I “Fuochi nella notte” di Paulette Du in mostra a Monterotondo. Erompe la Poster Art tra fumetti, b-movie e musica punk.

di Rita RANDOLFI

Quando incontri Paulette Du, aka Black Guitarra, all’anagrafe Daniela Petroni, non ti immagini che dietro la persona schiva, umile, che quasi si vergogna di parlare in pubblico, si nasconda una persona dall’animo punk-rock, una vera “guerriera”. 

Cantante e chitarrista del duo Motorama e della garage-punk band Plutonium Baby, cittadina dell’underground capitolino, viaggiatrice, sinologa, docente di lingue e cofondatrice del collettivo romano La Santissima Trinità con Simone Lucciola e Marco Funaro, ha iniziato con la poster-art quasi per caso:

«Ho scoperto che esisteva una forma d’arte che si chiamava poster-art solo dopo averla praticata per anni senza sapere cosa fosse»

ha dichiarato, l’artista-musicista che ha sempre curato l’aspetto visuale delle sue band, ideando i poster per i concerti, le copertine dei dischi, gli artwork per magliette, adesivi, borse e quant’altro.

Cheetahohcheetah
«Fare un poster è come scrivere una canzone. Brancoli nel buio a caccia un’idea, poi l’adrenalina comincia ad entrare in circolo quando metti una nota dopo l’altra o trovi una combinazione di colori che ti emoziona. L’effetto è in ogni caso terapeutico, una sorta di meditazione che disintossica i neuroni»

queste le parole di Paulette all’inaugurazione della personale Fuochi della notte che si è aperta sabato 25 marzo a Monterotondo presso la galleria della Grafica Campioli, in via Vincenzo Bellini 46, alla presenza del sindaco Riccardo Varone, dell’assessora alla cultura Marianna Valenti, delle presidenti dell’ICM e dell’UPE rispettivamente Antonella Avagnano e Caterina Manco.

Un successo di pubblico per una mostra che vede anche la partecipazione delle opere pop ispirate a Andy Warhol di Simone Lucciola e alle sculture visionarie di Davide Ranni.

L’esposizione era stata pensata per essere presentata nel 2020, ma il Covid ha bloccato tutto, fino a quando l’artista e la curatrice, Anna Chiara Anselmi, hanno ripreso, rimodulato e riproposto il progetto.

Il background che emerge è chiaramente quello del cut’n’paste, delle fanzine e della cultura D-I-Y, una fusione di flyer old school e surrealismo pop del nuovo millennio.

L’iconografia punk contamina tutto.

L’ispirazione arriva da più parti, ma in particolare dalla musica, e si fonde dentro a un immaginario fumettistico e da B-movie.

PosterArt californiana, cinema italiano degli anni Settanta, pittura cinese tradizionale, Crumb, Coop, Le Cosmicomiche di Calvino, Pazienza, Love & Rockets, i film splatter, le icone sacre si mescolano in scenari Sci-fi e Sexploitation, in universi paralleli. Le protagoniste assolute di queste immagini sono le donne,  disinibite, aggressive e armate di frustini, come in Mad Domina’s Whip, mangiatrici di zombie, prelevati da un teschio come in The Cannibals, (poster commissionato per un tour dell’omonima band di culto inglese)  (il cui sguardo è reso ancora più misterioso, perché nascosto da grandi occhiali scuri da sole non a caso a forma di gatto), dominatrici psichedeliche, con la chioma rigorosamente corvina, donne orgogliose della propria provocante femminilità, oppure apparentemente schiave dei desideri maschili, contro i quali ruggiscono uno stoogesiano I wanna be your dog , e si ribellano rivendicando  la propria libertà da certi cliché.

ValveNurse(realizzato per un concerto della storica band di californiana Redd Kross) è un’infermiera che offre lo chassis di un amplificatore valvolare le cui manopole servono a dosare i componenti indispensabili per suonare un buon rock’n’roll.

L’istinto femminile viene associato spesso agli animali, come i gatti o i ghepardi, dal passo felpato e dallo sguardo magnetico, (vedi Cheetah oh Cheetah, o Zen Voodoo Child) messo in rilievo nell’occhio da felino e al contempo divino di Evil Eye. Un mondo magico, seducente, misterioso, violento, talvolta sfuggente, ma che a tratti inchioda lo spettatore, costringendolo a riflettere. I messaggi sono forti, ma la gamma cromatica ridotta a pochi colori vivaci, acidi, fluo, contrastanti, talvolta anche solo al bianco nero e rosso, le linee nere ondulate che ricordano persino lo stile liberty, gli effetti barocchi bicromi a raggiera dietro alcuni personaggi incantano. Le tecniche utilizzate sono le più diverse: il disegno a mano e la tavoletta grafica, il collage, la fotografia, la stampa digitale e qualche volta la serigrafia.

