di Michele FRAZZI
Intervengo sulle vicende relative al Reni paesaggista, prendendo occasione dalla recente presentazione fatta alla Galleria Borghese del dipinto Danza campestre (1601-1602, olio su tela 81 x 99 cm) (Fig.1), riemerso dopo anni di oblio, ed acquistato sul mercato per una somma cospicua, circa 800.000 euro, secondo quanto si apprende dai quotidiani (1).
L’opera una volta faceva parte della collezione del Cardinale Scipione Borghese, a testimoniarlo ci sono l’inventario del 1620: n. 69- Un quadro in tela d’un Ballo di diverse contadino, e contadini alla lombarda cornice negra con oro alto 3 1/4 e largo 4 Albano, la descrizione fatta dal Manilli della “Villa Borghese fuori Porta Pinciana” nel 1650: l’altro di un Ballo di villa, è di Guido Reni, e l’inventario del 1693: f 205 Sopra al detto quadro in tela, con un Paese con molte figurine con un ballo in campagna alto pa.mi 3 e mezzo Cornice dorata del No ( sic) di Guido Reni (2).
Alla attribuzione al Reni, il precedente proprietario Patrick Matthiesen è giunto dopo anni di paziente lavoro, ed è stata confermata dai più grandi specialisti del pittore da lui interpellati, Keith Christansen, Aidan Weston-Lewis, Erich Schleier, Daniele Benati, Nicholas Turner, Richard Spear, che hanno giudicato l’opera come appartenente alla fase giovanile del pittore attorno al 1601-1602 (3), appunto come dice la scheda della Galleria Borghese. Questa datazione precoce, dovuta a ragioni stilistiche, portava con sè un primo quesito da risolvere circa la provenienza, infatti i rapporti tra i Borghese ed il Reni sono documentati solo a partire dal 1606. A questa domanda hanno cercato di dare una risposte alcune studiose: Elena Fumagalli e Catherine Johnston (4) proponendo che l’opera possa essere stata il frutto di una commissione Aldobrandini (il Cardinal Pietro fu tra i primi promotori e committenti della pittura di paesaggio a Roma nel ‘600) da cui il Borghese acquistò successivamente l’opera, e per la verità sembra abbastanza ragionevole ritenere che questo quadro sia frutto di una commissione, data la rarità del soggetto per il Reni; un’ulteriore alternativa possibile è che sia stata acquisita dal Borghese direttamente dal pittore.
Due anni dopo la pubblicazione di Matthiesen (2017), Massimo Pulini con un articolo su Aboutartonline (cfr. https://www.aboutartonline.com/guido-reni-risarcito-inediti-novita-attributive-e-una-conferma-nel-saggio-di-massimo-pulini/ )
interveniva sull’argomento ed accostava questa opera, giudicata anche da lui del Reni e datata per ragioni stilistiche attorno al 1601, ad un altro dipinto, Il Gioco di amorini ( cm. 77 x 60; olio su tela) ( Fig.2) anche questo da lui datato al 1601, e precedentemente pubblicato da Francesco Gatta (5) (2018) che lo attribuiva al pittore bolognese facendo riferimento ad un inventario Farnese del 1644.
Occorre aggiungere che il Gioco di amorini compare poi ancora nel successivo inventario del Palazzo Farnese di Roma del 1653 : 225- Un quadro in tela con cornice tutta dorata la p.a coperta con prospettiva de paesi, et amorini parte in terra e parte in una cocchiglia che fanno diversi giochi, e nella 2.a coperta una dama chiamata la Serlupi con collarone grande di velo a frappa con pennacchino in testa ventaglio in mano, la coperta di Guido Reno; ancora a Roma nel 1662: 13-Un quadro in tela con paese, et amorini, parte in terra e parte in una cucchiglia che fanno diversi giochi, mano di Guido Reno segnato n.99;
e quindi al Palazzo del Giardino di Parma nel 1680:
115- Un quadro alto braccia uno, oncie cinque,largo braccia uno, oncie una. Una conchiglia in acqua con quattro amorini, uno dei quali scoca dall’arco una frecia e due altri che stanno alla riva, attaccati ad una corda, che conduce alla conchiglia a due altri che stanno alla riva, attaccati ad una corda, che conduce alla conchiglia, un’ altro che orina sopra il capo di un putino vicino all’acqua due altri putini avanti uno a sedere, e l’altro in piedi, una donna et un satiro fra li arberi, et quattro altri putini in aere, di Guido Reno n.13,
e poi ancora nel 1708, con una descrizione che omettiamo perchè praticamente identica a quella del 1680; le misure tradotte in cm. sono 77,2×59,1, del tutto identiche a quelle reali del dipinto, e del resto anche la descrizione non permette dubbi sulla identificazione, inoltre gli inventari lo attribuiscono costantemente al Reni (6).
