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“Una mostra pioneristica con diverse ipotesi”.
Così Gianni Papi sulla esposizione presso la Galleria Estense a Modena in corso fino al prossimo 14 gennaio, che presenta per la prima volta al pubblico numerosi dipinti, alcuni recuperati, altri restaurati, altri ancora rianalizzati, tra cui veri capolavori, in grado finalmente di porre sotto la giusta luce il percorso artistico negli anni trascorsi nel nostro paese di Hendrik ter Brugghen, dall’Olanda all’Italia sulle orme di Caravaggio, come recita il titolo della mostra. E non poteva probabilmente essere altrimenti se consideriamo che i dati documentari concernenti il pittore di Utrecht sono “pochissimi” – scrive Papi, che con Federico Fischetti è il curatore dell’evento- meno ancora di quelli già scarsi riguardanti due tra i pittori caravaggeschi che lo studioso fiorentino certamente apprezza di più, come Cecco del Caravaggio e Jusepe de Ribera.
Poteva sembrare insomma un vero e proprio percorso ad ostacoli quello intrapreso dai curatori ma, come si vedrà, proprio questo della mancanza di dati, importante certo, tuttavia si sarebbe dimostrato in qualche modo raggirabile in virtù del metodo del confronto fra le varie opere, l’unico possibile in casi del genere per sostenerne l’autografia; e lo stesso Papi non ne fa affatto mistero quando afferma di essersi basato essenzialmente “sulle analisi stilistiche”, sui “confronti linguistici dei dipinti”, ben cosciente del fatto che su questo molti critici avrebbero potuto arricciare il naso nonostante una credibilità ed una reputazione di grande conoscitore da lui acquisita in anni ed anni di studi e pubblicazioni. E’ ben nota del resto la formazione ‘longhiana’ dello studioso, tanto che vengono alla mente le parole riportate in una anticipazione a stampa di una prossima pubblicazione di una delle allieve più note del grande critico, Anna Ottani Cavina, secondo la quale la prerogativa del maestro consisteva nel “misurarsi nella lettura dell’opera, quasi mai dei documenti”.
In ogni caso e al di là di ciò, davanti alla visione diretta delle opere (molto ben apparecchiate, va detto, nelle sale della Galleria modenese), e a seguito dell’attenta lettura del catalogo, viene da credere, quanto meno a chi scrive, che l’idea di mettere in scena una esposizione del genere partendo dalla costatazione di non poter contare sul sostegno documentario, nascondesse una sorta di provocazione; una provocazione sicuramente giocata quando ci si è resi evidentemente conto che si poteva contestare se non proprio ribaltare – quadri alla mano, verrebbe da dire- il pregiudizio che ha sempre fatto velo alla maggior parte della critica oltremontana da sempre tiepida e anzi contraria a considerare più che formativo il soggiorno romano dell’artista. E questo nonostante che il marchese Vincenzo Giustiniani, notoriamente tra i maggiori esperti d’arte e competenti collezionisti dell’epoca, avesse espresso un “clamoroso attestato di stima” proprio a quella serie di artisti soprattutto fiamminghi, tra cui “Rubens, Gris Spagnolo, Gherardo, Enrico, Teodoro”, che avevano saputo “ben colorire”, dove Enrico altri non era che il nostro Hendrick ter Brugghen; una circostanza scrive Papi “passata del tutto sotto silenzio in ambito olandese”.
Di qui l’idea di un completo risarcimento verso il pittore di Utrecht, un’idea nata e sviluppata proprio a Modena a seguito della recente esposizione del Santo che scrive (Sant’Agostino ?) delle Gallerie Estensi (fig. 1), entrato ad arricchire il catalogo delle opere ‘italiane’ di Ter Brugghen, dopo il restauro e alla fine di un percorso attributivo che lo vedeva inserito tra le opere di Giovanni Serodine.
In effetti, come spiega bene Federico Fischetti nel suo saggio sulla Pittura naturalista per l’antica Galleria dei duchi d’Este, “il cardine della mostra” risiede proprio sul dipinto in questione “rara testimonianza dell’attività di Ter Brugghen in Italia”.
