di Nica FIORI
La danza cosmica dei Dervisci
Nel mondo islamico non sono rare le confraternite religiose che cercano un contatto con il divino, il passaggio dal mondo materiale a quello spirituale, ma una, in particolare, è celebre perché pratica da più di sette secoli una danza mistica che è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Si tratta della danza dei Dervisci rotanti, appartenenti all’Ordine dei Mevlevi, che hanno la loro sede principale a Konya, in Turchia, e alcune sedi periferiche in altre località turche e anche a Cipro, nella capitale Nicosia.
Nella zona nord di Nicosia, occupata dai turchi e separata da un muro dal resto della città, presso la moschea di Bedesten (un edificio gotico precedentemente dedicato a San Nicola),
a 50 metri dall’importante moschea di Selimiye (un tempo cattedrale di Santa Sofia), i Dervisci danzanti si esibiscono tutti i giorni, tranne la domenica, nella loro performance religiosa, che rispecchia pienamente la tradizione di Konya, dove visse e morì uno dei più famosi mistici del sufismo, Gialal-ed-Din Rumi (1207-1273), chiamato Mevlana dai turchi e fondatore dell’Ordine dei Dervisci rotanti: un ordine ufficialmente soppresso da Atatürk nel 1925, ma di fatto sopravvissuto come confraternita.
Come apprendiamo nel Mevlevi Museum, presso la Porta Kyrenia di Nicosia, la cultura derviscia a Cipro fu introdotta quando l’Impero Ottomano conquistò l’isola nel 1571. La parola darwish letteralmente significa “povero” e il derviscio in effetti si considera tale, perché la sua anima, strappata alle sue origini divine, è imprigionata nel corpo terreno. “Siamo tutti poveri, tranne Dio”, dice un detto musulmano, ma per fortuna al povero è rimasta la voce, che gli permette di cantare il proprio lamento per l’assenza dell’Amato. Un suono che all’inizio è malinconico e incerto, ma diviene, man mano che si entra in contatto con Dio, travolgente e gioioso. E allora la danza diventa vorticosa, turbinante.
I danzatori, la cui figura ieratica sembra ingigantita da un alto cappello di feltro, abbandonano il loro mantello nero, simbolo del basso e oscuro mondo in cui l’anima è prigioniera, e, candidi come colombe, iniziano a ruotare sul perno di un piede. La mano destra, aperta verso il cielo, accoglie la grazia divina, mentre la sinistra, aperta verso il suolo, la trasmette ai comuni mortali. Il cerchio della gonna roteando si schiude come i petali di un fiore a significare la sfera del cosmo che ruota senza posa intorno al proprio centro.
Secondo il pensiero medievale – pensiamo per esempio al Paradiso di Dante – anche le sfere celesti, più vicine a Dio, nel loro eterno movimento intorno al centro dell’universo emettono un suono, un canto di gloria al Signore, e i loro suoni così puri si fondono in un’armonia che l’udito umano non può percepire. A pensarci bene, non c’è niente che non giri nell’universo, a partire dai costituenti stessi della materia, come gli elettroni degli atomi. Gli esseri umani girano insieme a tutti gli altri esseri viventi seguendo il ritmo determinato dal movimento rotatorio della Terra e contemporaneamente da quello di rivoluzione intorno al Sole. Per questo i dervisci danzano ruotando intorno a un perno idealmente fissato nel terreno.
Afferma infatti Rumi:
“Gli atomi danzano, le anime perse nell’estasi danzano… Gli atomi dell’aria e del deserto, tutti, sappilo, sono come degli insensati. Ogni atomo, felice o miserabile, è folle di quel Sole di cui nulla si può dire”.
I dervisci sono in effetti i “folli di Dio” che cercano di lambire volteggiando la fiamma dello Spirito divino. Così intenso è il loro rapimento che possono ruotare ininterrottamente per un quarto d’ora senza avere vertigini né provare stanchezza e il movimento rotatorio è ripetuto più volte. La loro danza è accompagnata dal suono del nay, un lungo flauto di canna. “Noi siamo il flauto ma la musica giunge da Te”, scrive ancora Rumi. E in una quartina aggiunge: “Ascolta la canna, narra tante cose: dice i segreti nascosti dell’Altissimo; la sua figura è pallida e il suo interno è vuoto. Essa ha donato la sua testa al vento e ripete il nome di Dio senza parole e senza lingue”.