Pulini nel suo articolo mette in connessione le due opere del pittore giudicandole appartenenti allo stesso momento artistico, una intuizione questa che ha tutta l’aria di potersi rivelare corretta. Infatti volevo portare alla attenzione della critica il fatto che nella collezione Farnese oltre al Gioco di Amorini esistevano altri due quadri di paesaggio attribuiti al Reni, ed uno dei due rappresentava proprio una “danza campestre”, e cioè lo stesso soggetto che vediamo raffigurato nel dipinto della Borghese.
I due quadri sono anch’essi citati nell’inventario del 1653, la descrizione del primo in ordine cronologico così recitava: 277-Un quadro in tela dorata con prospettiva a paesi, e boscaglie con malandrini, mano di Guido Reno (7); di questo dipinto si persero poi le tracce dato che non venne più citato in nessuno degli inventari successivi, e quindi è disperso. Mentre la descrizione del secondo era: 565- Un altro quadro cornice dorata in tela un poco sfondato prospettiva de paesi con balli de villani mano di Guido Reno; questo secondo quadro a differenza del primo viene citato negli inventari posteriori, a Roma nel 1662: 42-Un quadro in tela con prospettiva di paesi con balli di villani di mano di Guido Reni segnato n.103; ed è ancora citato nell’ inventario del 1708 a Parma: 273- Quadro senza cornice alto br.a uno, e mezz’oncia, largo br.a uno, onc.e sei. Paese con casa s.a d’una collina, et una festa da ballo di villani, e villane al piano. di Guido Reni, o Albani n.103 ( misure tradotte in cm.56,8×81,1) (8 ).
Questa opera successivamente non andò dispersa ma fu trasferita con il resto della collezione a Napoli, dove è tuttora conservata nei depositi del Museo di Capodimonte sotto la descrizione di Festa campestre, ed è attribuita ad un Anonimo pittore emiliano della fine del secolo XVI°, olio su tela, (Q 1510), e misura cm. 59X85. Nell’impossibilità di ricondurlo alla mano di un paesaggista conosciuto il catalogatore ha probabilmente optato per un Anonimo emiliano, ma sia la datazione proposta, paragonabile a quella delle altre opere del Reni già emerse, che la descrizione della scena, dove vi è una casa posta sopra una collina e la danza dei contadini che si svolge nel piano sottostante, del tutto simile a quanto raffigurato nel dipinto Borghese, fanno ben sperare circa la sua paternità.
A conti fatti dunque, secondo le testimonianze inventariali, Guido Reni eseguì quattro dipinti con scene di paesaggio, di cui la maggioranza, e cioè tre, furono di proprietà del Cardinale Odoardo Farnese. Questo fatto non può essere attibuito ad un caso, dato che il cardinale ed il suo ambiente culturale furono il principale motore di sviluppo della pittura di paesaggio nella Roma di primo seicento, e i protagonisti principali di questo progresso vanno certamente individuati nei Carracci e nella loro Scuola.
Fu infatti il Farnese a promuovere il trasferimento a Roma di Annibale nel 1595 e qualche anno dopo di Agostino, per le decorazioni a fresco della volta della Galleria Farnese e del Camerino con soggetti e gusto interamente classsico. Nel 1600 Agostino poi lasciò Roma per dissapori col fratello e nel luglio dello stesso anno si trasferì a Parma, sempre al servizio di un Farnese, il duca Ranuccio I, per attendere agli affreschi del Palazzo del Giardino che eseguì sempre con soggetti classici; questa fu purtroppo una commissione che rimase incompleta a causa della sua morte avvenuta nel febbraio del 1602 (9). Annibale ovviamente attese alle sue esequie, ed al suo ritorno a Roma portò con sè i migliori assistenti del fratello, Giovanni Lanfranco e Sisto Badalocchio.
