di Nica FIORI
I Dioscuri, i divini gemelli Castore e Polluce il cui mito presenta multiformi varianti, a Roma sono praticamente di casa, poiché li troviamo in due delle più significative piazze cittadine, ovvero quella del Campidoglio, dove sono esposte le statue provenienti dalla piazzetta dei Cenci, e quella del Quirinale, la cui area era chiamata un tempo Monte Cavallo per la presenza del gruppo marmoreo dei due eroi affiancati dai loro cavalli, proveniente probabilmente dalle terme di Costantino.
Figli di Leda e di Zeus, che si era accoppiato con lei sotto forma di cigno, i Dioscuri sarebbero nati da due uova insieme a Elena e Clitennestra, mentre secondo un’altra tradizione sarebbero nati da Leda e dall’eroe spartano Tindareo e per questo vengono chiamati da molti autori greci Tindaridi.
Una versione del mito vuole che solo Castore fosse immortale, in quanto generato da Zeus, mentre Polluce, che era figlio di Tindareo, fosse mortale, ma i due erano talmente legati da amore fraterno da aver ottenuto da Zeus di condividere per sei mesi l’immortalità nell’Olimpo e di vivere gli altri sei mesi negli Inferi e da essere poi trasformati in costellazione. L’alternanza fra la luce e le tenebre, la vita e la morte, propria della loro natura, si è prestata nel tempo anche a un culto funerario, soprattutto a partire dal II secolo d.C., come mostra la loro presenza in un numero consistente di sarcofagi di età imperiale.
Il copricapo che li contraddistingue (una sorta di calotta emisferica, a volte sormontata da una stella) allude probabilmente al cosmo con le sue costellazioni, che passano nella loro quotidiana rotazione dagli Inferi al Cielo superiore, ma c’è chi vi ha visto il riferimento alle due metà di un uovo, data la loro particolare nascita da Zeus-cigno.
I due gemelli, noti per le loro virtù guerriere e atletiche (Castore era un abile domatore di cavalli e Polluce era ritenuto l’inventore del pugilato), fin dalle origini della loro immagine religiosa e iconografica sono visti come eroi salvifici, protettori non solo dei soldati in battaglia, ma anche dei naviganti, come ricorda Orazio in un suo carme (Carmina I, 12, 24 e seg.):
“Parlerò anche di Ercole e dei ragazzi di Leda, / l’uno famoso per vincere con i cavalli, / l’altro nel pugilato: appena brilla / la loro fausta stella ai marinai, / l’acqua agitata si ritira dagli scogli, / cessano i venti e fuggono le nubi, / e l’onda minacciosa, per loro volere, / si placa sul mare”.
Questa loro funzione di salvatori (soteres) nell’imminenza del pericolo era legata al fatto che, nel corso della spedizione degli Argonauti nella Colchide alla ricerca del Vello d’oro, avevano placato con la loro presenza una tempesta marina. Nell’ambito della stessa spedizione, i Dioscuri capitarono da Amikos, re dei Bebrici e, data l’arroganza di quest’ultimo che pretendeva di combattere contro gli ospiti, Polluce lo sconfisse in una gara di pugilato, episodio raffigurato nella celebre Cista Ficoroni (da Palestrina, IV secolo a.C.), conservata nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
I gemelli godevano a Roma di ampia popolarità. Il loro aspetto di audaci cavalieri ne aveva fatto i numi tutelari dell’ordine equestre (equites) e quindi protettori del patriziato. Il tempio loro dedicato, detto dei Castori, si trovava nel Foro, all’interno del pomerio, fatto decisamente insolito per divinità greche. Questo potrebbe essere spiegato, forse, col fatto che il loro culto era già penetrato nel Lazio in epoca assai precoce.
Secondo quanto riporta Dionigi d’Alicarnasso, il primo tempio venne loro dedicato nel 484 a.C. per ricordare la vittoria dei Romani contro la lega dei Latini presso il lago Regillo (15 luglio del 496 a. C., o forse del 499 a.C.), in seguito alla cacciata di Tarquinio il Superbo. La tradizione attribuisce il merito della vittoria all’apparizione dei Dioscuri, sotto forma di due bellissimi giovani che si misero alla testa dell’esercito romano. La stessa sera i gemelli divini comparvero nel Foro, ad annunciare la vittoria con la loro presenza, e abbeverarono i loro cavalli presso la fonte di Giuturna.