«Mi piace contaminare sia musicalmente che visivamente. Uso la serigrafia, più spesso la stampa, perché meno dispendiosa e più veloce, disegno a mano, ma anche con la tavoletta grafica, utilizzo immagini e fotografie scattate il più delle volte da me, ma non necessariamente. Gioco sulle contraddizioni e accosto elementi discordanti. Decontestualizzo. Parto da linee pulite e nette, immagini patinate per poi sporcarle, grattarne via delle parti, invecchiarle, per farne emergere l’aspetto più grezzo, più malato o nascosto. Oppure uso immagini sgradevoli, volutamente brutte per rivelarne l’aspetto seducente, i caratteri invisibili. Mi diverto a far emergere quello che non si vede e che io credo di intra-vedere. Come scavare nell’intimo di qualcuno che ancora non conosci. Quando uso la tavoletta grafica, scatta la guerra al digitale. La sfida consiste nell’azzerarne l’artificialità con l’artificio. (…) Fingo di usare pennelli per avere un quadro dipinto. E combatto.. Lo combatto con le sue stesse armi. Pum! Pam! Pixel vi disintegro! Vi rendo invisibili! Bum! Splash! Effetto patinato ti insozzerò fino al midollo! Cik e ciak! Tratto perfetto ti tagliuzzerò in mille pezzi!».

Nonostante le contaminazioni, i riferimenti alla poster-art californiana del Fillmore, ai lavori dell’artista statunitense Coop, all’immaginario fumettistico e ai film di serie B, lo stile accattivante di Paulette Du emerge chiaramente e come dice la stessa artista: «Avere un proprio stile penso sia basilare. Io ho un difetto o una mancanza, non so come definirla, che però mi è sempre tornata utile per creare uno stile mio sia nella musica e che nei lavori visuali. Non sono brava a copiare. Non sono capace a riprodurre fedelmente un soggetto né a fare una cover. Ho la tendenza a trasformare, distorcere e a volte a stravolgere. Quello che percepiscono i miei occhi o le mie orecchie viene completamente inglobato e filtrato dal mio modo di vedere e sentire.È come se il mio organismo lo adattasse a me, contaminandolo con il mio modo di essere. Non è un’operazione intellettuale come potrebbe sembrare. Avviene quasi sempre in modo molto istintivo, quasi automatico. A volte no.  Non accade e allora provo un enorme disagio. A quel punto si prospettano due soluzioni: o costringo “l’opera” a farsi inglobare da me e ad assomigliarmi, oppure la abbandono, la ripudio, anzi potrei dire che il mio sistema immunitario la rigetta come corpo estraneo».

Dunque sempre l’istinto ha il sopravvento, quello stesso istinto che prova a scavare la superficie per giungere alle profondità dell’io, alla parte più oscura di ogni persona, quella zona d’ombra che ognuno di noi spesso fatica a comprendere, che genera ansie e che troppo spesso si condivide con gli altri sotto-forma di aggressività, determinata dalla paura di non essere compresi, apprezzati. Paulette, del resto si definisce “underground”, come la sua musica, esorcizza con l’arte le sue tensioni interiori, invitandoci a non nasconderci, a non fingere, a gettare via la maschera pirandelliana che indossiamo per gli altri, a liberarci della parte negativa di noi stessi, trasformandola in linee, immagini, colori. Una sorta di catarsi, che vede le protagoniste della sua fantasia, che tuttavia le somigliano molto nei tratti somatici e nella scelta di alcuni accessori, come gli occhiali, diventare le profetesse di un futuro con meno pregiudizi.  Guardando i poster-art della mostra difficilmente potrebbero collegarsi ad un temperamento pacifico come quello di Daniela, di cui Paulette rappresenta l’alter ego. L’artista stessa afferma che questo percorso è stato quanto meno faticoso, e soprattutto che è stato un viaggio nell’intimo, svolto in solitudine, come del resto il cognome Du rivela. Du in cinese, lingua amata e parlata da Daniela, significa proprio sola.

L’avanzare dal fondo verso lo spettatore dei ghepardi nell’opera Cheetah oh Cheetah diventa la metafora di questo viaggio dalle profondità della coscienza verso l’esterno.  E il gatto, per giunta nero, non solo ricorda i capelli neri di Daniela e delle sue donne dipinte, ma diventa il simbolo della solitudine e del mistero che l’artista stessa, ma anche ciascuno di noi è ed è destinato a rimanere.

Per la cronaca Paulette Du ha realizzato artwork per concerti di band come The Cannibals, The Redd Kross, Margaret Doll Rod and The Heartthrob Chassis, the Bellrays, Pandoras, Paul Collins, A Giant Dog.  Ha esposto le sue opere a Roma e in altre città italiane, e ha partecipato allo Psych Out festival di  Torino, al Basement Art & Street Culture di Jesi, all’IPRA Expò di Santa Croce sull’Arno.

La mostra, ad ingresso gratuito, resterà aperta fino all’8 aprile, dal martedì al sabato dalle ore 16-19

Rita RANDOLFI  Roma 2 Aprile 2023