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Dalma Frascarelli attualmente è docente dell’Accademia di Belle Arti di Roma, dove ricopre la carica di Vice Direttore e Membro del Consiglio Accademico. Si è laureata alla Sapienza Università di Roma con una tesi sugli affreschi sistini della Biblioteca Vaticana ed ha condotto numerosi studi sull’epoca e i personaggi della Controriforma; insieme con Laura Testa ha pubblicato La Casa dell’Eretico : Arte e Cultura Nella Quadreria Romana Di Pietro Gabrielli (1660-1734 ), un testo fondamentale sulla cultura eterodossa nell’epoca controriformista; collabora con numerose riviste scientifiche ed ha partecipato a convegni e conferenze come relatrice e come orgzanizzatrice; è autrice di vasti saggi sul tema del libertinismo, di cui l’ultimo L’Arte del Dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia dl Seicento, Einaudi, 2016, è oggetto della conversazione che segue.
–Da diverso tempo i tuoi interessi di studio e ricerca vertono sul tema del libertinismo in Italia come motivo ispiratore –se si può dire- di un’arte non omologata ed antiaccademica se non alternativa a quella ‘ufficiale’; perché hai ritenuto di doverci entrare così a fondo?
R: L’attenzione particolare nacque quando, alcuni anni fa, Laura Testa ed io ci imbattemmo –è proprio il caso di dire così- in una particolare figura di collezionista, l’unico a tutt’oggi identificabile come un esponente del libertinismo erudito, cioè monsignor Pietro Gabrielli, il quale subì un processo per “ateismo e propositioni empie, et hereticali”, di cui abbiamo rinvenuto e pubblicato gli atti e di cui abbiamo studiato il pensiero attraverso il ricco carteggio e la vastissima biblioteca, rendendoci conto di come la sua particolare collezione di dipinti riflettesse in effetti la sua ideologia.
-Però era l’ideologia di un autentico eretico, a quanto si capisce leggendo il vostro libro di allora.
R: Più che un eretico, monsignor Gabrielli era un miscredente che confutava la validità dei miracoli, negava l’esistenza del paradiso e dell’inferno e criticava la religione intesa come impostura per fini politici, secondo una visione tipica del libertinage. L’inquisizione spesso trattò strategicamente atei, libertini e eretici nello stesso modo, quasi per negare il pericoloso fenomeno, riassorbendolo tra le numerose eresie. Ma è evidente che mentre l’”empio” libertino rifiuta l’istituzione ecclesiastica, l’eretico è colui che intende fondarne, o ne assume un’altra non conforme a quella ortodossa. Inoltre, il libertino spesso ricorre al nicodemismo non solo e non tanto per difendere la propria incolumità fisica, quanto soprattutto per mantenere l’ordine sociale e lo statu quo.
–Quello dei libertini fu un vero movimento?
R: E’ impossibile definirlo così. Si trattò di un fenomeno culturale complesso e poliedrico che sfugge alle definizioni anche perché tra i temi principali che costituiscono il corpus ideologico del libertinismo è proprio quello della resistenza a qualsiasi opera di normalizzazione e quindi di catalogazione. Se vogliamo tuttavia dare una definizione direi che il libertino è colui che rivendica l’affrancamento dal dogma, dal principio di autorità e, più in generale, da modelli precostituiti, convenzionali e estranei alle leggi naturali, che impediscono l’uso della ragione e la formulazione di nuove teorie nei diversi campi del pensiero e dell’agire umano. Tutto ciò in chiave nicodemita, ovvero in ambito rigorosamente privato e quasi mai pubblico.
-Tu scrivi che il libertinismo rappresenta una sorta di passaggio tra il Rinascimento e l’Illuminismo; però mentre Rinascimento ed Illuminismo si formarono su basi storico-culturali-sociali molto solide e sviluppate, il libertinismo non sembra presentare caratteristiche altrettanto radicate, piuttosto potrebbe apparire come un movimento –se mi passi il termine- di nicchia.
