di Massimo FRANCUCCI
Guido Reni, i Barberini e i Corsini
Storia e fortuna di un capolavoro
mostra a cura di Stefano Pierguidi (Gallerie N azionali di Arte Antica – Galleria Corsini – fino al 17 febbraio)
La mostra che si è aperta un paio di settimane fa nella splendida cornice di Palazzo Corsini alla Lungara, a cura di Stefano Pierguidi, ruota attorno al capolavoro realizzato da Guido Reni in occasione della canonizzazione di Sant’Andrea Corsini al tempo di papa Urbano VIII e alla copia che ne ha tratto più di un secolo dopo Agostino Masucci, quando se ne ordinò la trasposizione a mosaico per mano di Pietro Paolo Cristofari negli anni di Clemente XII e della cappella di famiglia in San Giovanni in Laterano.
La tela venne realizzata dal bolognese attorno al 1629, su probabile impulso di Ottavio Corsini, per essere donata al pontefice, quale pegno per aver portato agli onori degli altari il beato di famiglia, ed infatti risulta poco dopo negli inventari Barberini. Solo in seguito ad alcuni matrimoni tra le due famiglie l’opera, tornata in possesso dei Corsini ha di recente lasciato il palazzo sul Lungarno con destinazione Uffizi. Si tratta di un limpido esempio del più abbacinante classicismo reniano in cui l’idealizzata figura del santo subisce i riverberi dell’apparizione paradisiaca che in alto è presagio imminente di morte e beatitudine, mentre due putti cui Guido ha donato eccezionale bellezza giocano con i simboli della dignità vescovile.
Come di consueto il bolognese conforma con grazia e perfezione i panneggi alle figure, descrivendoli analiticamente nei diversi tessuti e nelle alterne pieghe qua morbide, là metalliche. Il tutto viene puntualmente trasposto nella mirabile copia di Masucci, lievemente semplificata anche nel cromatismo per rendere più agevole il compito del mosaicista, comunque svolto con maestria come si può constatare visitando la cappella progettata da Alessandro Galilei al Laterano, ove l’opera si conserva.
Data la sua inamovibilità, alle due tele già citate si è giustamente pensato di accostare l’altro omaggio di Reni al santo toscano, un dipinto che mostra la rarefazione delle forme e la tendenza al ‘non finito’ tipica dell’ultima maturità dell’artista e che, un tempo nella sagrestia di Santa Maria di Galliera, è oggi alla Pinacoteca Nazionale di Bologna. Il pittore ha qui isolato maggiormente la figura di sant’Andrea conferendole un sentimento se possibile ancora più ascetico, indugiando però con attente e rapide pennellate sugli elementi di contorno, come la tiara, il pastorale e la spilla che chiude con un sigillo prezioso la splendida veste. Disposti su di un’unica parete, questi tre dipinti formano un insieme di grande impatto, che già rende ineludibile la visita alla mostra, ma nella stessa sala sono inoltre esposte altre opere che chiariscono il ruolo importante ricoperto da Agostino Masucci per i Corsini e ne certificano le capacità nel campo del ritratto. Quello doppio col pontefice e il cardinal nipote Neri affiancato dalla sua trasposizione a mosaico, anche questa di Cristofari, sta da un lato, mentre sulla parete opposta, di particolare impatto, stanno l’effigie del pontefice, in collezione privata, ed il capolavoro della ritrattistica di Masucci: Il cardinale Neri Corsini insieme a padre Evora e ad altri prelati, della Biblioteca Nazionale di Roma. Qui l’artista riesce a fondere con singolare eleganza la tipica messa in posa della ritrattistica settecentesca, che aveva fatto tesoro dei modelli precedenti, con ciò che si richiedeva alla pittura di storia, tanto da permettere di ricostruire con precisione l’evento immortalato, la perorazione della concessione della porpora al patriarca di Lisbona, secondo i desiderata di re Giovanni V di Portogallo, il cui ritratto campeggia con quello del pontefice alle spalle dei prelati. Il bel dipinto, già riferito a Pannini, è stato ricondotto alla mano di Masucci da Vittorio Casale, un parere mai messo in discussione e confermato dal confronto col Clemente XII che gli sta accanto, firmato e datato. Nella collocazione abituale della cosiddetta sala delle Canonizzazioni della Galleria Corsini, è la Santa Caterina de’ Ricci realizzata da Masucci in occasione della beatificazione della domenicana avvenuta nel 1732, mentre la canonizzazione non si sarebbe poi fatta attendere molto (papa Lambertini, 1746).
Arazzi e mosaici sono invece affastellati nella saletta contigua, sacrificati in spazi un po’ ristretti, ma importanti esempi dell’immensa fortuna goduta da Reni in tutto il Settecento, – con l’eccezione seicentesca della copia musiva del ritratto del cardinale Ubaldini di Giovanni Battista Calandra – quando le più fortunate invenzioni del maestro vennero spesso riprodotte su supporti costosi con le tecniche più raffinate.
