di Nica FIORI
Il pavonazzetto, il cui nome deriva dalle chiazze e venature di colore paonazzo, ovvero violaceo, su fondo bianco, era il marmo più importante della Frigia (nell’attuale Turchia).
Il giallo antico era detto marmor numidicum perché proveniva dalla Numidia (Africa settentrionale). Pure dalla Numidia proveniva il bigio morato, o marmo nero antico, a volte macchiato dalla presenza di fossili marini biancastri.
Il porfido rosso, dal colore simile alla porpora ma punteggiato di piccolissimi puntini chiari, proveniva dal Mons porphyrites in Egitto. Sempre dall’Egitto proveniva il granito rosa di Assuan.
Il porfido verde, o serpentino, era estratto dalla zona di Sparta, in Grecia, ed era perciò detto anche marmor lacedaemonium.
Il cipollino mandolato verde proveniva dalla Francia, l’alabastro a pecorella dall’Algeria, il broccatello dalla Spagna.
Questi sono solo alcuni dei marmi che, soprattutto in epoca imperiale, venivano importati a Roma dalle province dell’impero con costi altissimi per l’estrazione, il trasporto e la lavorazione.
Celebre è l’affermazione di Augusto, di “aver trovato una città di mattoni e di restituirla di marmo”, riferita da Svetonio nelle Vite dei Cesari. Ma non si trattava certo dei manufatti in marmo bianco che sono stati proposti da una certa cinematografia in costume, e ancora prima dal gusto neoclassico e dai musei del gesso. La città era molto colorata, come gli archeologi ci hanno più volte dimostrato, e non solo nel senso che le statue e i rilievi in marmo bianco venivano dipinti, ma anche perché c’era un’abbondanza di cromie naturali, dovute all’estrema varietà dei materiali lapidei usati nella statuaria, nelle colonne e nei rivestimenti architettonici.
Basti pensare che il nuovo allestimento museale “I Colori dell’Antico. Marmi Santarelli ai Musei Capitolini”, ospitato in due sale di Palazzo Clementino nei Musei Capitolini, offre alla vista una selezione di oltre 660 marmi policromi di età imperiale, provenienti dalla collezione Capitolina e dalla Fondazione Dino ed Ernesta Santarelli.
Grazie a un comodato gratuito decennale, subentrato all’esposizione della glittica della stessa Fondazione Santarelli, questo allestimento dei marmi Santarelli, a cura di Vittoria Bonifati e Andrea De Marchi, diventa un’occasione unica per ripercorrere attraverso i materiali esposti la storia della capitale da un punto di vista artistico, socioculturale, politico ed economico.
In una delle due sale ci colpisce una scultura, o meglio un pastiche realizzato mettendo insieme più marmi, probabilmente nel tardo Rinascimento o in età barocca. A un torso femminile in porfido rosso (II secolo d.C.), che doveva raffigurare una Nike dal bel panneggio mosso dal vento, è stata sovrapposta una testa in marmo bianco non pertinente, raffigurante Dioniso, il dio del vino (e infatti presenta pampini e corimbi di vite tra i capelli). Pur essendo antica, la testa è stata rilavorata e sottoposta a nuova politura; sono di restauro il collo e le braccia, volutamente tagliate al di sopra dei gomiti per dare l’idea della frammentarietà delle statue antiche. Il tutto poggia su una base neoclassica realizzata con giallo antico, alabastro e altri materiali.
L’opera, che ha fatto parte della collezione dei conti Rosebery a Mentmore Towers nel Buckinghamshire, è una delle tante sculture acquistate dai Santarelli, operanti nel settore imprenditoriale ma con una grande passione per l’antico, tanto da aver raccolto, avvalendosi della consulenza di esperti, opere marmoree di grande interesse, soprattutto di ambito romano. La loro predilezione per la scultura è dovuta al fatto che, pur avendo minor appeal commerciale rispetto alla pittura, utilizza un materiale solido che non prende fuoco e, se si rompe, può essere facilmente restaurato. Inoltre, essendo particolarmente pesante, il marmo è meno soggetto ai furti e, soprattutto, ogni reperto è unico e irripetibile.
L’elegantissimo pastiche scelto per l’allestimento capitolino si riflette in una specchiera d’epoca, dando quasi l’illusione di trovarsi in un ambiente familiare, sensazione accresciuta dalla presenza di due vetrine in legno laccato e dorato del tardo Settecento, contenenti al loro interno una collezione ottocentesca di 422 mattonelle di forma regolare di marmi colorati della stessa Fondazione Santarelli, che si affianca a un’altra collezione dei Musei Capitolini, iniziata nella seconda metà dell’Ottocento da Enrico Guj e costituita da 288 formelle.
Raccolte di questo tipo, corredate da un catalogo ragionato, si diffusero a partire dal Settecento, come attestato dai viaggiatori dell’epoca, ed erano frequenti nelle botteghe dei marmorari, che vendevano mattonelle di marmi colorati come preziosi souvenir da Grand Tour. Nella stessa sala è pure esposto un campionario di strumenti per la lavorazione del marmo, dagli scalpelli ai “mazzuoli” e ai compassi per prendere le misure.