R: Ho scritto che il libertinismo costituisce un ‘punto nodale’ tra i due periodi in quanto “annoda” i fili tra il pensiero laico rinascimentale e il pensiero laico illuminista; del resto questo è un dato perlopiù acquisito. Non lo sostengo io, ma numerosi e autorevoli studiosi; ti cito, in particolare, un’antologia curata da Alberto Beniscelli (Cfr Libertini italiani: letteratura e idee tra XVII e XVIII secolo, Milano, 2013) in cui vengono tracciate direttrici culturali che, passando per Paolo Sarpi, Giordano Bruno, Cesare Cremonini, Campanella, arrivano fino a Giannone, Vincenzo Monti, Leopardi; dunque, non mi pare si possa parlare di direttrici marginali della cultura italiana.
Nel 2012 Michele Ciliberto ha pubblicato un altro importante volume (Cfr Biblioteca laica. Il pensiero libero nell’Italia moderna, Bari-Roma, 2012) che parte ancora da più lontano, cioè dal pensiero filosofico di Leon Battista Alberti e che attraverso Machiavelli, Bruno e Galilei, arriva fino a Vico, Spaventa, Leopardi, Cattaneo, Cavour …
-E’ questo che ti porta ad affermare che per quanto concerne le arti in questo periodo storico i termini barocco e classicismo non sono esaustivi?
R: Dico che i due termini hanno finito per illustrare prevalentemente l’aspetto stilistico-formale della produzione artistica del XVII secolo. Già Oreste Ferrari in un importante saggio intitolato Le nuove vie degli studi sul Seicento (Cfr “Storia dell’Arte”, n. 1, 1969) respingeva l’uso dei termini “barocco” e “classicismo” nella loro esclusiva accezione formale, perché giudicato inadeguato per studiare un secolo complesso come il Seicento. Purtroppo, nell’ambito della storia dell’arte vige ancora una visione piuttosto monolitica del XVII secolo all’interno della quale all’”irregolarità” del barocco, legata al trionfalismo controriformistico della Chiesa, si oppone il richiamo all’ordine e alla regola proposto da un classicismo identificato nel vagheggiamento di un bello ideale, vissuto come rifugio intellettuale. Ma una simile lettura trascura il fatto che il Seicento è molto di più e di altro; è il secolo di Galileo, di Gassendi, di Spinoza, di Cartesio, di Pascal, dell’atomismo, del meccanicismo, della rivoluzione scientifica e dunque continuare a raccontare una storia dell’arte impermeabile a queste straordinarie novità mi sembra limitativo.
–Dunque se vogliamo il tuo libro è anche una sorta di appello a prendere coscienza di una realtà effettivamente fino ad oggi certo oggetto di studi ma non ancora del tutto assimilata. E’ così? Ma così non rischi di farti classificare come ‘quella dei libertini’ ?
R: Pubblicare un volume con Einaudi, nella collana PBE, offre una visibilità che di certo può facilitare l’identificazione dell’autore con la materia di studio affrontata, soprattutto quando questa è davvero inedita.