Un tema questo su cui Gianni Papi aveva già ampiamente lavorato, tanto che in questo senso le affermazioni che egli espone oggi nel saggio in catalogo appaiono se non del tutto dirimenti quanto meno appiananti, se possiamo dire così, rispetto al periodo italiano dell’artista proposto ad evidenza come fortemente indicativo non solo di una personalità che raggiunge vette realizzative di assoluto rilievo, tanto da spingere un esperto d’arte come Giustiniani ad inserirlo nel “Gotha dei suoi preferiti”, ma anche come espressione di quella temperie creativa che scosse letteralmente il mondo delle arti figurative e non solo a seguito delle radicali novità caravaggesche. E’ propriamente il periodo di tempo, vale a dire il decennio dal 1605 al ’14, in cui viene situato il soggiorno italiano dell’artista olandese.
E qui vale sottolineare il buon lavoro fatto da Tommaso Borgogelli nel suo contributo in catalogo in cui riassume le tappe del soggiorno del Maestro in Italia “attraverso le fonti e i documenti” laddove riprendendo le precisazioni di Gianni Papi viene proposto proprio l’anno 1605 come l’ipotesi più probabile di arrivo nella città eterna; lo lasciano credere “sebbene non esistano prove documentarie” sia “quanto riportato dall’iscrizione apposta sul Ritratto dell’artista inciso da Bodart” (fig. 2) sia il ricordo di Richard ter Brugghen, il figlio di Hendrick, che fece il viaggio in Italia col padre. E di conseguenza, la partenza dall’Italia non potrebbe che risalire al 1614, anno in cui il Maestro è sicuramente a Milano per quello che Gianni Papi ha molto ben argomentato essere stato assai più che una sosta sulla via del ritorno in Olanda se si considerano i contatti e le collaborazioni con artisti di stanza nel capoluogo lombardo, quali Giulio Cesare Procaccini (del quale è in mostra un capolavoro assoluto come l’Abramo e i tre angeli, oggi in Palazzo Madama a Torino- fig. 3-),
nonché il fatto che all’artista olandese andrebbero restituite due opere magistrali, quali Il Santo che scrive (di cui si è detto) oggi nella Galleria modenese ma proveniente dalla Certosa di Pavia, nonché il San Giovanni Battista (ritenuto addirittura opera di collaborazione tra Ter Brugghen e Procaccini – fig. 4) tuttora allocato a Pavia, insieme al San Paolo Eremita il cui prototipo sarebbe perduto. Su queste basi secondo Borgogelli sarebbe databile verso la fine del 1614 (“poco prima del 1 ottobre 1614 “) il ritorno di Ter Brugghen e Thijman van Galen a Utrecht.
C’è da credere che entrambi i pittori come del resto moltissimi altri fossero stati richiamati a Roma dal clamore di quanto stava accadendo, per aggiornarsi sulle prorompenti novità che stavano ribaltando i vecchi verdetti nel campo delle arti figurative, allorquando tra scontri e polemiche il mondo artistico si andava spaccando letteralmente a metà secondo un criterio espresso da Giovan Pietro Bellori e che non ci dispiace ogni tanto ripetere perché fotografa la situazione creatasi come meglio non si potrebbe: i vecchi pittori, racconta infatti lo storico
“rimanevano sbigottiti per quello novello studio di natura, né cessavano di sgridare il Caravaggio e la sua maniera …”, mentre al contrario “… presi dalla novità, i giovani concorrevano a lui e celebravano lui solo come unico imitatore della natura”.
Non poteva sfuggire ad uno studioso come Papi che della materia inerente gli studi caravaggeschi è tra i massimi esperti internazionali l’eccezionalità della circostanza, non a caso anche da lui più volte richiamata; del resto oggi possiamo solo immaginare quale impatto potesse avere per gli artisti che sbarcavano nella città eterna il fatto di trovarsi risucchiati in un periodo di mutazioni eccezionali, un vero e proprio Sturm und Drang contrassegnato da una formidabile serie di eventi e da personalità talmente straordinarie che avrebbero portato la capitale papalina ad essere per lungo tempo il centro focale della cultura e delle arti.
