di Claudio LISTANTI
Dopo il buon successo de Les vêpres siciliennes di Giuseppe Verdi, lo spettacolo che ha inaugurato alla grande la Stagione Lirica 2019-2020 del Teatro dell’Opera di Roma, gli organizzatori del teatro lirico romano hanno riservato agli appassionati un’altra notevole proposta per questo genere di spettacolo: I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini.
Il capolavoro del musicista catanese è stato affidato alla direzione d’orchestra di Daniele Gatti, attuale direttore musicale dell’ente lirico romano che ha fornito una prova del tutto convincente che rinnova quanto di buono aveva fatto vedere con Les vêpres inaugurali. La parte visiva dello spettacolo è stata interamente affidata a Denis Krief. Valida la compagnia di canto nella quale spiccava la Giulietta di Mariangela Sicilia.
Nel riferire di questo nuovo spettacolo occorre iniziare con il mettere ben in evidenza l’importanza storica e musicologica della proposta.
I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini occupano una posizione cruciale nella pur breve esistenza terrena del musicista. Nato a Catania il 3 novembre del 1801 si spense a poco meno di trentaquattro anni il 23 settembre del 1835. La sua produzione operistica occupa lo spazio di circa 10 anni dal 1825 al 1835. Le sue opere furono molto apprezzate a partire dalla prima, Adelson e Salvini, composta a 24 anni come lavoro del corso finale di composizione presso il Conservatorio di Napoli dove il musicista si perfezionò sotto la guida di uno dei più importanti musicisti dell’epoca, Nicola Antonio Zingarelli. Siamo nel 1825; l’anno successivo riscuote un buon successo al San Carlo di Napoli con Bianca e Gernando evento con il quale conquista grande considerazione sia presso il pubblico sia presso gli impresari teatrali dell’epoca concordi nell’ammirare il suo talento musicale e quel particolare senso di melodia infinita.
Tra questi impresari c’è Domenico Barbaja, uno dei più grandi di tutti i tempi per il fiuto dimostrato nello scovare geni musicali, uno fra tutti Rossini. Barbaja vedeva in Bellini il vero e proprio erede dell’arte musicale del pesarese, che proprio in quegli anni aveva lasciato l’Italia per raccogliere il successo a Parigi, l’indiscussa capitale musicale della musica europea.
Barbaja a Napoli era considerato il nume tutelare del Teatro di San Carlo, ma la sua fama si estendeva anche nel resto d’Europa come dimostra la nomina per la gestione dei due teatri di Vienna. Nel 1826 ottenne l’incarico di guidare il Teatro alla Scala mansione che conservò per sei anni. Nella sua avventura milanese coinvolse anche Bellini affidandogli l’incarico di comporre due opere, Il Pirata nel 1827 e La Straniera nel 1929. Con queste opere iniziò anche la collaborazione del musicista con il librettista Felice Romani con il quale costituì un prezioso sodalizio artistico che si protrasse fino a quando Bellini si trasferì a Parigi.
Con Il Pirata e La Straniera Bellini ottenne successi di particolare rilevanza artistica perché, in esse, il pubblico ravvisava veri e propri elementi di novità e di modernità rispetto al repertorio allora in auge, rivolti ad una più accurata ed efficace attenzione allo sviluppo drammatico dell’azione ottenuta grazie ad una maggiore aderenza tra musica e dramma e all’utilizzo di una linea vocale più incisiva ed espressiva.
Siamo nel 1829. Dopo l’affermazione de La Straniera per Bellini c’é l’insuccesso di Zaira, il 16 maggio per l’inaugurazione del Teatro Ducale di Parma. L’opera, nonostante fosse in possesso di una notevole parte melodica, soffre della presenza di sostanziosi recitativi. Certo è il frutto dello stile musicale belliniano di quegli anni come sappiamo molto apprezzato ma, con ogni probabilità, poco gradito ad un pubblico di provincia come poteva essere all’epoca quello di Parma. Ma la fama di Bellini si diffonde in Italia. A Venezia vogliono conoscere la sua musica e l’impresario Alessandro Lanari (altra personalità di spicco del settore) lo scrittura alla Fenice per presentare Il Pirata che sarà eseguito nel gennaio del 1830.