Il mio libro costituisce un tentativo – lo definirei così – un tentativo di aprire nuovi percorsi di ricerca e quindi non vanta alcuna pretesa di esaustività; inoltre voglio chiarire, per non rischiare di apparire ‘quella dei libertini’, come dici tu, che innanzitutto non vedo affatto libertini per ogni dove e soprattutto che sono approdata a questi studi dopo un lungo percorso dentro la storia dell’arte. Tra gli argomenti che ho trattato c’è sicuramente il collezionismo (ricordo il volume Paolo Falconieri tra scienza e arcadia, Roma 2012, oltre a La casa dell’eretico, Roma 2005, scritto con Laura Testa e a diversi saggi). Mi sono poi occupata a lungo del rapporto tra arte e Controriforma dedicandomi, in particolare, allo studio della committenza artistica dell’ordine dei Teatini, uno tra i più austeri ed intransigenti nell’ambito della Controriforma. Pensa che nel Seicento quando si voleva dare del bigotto a qualcuno, lo si definiva “teatino”! Ho scritto dei testi sulla lettura iconografica di alcuni dipinti di Caravaggio in chiave controriformata (uno dei quali è attualmente in corso di stampa). Particolare attenzione ho riservato, inoltre, alla figura di Sisto V e agli importanti cicli di affreschi da lui commissionati, come quelli che decorano la Biblioteca Apostolica Vaticana alla quale ho dedicato un lungo saggio in un volume scritto con Alessandro Zuccari, Paolo Vian, Ambrogio Piazzoni e Antonio Manfredi. Sisto V fu un terribile inquisitore che, da cardinale, il 18 marzo del 1559 fece bruciare circa dodicimila libri a Venezia, in piazza san Marco, mentre, da pontefice, promulgò l’Indice dei libri proibiti più severo della storia della Chiesa! Dovrei essere, dunque, “quella dei libertini”, ma allo stesso tempo, anche “quella del papa tosto”, come era chiamato Sisto V. Un po’ difficile da sostenere in riferimento ad una stessa persona, non ti pare?
-Sul mondo dei libertini è’ probabile che abbia avuto un peso determinante il giudizio di Croce che, oltre a condannare senza appello il barocco, com’è noto, riteneva che il libertinismo fosse un fenomeno esclusivamente francese; tant’è che se non ricordo male attaccò frontalmente Giorgio Spini quando questi avanzò tesi differenti.
R: Hai ragione e, infatti, inizio il mio libro proprio ricordando la stroncatura del celebre testo di Spini fatta da Croce. Ma oggi le cose sono cambiate, anche perché si sono aperti molti archivi ed è stato possibile considerare anche le librerie di intellettuali e collezionisti. Ricordo che quando con Laura Testa eravamo impegnate a studiare la quadreria Gabrielli, ci dedicammo per mesi ad analizzare la sua ricchissima biblioteca, mentre in quel momento – sto parlando degli anni Novanta – gli inventari dei libri molto spesso venivano trascurati nell’ambito degli studi storico-artistici, raramente si trascrivevano, e si dava spazio quasi esclusivamente agli inventari di dipinti e sculture.
-Considerando la tua formazione universitaria di tipo tradizionale, diciamo così -nel senso che sei stata allieva di Calvesi, hai frequentato Luigi Spezzaferro e così via- vorrei sapere come è nata questa passione fino a organizzare e promuovere convegni e pubblicazioni? Che tipo di molla è scattata?
R: Si è trattato senza dubbio di una questione di metodo di studio; giustamente tu hai citato Calvesi che per capire la pittura di Caravaggio –su cui ha scritto com’è noto pagine determinanti per tutti- ha esteso i suoi studi al catechismo tridentino, alla cultura borromaica e filippina, ai rapporti tra le corone di Spagna e Francia, contestualizzando sempre il fenomeno artistico all’interno di un quadro storico e culturale ampio. Il rigore nella ricerca e nell’adeguata utilizzazione dei documenti, tipico degli studi di Spezzaferro, è stato senz’altro un altro importante termine di riferimento, soprattutto nell’ambito delle ricerche sul collezionismo. Si è trattato per me di lezioni fondamentali di metodologia di studio; e ho iniziato a guardare alla produzione artistica del Seicento secondo un simile approccio metodologico.
-Pietro Testa, il Grechetto, Caroselli, Mola, Salvator Rosa, Andrea de Lione, Poussin: questi artisti seicenteschi che in qualche modo rientrerebbero, chi più chi meno, in questo ambito del libertinismo o quanto meno di una mentalità eccentrica, anticonvenzionale, però curiosamente hanno una produzione artistica molto differente gli uni con gli altri. Come si spiega?