E proprio qui si situa quello che ci sembra essere il punto determinante del lavoro di Papi, su cui peraltro lo studioso da tempo sta lavorando, vale a dire individuare nell’ambito di un troppo generico ‘caravaggismo’ quelle tendenze che certo scaturiscono dalla lezione ineludibile del maestro, ma che riuscirono ad assumere e proporre una propria originalità, un significativo grado di indipendenza nei confronti del linguaggio pur senza dubbio sostanziale del genio milanese; artisti quali “Borgianni, Ribera, Hontorst” ed ora Terbrugghen per Gianni Papi furono tra i pochi capaci di elaborare “linguaggi personali e fecondi, ‘naturalismi’ carichi di futuro”.
E’ significativo quello che lo studioso scrive più volte a proposito del modus operandi di Ter Brugghen in Italia, ricostruito “sempre orientandomi su basi stilistiche” , sulla base di opere qualiuna Adorazione dei pastori, in asta da Sotheby’s riconosciuta subito come “uno straordinario dipinto della fase italiana di Ter Brugghen” (fig. 5) ,
da ricollegarsi alla Negazione di Pietro Spier e al San Giovanni Evangelista della Galleria Sabauda (fig. 6),
dove le figure appaiono “costruite con tocchi sintetici” senza curarsi del mimetismo e dell’unità dei contorni, e soprattutto mani e piedi appaiono fatti “con poche pennellate energiche date con vigorosa brutalità”. Una stesura assolutamente tipica che se da una parte ha consentito di scavalcare lo steccato sorto con l’attribuzione di Roberto Longhi che negli anni ’40 definì la tela torinese a favore di Serodine inibendo “con la sua proverbiale autorità” gli studi successivi, dall’altra ha permessodi retrodatare al periodo italiano anche il Muzio Scevola davanti a Porsenna (fig. 7)
non presente in mostra e ritenuto finora risalente agli anni olandesi sulla base di una confutabile citazione del 1625, in realtà molto prossimo alla Adorazione Spier se si confrontano proprio le stesure delle mani e degli arti “con tocchi dati velocemente che non si preoccupano di fondersi”. E per continuare su questo registro, si veda il giudizio relativo al Santo Stefano Koelliker (fig. 7) dove colpisce il ductus “sgarbato, quasi violento, con tratti … che ricordano esecuzioni simili ad esempio il San Giovanni Evangelista di Torino”, e dove la fisionomia del volto presenta la “irregolarità tipica della somatica dei personaggi di Ter Brugghen”. Si veda ancora l’analisi stilistica di un capolavoro come la Derisione di Cristo (fig. 9) oggi a Lilla
dove è rimarcata “quella meravigliosa pittura aggressiva che non segue contorni né li traccia” dove il colore è steso “senza curarsi di increspature o di sbavature” e dove infine spicca “la brutalità di alcuni particolari dai quali emerge un’anima nordica che Roma non riuscirà mai del tutto a sopire come accadrà invece ad Hontorst”.
Insomma al tirar delle somme è come se il pittore avesse voluto in qualche misura dare dignità d’arte ad una sorta di particolare e personale inclinazione alla durezza, alla disarmonia, quasi compiacendosene, nella logica di quella che, per quanto possa apparire disagevole, potremmo definire come una speciale estetica della imperfezione che appare quasi rivendicata se non esaltata come si è visto qui negli esempi citati e in altri significativi testi del periodo italiano, per assumere poi le vesti della derisione e del grottesco nelle opere successive al rientro ad Utrecht. Paradigmatico ci sembra in questo senso lo schema – se si può dire così- con cui viene data forma alle mani dei vari personaggi: tutte uguali, sempre massicce, nodose, tozze, quasi indefinite, contraddicendo quello che Claudio Strinati in uno scritto recente ha definito “il principio secondo il quale nell’arte non possa albergare che la bellezza”, ed anzi evidenziando quella sorta di “compiacimento del brutto” come scrive lo studioso senza alcun riferimento diretto all’artista in questione, ma che curiosamente però qui calzerebbe alla meraviglia (cfr., C. Strinati, Breve storia dell’Arte, ed. Salani, Roma, 2023, passim).