Secondo una leggenda, Giuturna (ricordata da Virgilio come sorella di Turno) era stata amata da Giove, che le aveva dato il dono dell’immortalità e il dominio sulle acque. Per questo era invocata nei periodi di siccità e le acque “salutifere” del suo lacus erano utilizzate per i sacrifici. La sorgente, che scaturiva ai piedi del Palatino, fu individuata dagli scavi di Giacomo Boni nel 1900. Più tardi, negli anni Ottanta del XX secolo, è stata oggetto di studio e ricerca da parte dell’Institutum Romanum Finlandiae.
Dalla Fonte di Giuturna proviene un gruppo marmoreo dei Dioscuri, conservato nell’Antiquarium forense. Il gruppo, costituito da due corpi virili nudi e due cavalli, fu trovato in pezzi nella vasca della Fonte e in seguito parzialmente ricomposto, come risulta evidente dall’attuale stato di conservazione. Probabilmente il gruppo era stato intenzionalmente distrutto e depositato nel bacino, insieme ad altre sculture eterogenee, in attesa di essere calcinato in una calcara.
Il gruppo, in stile arcaico, è databile tra la fine del II secolo a.C. e l’inizio del I secolo a.C., ma c’è chi ipotizza che possa trattarsi di un originale greco del V secolo a.C. e che facesse parte del frontone del tempio dei Castori, ristrutturato da Tiberio con una prassi di tipo antiquario, ovvero utilizzando sculture antiche.
Dalla stessa fonte proviene pure l’ara, del II secolo d.C., che riporta immagini legate alla loro leggenda, tra cui quelle di Leda e di Zeus, e una figura femminile con una fiaccola, da identificare probabilmente con Giuturna. Nella stessa area è stata ritrovata una statua di Apollo in marmo greco di stile arcaizzante (I-II secolo d.C.) e il puteale del pozzo della sorgente, sempre in marmo bianco.
Se ci spostiamo dal Foro romano sul Campidoglio, due statue colossali dei Dioscuri, collocate sulla balaustra della piazza capitolina progettata di Michelangelo, ci accolgono guardandoci dall’alto della scalinata di accesso.
Erano emerse in frammenti durante gli scavi per la costruzione del muro del Ghetto al tempo di Paolo IV, secondo quanto ci fa sapere Pirro Ligorio, o forse del successore Pio IV (secondo Flaminio Vacca). La data esatta della scoperta non ci è pervenuta, forse perché le statue furono ritrovate in due tempi, proprio a cavallo dei due pontificati. Date le dimensioni dei due personaggi, si pensò di provvedere a un accurato restauro (furono letteralmente ricostruite le parti mancanti) e a una sistemazione d’effetto. Il rinvenimento era avvenuto, probabilmente nel corso di un’inondazione del Tevere, in un sito dove all’epoca si riteneva fosse collocato il teatro di Pompeo, ed è per questo che sulle basi delle statue si legge:
“SPQR Simulacra Castorum ruderibus in theatro Pompei egestis reperta restituit et in Capitolio posuit”.
Pirro Ligorio, nel notare la forma particolare della sommità della testa dei due personaggi (col copricapo a forma di mezzo uovo), fu il primo a riconoscere nelle due sculture i gemelli divini, e ne propone l’identificazione con le statue che secondo Plinio erano collocate davanti al tempio di Giove Tonante.
L’iconografia è quella di due giovani nudi, che indossano la clamide affibbiata sulla spalla destra e ricadente dietro il dorso fino alle caviglie. Le due figure sono speculari: nel Dioscuro di destra il peso grava sulla gamba sinistra, mentre la gamba destra è leggermente piegata al ginocchio; nel Dioscuro di sinistra (al quale mancavano in buona parte le gambe) la gravitazione era invertita, e nella ricostruzione si è tenuto conto della posizione originaria. Gli arti superiori sono stati restaurati nell’atto di tenere con una mano le briglie dei cavalli e con l’altra una lancia o una spada, secondo una consueta iconografia.