Tra questi svetta per la sorprendente capacità di imitare la pittura in maniera illusiva la Sibilla Persica firmata e datata da Mattia Moretti, copia del dipinto oggi a Vienna che però non è di Reni, come allora creduto, ma del suo allievo più fedele Giovanni Andrea Sirani. A testimonianza della capacità del maestro bolognese di utilizzare supporti diversi e preziosi – si sa che Reni ha privilegiato la seta per le pale d’altare più importanti sia per gli effetti cromatici sia per la sua ‘durabilità’ – sono poi esposti nella stessa sede il ramino con la Vergine addolorata ed il celebre affresco del Putto ‘Barberini’, legato a un noto aneddoto riferito da Bernini, che aveva con i Barberini un rapporto speciale. Sarebbe stato realizzato da Reni per mostrare la sua affidabilità con l’affresco sebbene non praticasse più da tempo quella tecnica a lui mai gradita perché faticosa. Sembra altresì un po’ difficile paragonare i rapporti di questi artisti con le famiglie papali del tempo, poiché se è vero che grazie ai Corsini Masucci ha raggiunto una posizione di grande prestigio nell’ambiente artistico europeo del Settecento, lo stesso non vale per Reni, già uno dei pittori più ricercati al momento dell’elezione di Urbano VIII, tanto da potersi permettersi la fuga da Roma lasciando incompiuta una decorazione commissionatagli dagli stessi Barberini a San Pietro. Gli screzi non erano col pontefice, bensì con qualche alto porporato, il cardinal Pamphilij in particolare, tant’è che Guido affermava: “non voglio che nessuno entri nel mio ponte, sia chi si voglia, né anco li cardinali”.
Pare che il pontefice addirittura perdonasse tutto all’artista, anche la fuga, poiché sosteneva che
“Pictoribus, atque Poesis, omnia licent: bisogna compatirli poi questi uomini grandi; perché quell’eccesso di spirito che tali li rende, è lo stesso che a viva forza li porta a queste bizzarrie”.
La rottura era stata poi alimentata dall’invidia di Giovanni Giacomo Sementi che, una volta allievo fedele, facendosi forte dell’appoggio del cardinale Maurizio di Savoia si era dato a diffamare Reni cercando di soffiargli l’incarico, senza peraltro riuscirci. Il presunto confronto che si sarebbe svolto tra i due pittori incaricati in tempi diversi di dipingere in Santa Maria Maggiore è oggi più agevole da fare in quanto sono state rese note entrambe le pale di Sementi ricordate da Baglione nella Basilica Liberiana cfr. (M. Francucci, Giovanni Giacomo Sementi tra Bologna e Roma, in “Paragone”, 787-789, 2015, pp. 21-35, in part. figg. 34, 35).
Il ruolo giocato dai Barberini nella carriera artistica di Reni non può dunque essere paragonato a quello dei Corsini per Masucci, anche se i due artisti possono essere accostati per la grande considerazione dei propri mezzi artistici, che si esplicitava nelle richieste più bizzarre e pretenziose, sia dal punto di vista economico che di trattamento. L’importanza poi della trasposizione a mosaico delle opere pittoriche, dato il costo spropositato, è argomento sempre di grande interesse e in maniera peculiare in ambito romano dove nel corso del Settecento si mise mano alla rifacimento delle tele in San Pietro, che mal sopportavano l’umidità tipica del luogo, nella più duratura tecnica musiva.
La mostra è accompagnata da un catalogo forse un po’ ipertrofico, che si propone di trattare i vari problemi esaminati dalla mostra in maniera estensiva, analizzando la carriera di Guido Reni fin dal momento del suo ingresso tra gli Incamminati dei Carracci, allorché Annibale, ancora a Bologna, avrebbe esclamato che “costui sapea troppo”, rimbrottando il cugino Ludovico di insegnar tanto a un giovane di tale talento. Sarebbero seguiti gli anni romani, i trionfi e le prime fughe a Bologna dove per conto del Borghese era il cardinal legato Maffeo Barberini a mediare perché il pittore tornasse ai suoi incarichi nell’Urbe alla corte dei Borghese, e con particolare enfasi si analizza la fortuna del pittore presso le collezioni dei cardinali Antonio e Francesco Barberini. Molto interessante è la ricostruzione dell’attività dal respiro europeo del Masucci e infine, come detto, va sottolineata l’importanza ricoperta dalla preziosità del supporto e della raffinatezza della tecnica nel secolo dei lumi.
Ne risulta insomma un’esperienza gradevole, una mostra volutamente non esaustiva, che si dipana in più campi di indagine lasciandoli però aperti ad ulteriori approfondimenti. Un’occasione comunque per tornare a godere della collezione permanente, formatasi nel segno di Neri Maria Corsini e nel gusto di Giovanni Gaetano Bottari.
Massimo FRANCUCCI Roma dicembre 2018