R: Proprio questa tua osservazione ci dimostra quanto sia necessario ormai uscire dagli steccati rigidi di un’analisi prettamente stilistica e formale, perché è vero che i linguaggi sono assai differenti gli uni dagli altri ma dobbiamo andare ad analizzare anche i temi, i generi che spesso sono comuni e legati a determinati orientamenti culturali praticati dalla committenza.
-Luigi Salerno parlava di “pittori del dissenso” …
R: Una definizione che oggi andrebbe aggiornata in una più corretta “pittura del dissenso”, perché non sappiamo quanto gli atteggiamenti anticonformistici che le fonti documentano in relazione a questi artisti non celassero in realtà il tentativo di emergere in un mercato dell’arte che nel Seicento diventa particolarmente competitivo e quindi quanto non fossero legati alla necessità di autopromozione. Pensiamo, per fare un esempio, ad un pittore come Theodor Helmbreker, di cui mi sono occupata, noto prevalentemente come autore di bambocciate, di mercati. Tuttavia, l’Helmbreker cercò anche di ottenere committenze per storie sacre, cosa che avvenne a Napoli dove lavorò per i gesuiti; cosa voglio dire? Che gli artisti mettevano a punto diversi linguaggi in grado di rispondere alle molteplici e variegate richieste del mercato.
–Quello che mi colpisce è che in un passo del tuo volume accomuni Grechetto, Poussin e Guercino nelle “riflessioni eterodosse sulla morte” circa il tema di “et in Arcadia ego”; in realtà è noto che Guercino ogni mattina assisteva alla messa, alle adunate della Compagnia della Bella Morte e ai suoi allievi, come dice Malvasia, raccomandava la decenza in pittura; ecco, è difficile inserirlo tra gli eterodossi …
R: Nel mio volume dedico un capitolo al tema dell’Arcadia e all’Accademia omonima. Per quanto riguarda Guercino non affermo affatto che si tratti di un pittore eterodosso, mi limito a proporre una nuova lettura iconografica del suo celebre dipinto che si discosta dalla considerazione dell’opera come vanitas o memento mori di stampo cristiano. In realtà, già Tapié aveva suggerito una chiave interpretativa laica, rilevando l’assenza del timore e, dunque, di un’esortazione alla penitenza. Nell’inedita iconografia sembra riflettersi una visione epicurea, tipica dell’Arcadia, e che caratterizza il De rerum natura di Lucrezio dove la morte è vissuta come una continua trasformazione della materia.
Gli animali saprofagi presenti nel dipinto, ma anche e soprattutto l’acqua che, a quanto mi risulta, nessuno ha notato sotto al teschio e nel ruscello sullo sfondo, alluderebbero al continuo fluire della vita, al perenne divenire cui sono sottoposte la natura e la storia. Questi temi sono centrali nella speculazione filosofica di Cesare Cremonini, famoso professore dello studio patavino, che sosteneva la mortalità dell’anima e professava un protomaterialismo di stampo aristotelico-averroista, suscitando le ire dell’Inquisizione che lo perseguitò a partire dal processo del 1598, fino alla morte avvenuta nel 1631.
-D’accordo, ma Guercino come ci entrerebbe?