La figura di destra è alta m 5,50 e poggia i piedi direttamente sul basamento. Quella di sinistra poggia invece su un plinto ed è perciò alta m 5,80: la sua testa è stata completamente rifatta alla fine del ‘500 riprendendo l’iconografia del Dioscuro di destra, ma in maniera libera con un volto più largo e una capigliatura più compatta. La lavorazione sul retro del mantello appare grossolana, perché evidentemente le statue erano concepite per essere viste davanti. I cavalli, con ampie ricostruzioni, sono stati collocati sul lato esterno dei due Dioscuri e con la testa rivolta dal lato opposto.
Il gruppo scultoreo doveva aver subito dei restauri già nell’antichità, come si vede da alcune giunture e puntelli per l’inserimento di perni. Riguardo alla datazione, Claudio Parisi Presicce, direttore dei Musei archeologici e storico-artistici del Comune di Roma, ritiene che siano degli inizi dell’età antonina, intorno al 145 d. C.
Decisamente più dinamiche ci appaiono le colossali statue dei Dioscuri di piazza del Quirinale, ognuna poggiante su un proprio basamento e raffigurata nell’atto di tenere per le briglie un cavallo imbizzarrito.
Le figure sono in nudità eroica, tranne che per la clamide ricadente su un braccio, hanno le gambe divaricate e presentano una vistosa torsione del tronco e del capo volto verso il cavallo. Particolarmente amate in epoca post-antica, tanto da connotare topograficamente il colle, le statue suscitavano molta curiosità per via dei nomi di Fidia e Prassitele incisi sulle basi: Opus Phidiae e Opus Praxitelis.
Si dovette arrivare a Francesco Petrarca per capire che i nomi non erano quelli dei due personaggi raffigurati, ma di due famosi scultori greci (il Prassitele cui si riferisce l’iscrizione è in realtà Prassitele il Vecchio, contemporaneo di Fidia), anche se non sono assolutamente attribuibili a loro, trattandosi di opere romane di probabile età severiana, a giudicare dal confronto con i Dioscuri raffigurati in sarcofagi di quel periodo (tra cui alcuni conservati nel Museo Nazionale Romano).
Si pensava nel Medioevo che i due eroi nudi raffigurassero dei domatori di cavalli, oppure, come risulta dai Mirabilia Urbis Romae del XII secolo, due filosofi, portatori della “nuda” verità (“et sì como erano nudi, così tutta la scientia de lo munno era aperta et nuda ad la mente loro”). Ancora prima, nel catalogo delle quattordici regioni di Roma (relativo alla topografia del IV secolo), il gruppo monumentale veniva indicato nell’ambito della VII Regio come Equus Tiridatis regis Armeniorum, ritenendo che si trattasse dei cavalli che Tiridate, re dell’Armenia, aveva inviato in dono all’imperatore Nerone.
Nel 1558 Onofrio Panvinio, nei Reipublicae Romanae Commentariorum libri tres sostiene che si tratti di una doppia rappresentazione di Alessandro Magno mentre doma il suo cavallo Bucefalo, mentre alla metà del XVII secolo nella Roma vetus ac recens, di Alessandro Donati, si dà per certa l’identificazione con i gemelli Castore e Polluce.
Sulla provenienza delle statue si ipotizzava una probabile provenienza dalle terme di Costantino o dai ruderi di Villa Colonna, che venivano indicati come quelli del tempio del Sole, di epoca severiana, attualmente ritenuto di Serapide o forse di Ercole e Dioniso.
Con la sistemazione della piazza del Quirinale per volere di Sisto V (II metà del XVI secolo), si ebbe una prima valorizzazione delle due statue, con un restauro reintegrativo delle parti mancanti e l’accostamento a una fontana, realizzata dall’architetto papale Domenico Fontana. In questo modo il complesso, oltre a creare un effetto scenografico, concorreva anche al rifornimento idrico di quella zona della città, grazie a un condotto dell’acqua Felice (che prende il nome da Sisto V, al secolo Felice Peretti) che vi arrivava. La piazza conservò questa iniziale impostazione fino a tutto il Settecento, finché sotto Pio VI si decise di arricchire il monumento con l’inserimento di un obelisco proveniente dal Mausoleo di Augusto. I due colossi vennero spostati in modo da avere i cavalli divergenti verso il Quirinale. Con Pio VII, infine, nel 1818 l’architetto Raffaele Stern realizzò l’attuale fontana, che vede una grande vasca antica, recuperata dal Campo Vaccino.
Nica FIORI Roma 29 agosto