Ma il Lanari stima molto Bellini ed ambirebbe ad una sua opera espressamente composta per la Fenice. Il sogno si avvera approfittando di una defezione, quella di Giovanni Pacini, musicista molto in voga all’epoca, che aveva preso un impegno per una nuova opera per la stagione di carnevale del 1830, incarico che non poté onorare visti gli obblighi che aveva preso con molti altri teatri. La nuova opera fu affidata quindi a Bellini che accettò la sfida nonostante i tempi a disposizione fossero ristretti in quanto mancava solo un mese e mezzo alla prima prevista per l’11 marzo 1830.
Assieme a Felice Romani scelsero una nuova versione di Romeo e Giulietta, argomento molto in voga all’epoca, del quale si ricordano due Giulietta e Romeo: quella di Nicola Antonio Zingarelli nel 1795 e, nel 1825, quella di Nicola Vaccaj sempre del Romani. Per l’occasione veneziana il librettista preparò un adattamento di quest’ultima, cambiando il titolo, che divenne I Capuleti e i Montecchi, per segnare un confine netto tra le due versioni. La fonte letteraria non è quella di Shakespeare, allora quasi sconosciuta nel nostro paese, ma è individuata nella tradizione letteraria italiana della quale faceva parte la Novella IX di Matteo Bandello del 1554. Per quanto riguarda la musica Vincenzo Bellini, anche in considerazione del poco tempo a disposizione, riadattò diverse pagine della Zaria, il cui insuccesso la fece cadere in oblio, creando una partitura del tutto nuova frutto delle sue grandi doti di musicista.
L’opera ebbe notevole successo non solo grazie ad una compagnia di canto che prevedeva la presenza di un mito dell’epoca, Giuditta Grisi alla qaule fu affidata la parte di Romeo ma anche per gli evidenti elementi di novità di carattere musicale che mostravano una eccellente fusione tra la componente melodica e quella più propriamente teatrale e drammatica. In definitiva I Capuleti e i Montecchi si possono considerare come ponte tra le opere del debutto di Bellini e la sua piena maturità, quando produsse capolavori indiscussi come Sonnambula e Norma anche se questo percorso avvenne nell’arco temporale brevissimo di dieci anni.
Il successo si allargò a macchia d’olio non solo in Italia ma in tutta Europa, seducendo anche i pubblici di Londra e Parigi. Ma questo consenso, però, si affievolì nella seconda metà dell’800 soprattutto perché i Capuleti sono legati ancora ad una struttura superata dai tempi. Come avrà notato il nostro lettore la parte di Romeo era sostenuta da una donna. Questa è una reminiscenza dell’opera del ‘700 che prevedeva l’uso di castrati per alcune parti, come questa, caratterizzate da slanci eroici e forti passioni amorose. Nell’800 questo tipo di voce scomparve progressivamente e si trovò nel mezzosoprano un ‘surrogato’ ideale anche perché la voce di tenore, specifica per questo tipo di personaggio, non era ancora sviluppata come la possiamo ascoltare oggi.
Quindi con l’andar del tempo I Capuleti entrarono in un immeritato oblio che solo a partire dal ‘900 inoltrato fu progressivamente superato. Uno degli attori più importanti di questa rinascita fu Claudio Abbado che negli anni ’60 dello scorso secolo ricondusse l’opera agli antichi fasti grazie ad una serie di esecuzioni caratterizzate dalla trasformazione della parte di Romeo da mezzosoprano a tenore e renderla così più affine ai gusti del pubblico cosiddetto ‘moderno’. Ciò contribuì al ritorno in repertorio dell’opera che con il passare degli anni è tornata anche ad essere apprezzata nella struttura originale grazie ad una maggiore presa di coscienza da parte del pubblico lirico oggi ben disposto ad assistere ad edizioni più ‘autentiche’ ottenute grazie al lavoro di valorosi musicologi e del loro proficuo lavoro di recupero.
La trama de I Capuleti e I Montecchi è lontana da quella shakesperiana e piuttosto semplificata. I contrasti tra le due famiglie sono praticamente marginali; manca la scena del balcone, non c’è Mercuzio, mentre Padre Lorenzo diviene semplicemente Lorenzo, un medico. Resta però intatto il fascino del finale con il finto avvelenamento e la morte dei due sfortunati amanti che suggella la storia con emozione e tristezza.