Nel frattempo, nel 1601, Guido Reni e Francesco Albani, ormai artisti indipendenti arrivarono nell’Urbe, probabilmente accompagnati da Giovan Battista Viola, che sarebbe diventato uno specialista in paesaggi, e qualche mese più tardi li seguì anche il Domenichino; tutti questi pittori andarono a vivere presso il convento di Santa Prassede, il cui titolare era il Cardinale Paolo Emilio Sfrondato (10).
Una prima notazione interessante è che l’Albani, che accompagnò l’amico Reni nel suo primo soggiorno romano, dovette probabilmente conoscere il Gioco di Amorini, dato che se ne ricorderà successivamente, in un dipinto del 1617 circa, commissionato dal Cardinal Borghese: (Fig.3) Venere nella forgia di Vulcano ( Olio su tela diam.154 cm.) (11), tuttora conservato nel Museo di villa Borghese.
Infatti se osserviamo attentamente sulla destra vediamo ricomparire pressappoco la stessa scena del gruppo di quattro putti che sono sistemati sulla conchiglia del quadro Farnese (Fig.4), il primo a sinistra seduto e quello che scocca la freccia sono davvero molto somiglianti nella postura.
A conti fatti la lista dei pittori che abbiamo appena elencato comprende praticamente tutti gli artisti che maggiormente contribuirono al rinnovamento del gusto per il paesaggio all’inizio del ‘600.
Anche nei dipinti su tela eseguiti da Annibale Carracci durante il soggiorno romano, l’attenzione al dato naturale diventa sempre più frequente col passare del tempo, così come di pari passo diventa sempre più crescente la sua tensione verso il classicismo, evidentemente stimolata dagli esempi presenti nell’Urbe, ed in particolare soprattutto da quelli della ricchissima raccolta di statue antiche di proprietà Farnese presenti nel palazzo.
Tutto questo porterà alla compiuta elaborazione di una nuova idea del genere paesaggistico, intrisa di una evidente intonazione classica (12). Anche negli affreschi delle pareti laterali della Galleria, per lo più eseguiti materialmente dagli allievi, questa attenzione alla natura incomincia a farsi sempre più palese. La successiva decorazione ad affresco del palazzetto Farnese, realizzata principalmente dal Domenichino, così come pure le opere su tela che saranno conservate al suo interno costituiranno il definitivo suggello di questo rinnovato gusto per gli scenari naturali (13).
Non possiamo pensare che il committente di queste opere, il Cardinale Odoardo, non fosse partecipe di questa tendenza estetica, anzi proprio a causa del suo ruolo deve esserne stato un promotore; viene dunque da chiedersi quali siano state le motivazioni che lo spinsero verso questo tipo di interesse.
E queste ragioni furono senza dubbio piuttosto profonde. In primo luogo furono le sue passioni personali ad attirarlo verso questo esito, infatti Odoardo teneva nel giardino una raccolta di animali esotici e soprattutto una ampia collezione di piante rare, ed in questo senso il suo collezionismo aveva molto in comune con lo spirito scientifico del naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi, con il quale era in rapporti, e che era in rapporti pure con Agostino Carracci che lo ritrasse ( Fig.5) (14).
Per capire quanto fosse profonda e specialistica la sua passione in questo campo, e quanto fosse esperto, dobbiamo tenere in considerazione che il Cardinale possedeva il primo giardino botanico privato d’Europa, situato agli Orti Farnesiani, e che il Farnese aveva al suo servizio un esperto fitologo, Tobia Aldini, che era anche il sovraintendente della sua raccolta (14).
L’Aldini nel 1625 pubblicò un trattato, ovviamente dedicato al Cardinale (v. Enciclopedia Treccani ad vocem), dove faceva una accurata descrizione delle piante più rare contenute in quella collezione:
Exactissima descriptio rararum quarundam plantarum quae continentur Romae in hortu Farnesiano ( Fig.6). Addirittura un tipo di acacia, introdotta in Italia attorno al 1611 che fiorì per la prima volta proprio negli Orti prese in nome dal Farnese: Acacia Farnesiana ( Fig.7).
