappresentato dalla figura di donna (Marie-Thérese), piangente, disperata che sorregge la bambina malata (Maya); il
terzo episodio riguarderebbe la figura di un personaggio disteso a terra morto, sempre visto come un milite caduto durante la guerra, secondo la vulgata, ma che in realtà si riferisce al drammatico ricordo del suicidio del suo giovane amico pittore Carlos Casagemas (1880-1901) che si era tolto la vita in un locale pubblico, al Cafè de l’Hippodrome a Montmatre, davanti agli amici, per un amore non corrisposto. Picasso, molto scosso, dipinse tre ritratti dell’amico scomparso [La morte di Carlos Casagemas, 1901, Parigi, Museo Picasso, e a Barcellona, Museu Picasso, figg. 4-5] e da quel dolore si manifestò la malinconia che caratterizzò la sua pittura del “periodo blu”: “quando mi resi conto che Casagemas era morto incominciai a dipingere in blu”
Tre episodi reali, dunque, che hanno turbato molto la vita di Picasso e che riaffiorarono durante due mesi di lavoro nel 1937, secondo lo studio del Juarranz, ed è quindi lecito considerarli dei validi motivi per aver ispirato quella drammatica opera.
Se poi andiamo ad individuare le fonti iconografiche delle varie figure presenti nella tela, Juarranz fa opportunamente riferimento alle opere del Goya [La fucilazione del 3 maggio 1808, 1814 Madrid, Prado, part. fig. 6] e di El Greco [Apertura del settimo sigillo, 1608-1614, New York, Metropolitan Museum of Art, part. fig. 7]. Giusto, ma aggiungerei anche di altri artisti, da Raffaello [L’Incendio di Borgo, 1514, Musei Vaticani, part. fig. 8] a Guido Reni [La strage degli innocenti, 1611, part. Bologna, Pinacoteca Nazionale, fig. 9], e persino a Manet [Torero morto, 1864, Washington, National Gallery of Art, fig. 10]; e al grande affresco tardo-gotico siciliano di autore anonimo, Trionfo della morte a Palazzo Abatellis a Palermo [fig. 11],
che, come già aveva notato Guttuso (pare da una lettera a lui indirizzata da Picasso su quell’affresco), l’artista spagnolo potrebbe averlo visto nel 1917 durante il primo viaggio in Italia, o comunque in qualche riproduzione (secondo Carandente, 1981): quel cavallo cavalcato dalla Morte è una possibile fonte per la testa di cavallo in Guernica [fig. 12].
In definitiva, il Trionfo della Morte rappresenta una sorta di Apocalisse, un dramma quindi universale. L’opera di Picasso invece è la raffigurazione di un dramma individuale. Una questione, perciò, di un condividibile punto di vista.
Mario URSINO Roma maggio 2018