L’altra sala espone 82 frammenti architettonici di varie forme e spessore che ci riempiono di meraviglia per la vivacità cromatica, dovuta alla giusta lavorazione che rende le superfici levigatissime. La collezione di frammenti di marmi policromi, formata dai Santarelli nel corso degli anni mettendo insieme anche precedenti raccolte, tra cui quella di Federico Zeri, è oggi probabilmente la più vasta collezione privata di questo genere al mondo.
I pezzi in mostra non sono disposti a caso, ma in gruppi accomunati dalla provenienza, su quattro pareti contrassegnate dall’orientamento: Est, Ovest, Nord e Sud.
Vengono così individuate le aree geografiche più sfruttate per l’estrazione dei marmi al momento della conquista romana (i marmi più pregiati arrivavano dalla Turchia, dalla Grecia e dall’Egitto): un intento didattico che è ulteriormente arricchito da un documentario, a cura di Adriano Aymonino e Silvia Davoli, che ripercorre la storia dei materiali lapidei in relazione alla politica di espansione dell’impero.
Scopriamo tra le altre cose che l’uso di alcune pietre colorate risale al Neolitico o alla tarda età del bronzo, come il duro serpentino verde (usato anche con funzione magico-sacrale, allo stesso modo della steatite verde, in alcune statuine di Veneri neolitiche). In Egitto i faraoni sfruttarono qualità diverse di marmi e l’ultima loro dinastia, quella dei Tolomei (305 – 30 a.C.), ampliò il repertorio con porfidi e alabastri, che saranno in seguito apprezzati a Roma, dopo la conquista dell’Egitto da parte di Ottaviano. Prima, in età repubblicana, erano pure stati introdotti alcuni marmi colorati, come il giallo antico e il pavonazzetto, ma in generale venivano preferiti i materiali locali meno lussuosi.
Fu proprio a partire dal primo imperatore, Ottaviano Augusto, che si diffuse a Roma l’importazione di obelischi, statue e pietre grezze dall’Egitto, che avrebbero dato un’impronta particolare alla città. Il maggior assortimento di marmi colorati risale ai Flavi (69-96 d.C), ma è con gli Antonini che le cave divennero proprietà degli imperatori, ad uso esclusivo degli edifici pubblici e delle dimore imperiali. La difficoltà di lavorazione delle pietre più dure, come non aveva impensierito i popoli orientali e nordafricani, non preoccupò neppure i Romani, mentre molto tempo dopo metterà a dura prova gli artefici del Rinascimento perché, come racconta il Vasari, si era ormai “perduto il modo del temperare i ferri, e così gli altri strumenti da condurle”.
È possibile che Augusto e i successori abbiano voluto deliberatamente finanziare le attività estrattive nelle province lontane, non solo come rappresentazione simbolica dell’estensione imperiale, ma anche per favorire la romanizzazione delle popolazioni straniere.
La fine dell’Impero Romano d’Occidente portò alla chiusura della maggioranza delle cave e, mancando ormai i materiali pregiati, nel passaggio dalla Roma pagana alla Roma cristiana, vennero riutilizzati quelli antichi per creare un nuovo linguaggio artistico. Non sempre dobbiamo pensare al riuso come a un barbaro saccheggio, perché nel caso dei marmorari romani si tratta piuttosto della prosecuzione della tradizione lapicida classica, di cui si preserva il valore simbolico, politico e religioso. Un esempio su tutti è dato dal porfido rosso egiziano che, essendo simile al colore della porpora, esprime simbolicamente il potere imperiale di Roma, potere che viene trasmesso con la presunta “Donazione di Costantino” alla Chiesa (i cui cardinali vestono di porpora). Ecco allora che grandi colonne di porfido vengono riutilizzate, come avviene nel battistero di San Giovanni, mentre altre vengono “affettate” per ricavare quelle bellissime rotae, intorno alle quali si dispongono con grande creatività tarsie di marmi colorati, come prima si faceva negli antichi pavimenti in opus sectile. Il serpentino verde, il giallo antico, il pavonazzetto, il marmo portasanta rivivono tutti, grazie ai marmorari che sono i legittimi eredi di un’estetica del passato. I Cosmati, cui si devono alcuni dei più bei pavimenti di chiese romane, loggiati, altari e amboni, erano magistri doctissimi e lo studio dell’arte classica era per loro campo di meditazione e pensiero. Con loro si può parlare di una vera e propria “rinascita” artistica tra il XII e il XIII secolo.
Nica FIORI Roma 24 Aprile 2022
“I Colori dell’Antico. Marmi Santarelli ai Musei Capitolini”
Musei Capitolini – Palazzo Clementino. Piazza del Campidoglio, 1
Orario: tutti i giorni 9.30 – 19.30 (la biglietteria chiude un’ora prima).
Catalogo edito da Treccani
Info: tel. 060608 (tutti i giorni ore 9.00 – 19.00) www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it