A conti fatti dunque, in casa Farnese esisteva una delle più importanti raccolte botaniche d’Europa, ed anche una delle più importanti raccolte di statuaria classica d’Europa;di quest’ultima collezione, una parte venne messa, per volere del Cardinale, a corredo e completamento della Galleria affrescata dal Carracci e l’altra a decorare gli ambienti del Palazzetto (15).
Il bellissimo dipinto di Agostino Carracci: il triplo ritratto Arrigo Peloso, Pietro Matto e Amon Nano (Fig.8), che non a caso era conservato nel Palazzetto Farnese, e che ritraeva tre personaggi della sua corte, è la più valida illustrazione dello spirito di osservazione quasi “scientifico” del suo committente.
Il Cardinal Farnese infatti raccoglieva le sue mirabilia con un senso estetico da Wunderkammer; il fatto che Arrigo peloso sarà poi anche raffigurato in un trattato dell‘Aldrovandi non fa che confermare ulteriormente ciò che abbiamo appena illustrato (16). Anche gli animali esotici che accompagnano i tre personaggi, le scimmie e il pappagallo, che pure dovettero far parte della sua collezione, testimoniano questo clima culturale; tra l’altro il pappagallo si ritrova ancora nel dipinto di Annibale, sempre conservato nel medesimo Museo che ritrae Rinaldo ed Armida (Fig 9) in un bellissimo giardino floreale;
ma se notiamo bene a sinistra è dipinta una architettura simile a quella del primo piano del retro di palazzo Farnese ( Fig.10), dove erano situati i giardini: forse Annibale nel realizzare il dipinto prese spunto proprio da uno scorcio del Palazzo, lo stesso punto di vista ed ambientazione col Palazzo sullo sfondo verrà utilizzato poi anche dal Domenichino per realizzare lo stesso soggetto(Fig. 11).
Un secondo motivo, altrettanto valido, per spiegare il particolare interesse del Cardinale, deriva dal tipo di cultura figurativa a cui era legata tradizionalmente la famiglia Farnese, che vantava un rapporto privilegiato con la pittura di paesaggio dei Paesi Bassi, almeno sin dai tempi del duca Ottavio e di Alessandro, il padre di Odoardo, che delle Fiandre fu il governatore. Nella raccolta Farnese quindi troviamo una ampia selezione di paesaggi eseguiti dalle mani di Paul Bril, Jan Soens, Joachim Patinir (17), Herri met de Bles e Pieter Bruegel, alla cui mano era stata erroneamente attribuita dagli inventari questa Festa di paese con ballo di contadini (Fig.12), cioè lo stesso soggetto che ritroviamo nel ballo Borghese e Farnese.
Fondamentale a questo riguardo è lo studio di Bert W. Meijer (18) che indaga e mette bene in luce i rapporti culturali che legavano la famiglia Farnese con la capitale belga. Di particolare rilevanza poi fu l’attività del pittore Jan Soens (‘s-Hertogenbosch, 1547 – Parma, 1611), specializzato nella pittura di paesaggio, lui ed il Bril (Anversa 1554 – Roma 1626) furono i più abili pittori fiamminghi di questo genere attivi in Italia sul finire del ‘500. Soens, di cui Meijer stila un catalogo delle opere (19), lavorò quasi inninterrottamente dal 1575 al 1606 per i Farnese, stipendiato come pittore di corte, e dunque la sua attività fu decisiva per il circolo Farnese e per l’orientamento del gusto della relativa collezione.
Dobbiamo infine tenere conto che nella raccolta del Cardinale figurano due delle più precoci pitture di paesaggio realizzate da Annibale, la Visione di Sant’ Eustachio ( olio su tela, 86×113 cm., Museo di Capodimonte) e il Paesaggio fluviale con castello e ponte (olio su tela, 80×143 cm. ) della Gemaldegalerie di Berlino, insomma ci sono delle valide ragioni logiche a supportare il fatto che il rinnovato gusto per il paesaggio di intonazione classica molto probabilmente dovette nascere in casa del Cardinal Farnese. Per quanto riguarda i rapporti tra il Cardinal Pietro Aldobrandini ed Annibale Carracci e la sua Scuola, questi iniziarono al momento della presentazione degli affreschi della volta della galleria Farnese, il cui apparato iconografico è volto a celebrare in maniera allegorica, attraverso il Trionfo di Bacco ed Arianna ( Fig.13), il matrimonio di Ranuccio Farnese con Margherita Aldobrandini.