E però è precisamente da qui, partendo da quando il capolavoro di Lilla può essere stato dipinto (“1609? o 1610? o forse prima?”) che si rivela l’autentica levatura di Ter Brugghen:
“Opere come questa -scrive Papi- collocano Ter Brugghen in una congiuntura artistica davvero prossima quanto a originalità (non perché simile stilisticamente) a Ribera e per entrambi si resta sbigottiti di fronte al mistero di una esplosione creativa che non ha precedenti radici in Olanda e in Spagna”.
Ne esce insomma la figura di un artista la cui personalità, come quella degli altri, i pochi altri sopra citati, si può dire che debordi dagli schemi più tipici del maestro lombardo per raggiungere un grado di autonomia che consentirà di non appiattirsi sul presente ma di individuare un nuovo cammino, di aprirsi ad un diverso avvenire.
Ed a guardar bene era ovvio che questa “esplosione creativa” come la chiama Papi non avesse radici in Olanda o in Spagna ma si verificasse a Roma e in Italia. Occorre infatti considerare come il clima di esaltazione della potenza e della supremazia della Chiesa cattolica seguito al Giubileo del 1600 costituisse un’occasione senza precedenti per la creatività e la estrosità degli artisti, chiamati ad abbinare alle tematiche religiose le loro creazioni nella logica della lotta senza quartiere contro i protestanti e del ribadimento del primato del pontefice romano; né deve apparire paradossale il fatto che proprio nella capitale dello stato pontificio il clima di controllo seguito all’applicazione delle normative tridentine fosse meno ossessivo che non altrove, dal momento che vi si veniva concentrando già da tempo una quantità indefinibile di progetti, di collezionisti straordinari e soprattutto di artisti da ogni parte d’Europa ai quali notoriamente e come sempre accade “non gli si può dar regola”, tant’è che poteva trovarvi cittadinanza e opportunità persino un noto “corruttore di costumi” come Giambattista Marino.
Un fattore dirimente da questo punto di vista è che fosse sostanzialmente fallito l’obiettivo perseguito dal cardinale Paleotti di istituire un “indice” anche nella pittura, con l’istaurazione dell’imprimatur ecclesiastico. In una missiva al pontefice Clemente VIII il porporato bolognese aveva infatti sostenuto quanto segue:
“Per nessun motivo va trascurata l’opportunità di questo nuovo Indice, affinchè -ora che si è provveduto ad un parto sano dei libri- le immagini, che si ritengono gemelle di quelli, non siamo ritenute aborto di nessun valore”.
La lettera in realtà non arrivò mai sulla scrivania del pontefice, anche perché, come è stato ben sottolineato
“la sua figura di estremo difensore delle norme tridentine … sotto la pressione della nuova congiuntura storica appare quella di un personaggio ormai superato” (M. Calì, Da Michelangelo all’Escorial, Torino, 1980, p. 28).
Ovviamente la presenza della Curia restava determinante nell’indicazione di una prospettiva che favorisse una simbiosi – effettivamente via via realizzatasi- tra esigenze religiose e maestria artistica e tuttavia a guardar bene l’affermazione di una politica accentratrice che esaltava l’idea del primato papale non precluse affatto la strada alla libera creatività dell’artista. Si pensi al prevalere di personalità che in questo senso possiamo definire ‘aperte’ quali il cardinale Roberto Bellarmino che arrivò a concepire la figura del pontefice alla stregua di un monarca assoluto ed infallibile. Senza volerci addentrare in tematiche che non competono in questa sede, vale però ricordare che solo pochi anni prima, nel 1602, lo stesso porporato era stato sostenitore di posizioni molto diverse di tipo episcopalistico -se si può dire così- tanto da essere duramente richiamato, allontanato da Roma e trasferito a Nola; le fonti narrano di un duro scontro col pontefice Aldobrandini quando Bellarmino aveva espresso posizioni in contrasto con il ruolo primaziale del papa riconoscendogli però la potestà di decidere su determinate materie:
“ Questa si sarebbe bella – avrebbe ammonito stizzito il papa- che la potestà la negasti. State attento a quello che dite …”.