Dopo queste premesse, forse un po’ lunghe ma doverose, si comprende bene la valenza artistica della proposta messa in campo dal Teatro dell’Opera di Roma. Infatti nella lunga storia del Teatro Costanzi (nome storico dell’Opera di Roma), come noto inaugurato nel 1880, la prima volta che I Capuleti approdarono sul suo prestigioso palcoscenico fu nel 1967 grazie ad una edizione diretta da Abbado che accoglieva l’operazione da lui intrapresa poc’anzi citata. Poi, prima di oggi, solo nel 1979 e nel 2004. Le rappresentazioni di questi giorni certificano l’iter di recupero del capolavoro belliniano nel repertorio negli anni 2000.
Per analizzare l’esecuzione ascoltata partiamo dalla parte squisitamente visiva. I responsabili della programmazione del teatro ne hanno affidato la realizzazione a Denis Krief che ha assunto il ruolo di ‘monarca assoluto’ dello spettacolo per il quale ha curato regia, scene, costumi e luci. Scelta condivisibile non solo, immaginiamo, per ottimizzazioni di carattere economico ma anche per quelle di carattere pratico che possono contribuire ad una maggiore focalizzazione dell’idea registica che è alla base della realizzazione dello spettacolo.
Nell’attuale continua ricerca di una ambientazione diversa da quella del testo originale, Krief ha spostato l’azione che il libretto dice svolta ‘… in Verona: l’epoca è del tredicesimo secolo’ in una molto più recente dove all’interno di una cornice di stampo ‘metafisico’ che ne sottolineava ogni distacco con il passato emergeva un ambiente di carattere più ‘contemporaneo’ con la presenza di una reticolato di filo spinato ed una sorta di ‘osteria’ stile ‘Cavalleria Rusticana’ con costumi genericamente ascrivibili ai nostri giorni. La sola scena finale, vero gioiello dell’opera, conservava il fascino e la tensione che la musica evoca. L’abilità registica di Krief è però emersa con movimenti dei personaggi curati ed anche opportunamente coinvolgenti.
Per quanto riguarda la parte musicale è stata condotta con autorità da Daniele Gatti che è riuscito a mettere in risalto i pregi di questa partitura esaltandone la cantabilità non solo nella parte prettamente strumentale ma anche nelle linee vocali dei singoli personaggi alle quali, con evidenza, ha dedicato cura e attenzione. Dopo Les vêpres verdiani e questi Capuleti possiamo con piacere dire che il Teatro dell’Opera ha ritrovano una guida musicale sicura e prestigiosa che può fare immaginare, per il nostro teatro, un futuro roseo e pieno di soddisfazioni.
Con riferimento alla compagnia di canto possiamo dire che è risultata valida ed omogenea nell’insieme. Nella parte in travesti di Romeo la russa Vasilisa Berzhanskaya ha messo in evidenza una bella e calda voce di mezzosoprano molto appropriata per la parte che ha reso bene anche scenicamente pur mancando un pochino del necessario piglio eroico. Mariangela Sicilia ha dato al personaggio di Giulietta toni delicati e raffinati dimostrando di dominare le difficoltà insite nella linea vocale restituendoci intatti tutti i suoi valori melodici. Entrambe hanno dato spessore e fluidità allo strepitoso finale. Scenicamente credibile il Tebaldo del tenore peruviano Iván Ayón Rivas anche grazie ad una vocalità misurata priva di eccessi necessaria alla realizzazione del personaggio. Negli altri due ruoli altri due validi cantanti, i bassi Nicola Ulivieri (Lorenzo) e Alessio Cacciamani (Capellio).
Come sempre prezioso il contributo del Coro del Teatro dell’Opera diretto da Roberto Gabbiani.
Al termine della recita (4 febbraio) il pubblico ha applaudito con calore e convinzione tutti gli interpreti testimonianza non solo del gradimento dell’esecuzione ma approvazione per il ‘recupero’ nel grande repertorio di questo innegabile capolavoro.
Claudio LISTANTI Roma 16 febbraio 2020