In quella circostanza, alla fine di maggio del 1601, l’Aldrobandini acquistò un dipinto del Carracci : Il Domine quo vadis? e riconoscendo il grande valore del suo genio artistico e del suo talento lo premiò pubblicamente con il regalo di una collana d’oro del valore di 200 scudi (20). L’occasione per una più duratura collaborazione arrivò poi nel 1603, alla commissione delle famose lunette Aldobrandini, quando il Cardinale, probabilmente influenzato dal suo consigliere Giavan Battista Agucchi, incaricò Annibale della realizzazione di alcuni dipinti ad olio dove il paesaggio è il protagonista principale.
Alla loro realizzazione accanto ad Annibale parteciparono: Sisto Badalocchio, Francesco Albani, Giovanni Lanfranco, il Domenichino, ancora quei pittori che furono fondamentali per il rinnovamento di questo genere pittorico, di cui le lunette rappresentano un altro importante capitolo. Nel 1603 l‘Agucchi stilò un inventario parziale della collezione del suo patrono in cui già a quell’epoca risultano presenti molti dipinti di paesaggio con figure piccole degli allievi di Annibale (21).
Aggiungo qui alcune ultime note attinenti la collezione Farnese, la prima riguarda l’inventario dei quadri che si dovevano spedire da Roma a Parma, realizzato nel 1662, dove al numero 14 risulta questa descrizione, purtroppo senza le misure:
Un paese per traverso con acqua e quattro figurine che notano, et uno che si cava la camicia, della scola de Caracci segnato n.50 ( 22).
Il dipinto non è più presente negli inventari successivi stilati a Parma, e nemmeno a Roma, per cui probabilmente non fu spedito, ma disperso, e rimase in quella città. Ora la descrizione che abbiamo appena letto corrisponde piuttosto precisamente con un dipinto conservato al museo Prado (Fig.14), dove si vedono in primo piano, quattro bagnanti ed una ulteriore figura che si sta togliendo la camicia ( olio su tela c. 56×45 ) (23), di cui la menzione più antica è quella dell’inventario dei beni di Carlo Maratti, realizzato a Roma alla sua morte nel 1712, tutto lascia supporre quindi che si tratti dello stesso dipinto.
Una ulteriore notazione riguarda invece l’inventario dei dipinti del Palazzo del Giardino realizzato a Parma nel 1680, dove al numero 130 troviamo la seguente descrizione: Un quadro alto oncie sette, e meza, largo oncie cinque, e meza in rame. Un San Giovanni in ginocchio presso il Giordano, che accenna il Salvatore, che si vede alla ripa in lontananza, dell’Albano n.5, le corrispondenti misure in centimetri sono 34×25. L’opera figura anche nel successivo inventario del 1708 : Quadro con cornice dorata alto oncie sette, e mezza, largo onc.e cinque, e mezza in rame. San Gio. Batt.a in ginocchio presso al Giordano, che accenna il Salvatore, che si vede alla ripa in lontananza, dell’Albano n.5 (24).
Questo dipinto deve essere senza dubbio quello visto dal Malvasia nel palazzo del Giardino di Parma, e tratteggiato nella Felsina pittrice ( 1678) : Un S. Gio. Battista a sedere in bellissimo paese, che accenna ad un picciolissimo Signore sopra un monte ( 25). Inoltre la descrizione corrisponde anche al soggetto del dipinto che attualmente si trova al Metropolitan Museum (Fig.15) che pure è su rame, le cui misure però sono differenti (54.3 x 43.5 cm, circa 1600), le misure inventariali sono spesso imprecise, ma lo scarto in questo caso non è piccolo ( 26).
Concludiamo ritornando all’altra importante citazione inventariale di cui abbiamo già parlato, e cioè al dipinto ex Farnese ed ora a Capodimonte, sul quale sarebbe opportuno in primo luogo effettuare attività una ricognizione, e successivamente un confronto diretto con il dipinto Borghese, per poter avere, almeno si spera, una conferma di un importante documento, una rara testimonianza storica della pittura di paesaggio, questa volta già di proprietà pubblica, un’ ulteriore possibile spunto per riaprire l’nteressante dibattito sulla nascita della pittura di paesaggio a Roma agli inizi del seicento.
Michele FRAZZI Parma 14 Febbraio 2021
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