Questa forse troppo lunga digressione per dire che anche Ter Brugghen artista proveniente da zone di incerta tradizione religiosa potè valersi di una certa libertà espressiva, purchè ovviamente non contrastasse con i criteri espositivi prevalenti. Ne fa fede la sua opera ‘italiana’ recuperata ed esposta a Modena, non certo per caso tutta a sfondo religioso, se si eccettua il Muzio Scevola davanti a Porsenna di ubicazione ignota già citato e il Ritratto di giovane (Autoritratto?) delle Gallerie Leegenhoek a Parigi, mentre invece le altre opere si fanno notare proprio per il loro afflato religioso. Si veda ad esempio la Incredulità di San Tommaso di collezione privata (fig. 10);
qui le figure, segnate come solito da “asprezze luministiche e da fisionomie espressivamente cariche”, sono poste quasi in simmetria e vengono a comporre una specie di corona per far convergere l’attenzione dei fruitori tutta sul “fatto” cioè su come Gesù Cristo riferendosi all’apostolo incredulo riaffermasse davanti agli apostoli tutti la verità della sua Resurrezione:
”Metti qua il dito e guarda le mie mani; stendi anche la mano e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma credente»! (Giovanni, 20, 27 – 28):
la scena creata dall’artista non c’è dubbio che rispondesse ad una precisa funzione narrativa volendo rimarcare la veridicità dell’accadimento e le presenze dei protagonisti, le loro reazioni tra lo sconcerto e lo sbalordito ne sono la testimonianza, la prova provata che il fatto è veramente accaduto, è reale, laddove per di più il ‘reale’ è messo in mostra in una forma capace di evidenziare insieme il dramma e il riscatto.
Verrebbe a questo punto di chiedersi quanto il Ter Brugghen ‘italiano’ subisse i condizionamenti del contesto in cui operava, fosse Roma, Genova, Milano e se e quanto vi si adeguasse; perché effettivamente la differenza tra un genio e un grande maestro si gioca tutta nel portato delle rispettive produzioni, se cioè tramite queste egli arriva ad imporre testi e linguaggi in grado di ribaltare lo stato presente delle cose affermandosi contro il senso comune. La questione è dunque precisamente quella del rapporto con il contesto e si potrebbe riassumere in una precisa osservazione del compianto Oreste Ferrari in un saggio magistrale datato al 1987 ma ancora attuale dove poneva il problema di
“quanto (i committenti) siano indotti a dar commissioni dalla percezione delle peculiari vocazioni espressive degli artisti”. (Cfr. L’Iconografia dei filosofi antichi nella pittura del sec. XVII in Italia, in “Storia dell’Arte”, n. 57, a. 1986, p. 103).
Non è un tema di poco conto se è vero che per riuscire ad inserirsi in un circuito di committenze di rango elevato che rispondeva ad un more nobilium regolato da precise esigenze sarebbe stato necessario rispettarne le idee e le richieste.
Il caso di Caravaggio sotto questo aspetto è paradigmatico dato che fu grazie al cardinale del Monte e al suo rinomato circolo intellettuale che egli potè esprimere il suo genio mettendo in evidenza le sue straordinarie qualità innate. Investigare dunque il rapporto dell’artista, nel nostro caso Ter Brugghen, con il mondo non solo della grande committenza ma anche della intellettualità -di cui comunque una pur labile traccia appare se diamo conto alle parole di Vincenzo Giustiniani che abbiamo visto- in una situazione così piena di spunti affascinanti quale quella romana di quegli anni fatali in cui si inizia a dibattere la tematica dei “caratteri, all’interno del più vasto tema speculativo dell’ ‘ut pictura poesis’ è un aspetto che andava forse maggiormente indagato perché avrebbe potuto consegnarci un motivo di certezza in più in una esposizione che parte da pochi punti assodati è che tuttavia grazie ad un certosino lavoro di precisazioni, chiarimenti, delucidazioni fatto da Gianni Papi è riuscita a centrare l’obiettivo prefissato, proiettando nella giusta dimensione la produzione italiana di Hendrick ter Brugghen.
Non è davvero poco per una esposizione pioneristica.
P d L Roma 7 Gennaio 2024