E mentre musica, voce e movimenti diventano un’unica vibrazione, il danzatore roteante diventa parte del tutto, si allontana dalle cose terrene e si immerge nella divinità. Ma anche lo spettatore viene ipnotizzato dall’armonia melodiosa della danza e partecipa a un viaggio mistico che crea una spirale di comunicazione tra cielo e terra. Alla fine non sono previsti applausi, perché si ha a che fare con la religione e non con il folclore.
L’origine di questa danza si perde quasi nella leggenda. Correva l’anno 615 dell’Egira (1219 d.C.) quando un musulmano che viveva nella regione persiana del Khorasan, abbandonò con la famiglia la sua città, Balkh (nell’attuale Afghanistan), perché era incorso nella gelosia del principe locale, o, secondo altri, per paura dei mongoli di Gengis Khan, che di lì a poco avrebbero devastato il Khorasan. Quell’uomo si chiamava Baha-ud-Din ed era un sufi, cioè un musulmano che cercava nell’ascesi spirituale il senso mistico e universale della vita, senza curarsi troppo delle pratiche esteriori del culto e della legge coranica. La famiglia di Baha-ud-Din girovagò a lungo nel mondo musulmano fino a stabilirsi, nel 1230, a Konya. Il sufi aveva un figlio, Gialal-ed-Din, che avrebbe superato ben presto la fama del padre. Dai suoi discepoli gli fu dato il nome di Mevlana, che vuol dire “Nostro Signore”, cui venne aggiunto il nome Rumi che deriva dal termine arabo-persiano che designava l’Anatolia, Rum, in quanto un tempo appartenuta ai Romani.
Istruitosi nelle matematiche, Rumi le abbandonò per darsi agli studi religiosi. Ebbe come maestro un misterioso personaggio, Shams-ed-Din (Sole della religione), che gli apparve all’improvviso il 29 novembre del 1244, mentre era seduto nella sua casa in mezzo ai suoi libri. Shams-ed-Din entrò e indicando i libri gli chiese cosa fossero. Rumi disse: “Tu non lo puoi sapere”. Immediatamente si sprigionò un fuoco che bruciò tutti i libri. Allora Rumi chiese: “Cos’è quello?”. L’altro rispose: “Tu non lo puoi sapere” e se ne andò. Questo episodio fu come “l’acciarino che fa sprizzare le scintille nascoste in seno alla pietra”. Egli capì che “lo spirito divora il sapere, l’amore divora la scienza”. Abbandonò la sua casa per farsi povero e divenne un darwish, un folle di Dio. Nacque allora in lui l’idea del suono e della danza, che riconducono nell’estasi l’anima a Dio. E cominciò a comporre i versi del suo Divan (canzoniere), danzando in circolo intorno a una colonna della sua scuola, e ritmandoli col batter delle mani e del canto. E fu così che egli divenne il più grande poeta mistico dell’Islam. Il suo canto si rivolge a tutti, senza distinzione di razza o fede religiosa. Nel suo reliquiario, posto sotto il tetto verde-turchese dell’edificio che ospitò il convento dell’Ordine da lui fondato a Konya, si leggono questi suoi versi:
“Vieni! Chiunque tu sia./Pure tu miscredente,/fervente adoratore/guastato dalla credenza in un idolo,/pure tu vieni!/Vieni, anche se hai già infranto/innumerevoli volte/il tuo voto:/la nostra non è la porta della miseria,/neppure della disperazione/vieni dunque!”
Questo amore per tutti, così diverso dal fanatismo religioso di altri religiosi, accomuna il derviscio Rumi al nostro San Francesco d’Assisi, il poverello che amava definirsi “giullare di Dio”. Nella loro ricerca dell’Assoluto, entrambi si sono distinti per un’ineffabile e ispirata gioia spirituale e per il rifiuto di ogni ricchezza materiale, che li rendeva singolari agli occhi della gente comune. Certo San Francesco deve essere entrato in contatto con il sufismo islamico quando si recò in Egitto nel 1219 per cercare di convertire il Sultano Malik Al Kamil: indubbiamente ci fu da parte sua un tentativo di scambio interreligioso che appare quanto mai attuale.
Nica FIORI Roma ottobre 2018