R: In una commedia pastorale di Cremonini, Le pompe funebri, e nella celebre prolusione pronunciata nel momento dell’insediamento nell’università di Padova, è possibile riscontrare stringenti affinità con i contenuti del dipinto del giovane Guercino che certamente conosceva molto bene il Cremonini e la sua fama fin dall’infanzia, poiché aveva frequentato la famiglia dei pittori centesi dalla quale il filosofo proveniva. Cesare, infatti, era nato a Cento, patria del Barbieri, da Mattia un noto pittore locale. Inoltre, secondo alcune fonti coeve, Guercino, durante gli anni della formazione bolognese, avrebbe frequentato la bottega del fratello di Cesare, Giovan Battista Cremonini, morto a bologna nel 1610. Come vedi, senza negare l’ortodossia praticata dal Guercino, è possibile individuare, con un ampio margine di probabilità, la conoscenza da parte del pittore di temi e contenuti che, a mio avviso, alimentano il soggetto di una delle sue tele più famose, documentata per la prima volta nella collezione di Antonio Barberini e, dunque, all’interno di un ambiente in cui, come ha scritto René Pintard nel suo celebre volume dedicato al libertinismo erudito, erano di casa personaggi quali Naudé, Tommaso Campanella, Bouchard, Gassendi, Peiresc, Scipione di Grammont fino a quell’abate Antonio Oliva (sul quale rimando agli studi di Ugo Baldini) teologo dei Barberini, ma più tardi ideologo della libertina Accademia dei Bianchi. Ci tengo a ribadire ancora una volta che, nell’analisi dei soggetti, il ruolo giocato da chi si teneva i quadri in casa è sempre molto importante, anche rispetto a quello giocato dai pittori stessi.
-Ed in effetti, un’altra cosa che trovo strana è che i circoli dei libertini siano un ritrovo di committenti ma non di artisti; come lo spieghi?
R: Al momento, le conoscenze che abbiamo sulla affiliazione certa di pittori a circoli eterodossi e anticonformisti sono scarsissime, ma è anche vero che di questi circoli in realtà sappiamo in generale molto, molto poco. Nel libro ne cito alcuni: il caso più eclatante è quello dell’Accademia dei Bianchi, ma ne esistevano molti altri, tra i quali non si possono dimenticare “le adunanze” promosse da Cristina di Svezia (su cui comunque esiste una vera letteratura) e la stessa Accademia dell’Arcadia, lontana dall’essere una frivola accolita di pastorelli e pastorelle. E’ certamente difficile poter individuare l’appartenenza di pittori a consessi che coltivavano curiosità anticonvenzionali e poi, seppure la trovassimo, non sapremmo mai fino a che punto non fosse un’occasione per intercettare committenze, piuttosto che un’autentica e convinta adesione. D’altro canto, come ho già detto, è importante considerare soprattutto le curiosità e gli interessi culturali della committenza che certamente orienta la scelta di iconografie e soggetti da parte dei pittori, perfino, entro certa misura, nella produzione di quadri destinati al mercato e non eseguiti su commissione.
–E i famosi ‘bentvueghels’ ? non c’entrano nulla con questi circoli eterodossi?
R: I Bentvueghels costituiscono un fenomeno particolare. Abbiamo varie e precise testimonianze circa la natura dei loro incontri, il loro stile di vita, e tali conoscenze ci consentono di collegarli ad una tradizione oltremontana preesistente, risalente addirittura al medioevo, ai ‘goliardi vagantes’. La documentazione di cui disponiamo sui loro riti di affiliazione, sui loro incontri, ci parla di una caustica derisione di alcuni rituali religiosi, tra i quali quello dell’eucarestia o del battesimo, che li proietta decisamente all’interno di un ambito irreligioso, anticonformista ed eterodosso. Comunque, anche in questo caso, non possiamo escludere completamente il desiderio di far parlare di sé, di imporsi sulla scena anche provocatoriamente; non dimentichiamo che Roma allora era “il teatro del mondo” che richiamava artisti da ogni parte e sicuramente scontava un surplus di offerta artistica che rendeva davvero difficile conquistare il mercato. Questa considerazione va senz’altro fatta.
-Un capitolo che mi pare di particolare interesse è quello che riguarda l’amore il sesso e il piacere, dove mi pare che tu rilegga gli affreschi carracceschi della Galleria Farnese.
R: In verità, non rileggo affatto il celebre ciclo, ma mi limito a riportare l’interpretazione di una studiosa, Silvia Ginsburg, che, in riferimento all’occasione nuziale tra Ranuccio Farnese e Margherita Aldobrandini, ha individuato negli affreschi della Galleria la celebrazione dell’amore, come augurio di felicità fondata sull’armonia tra amore naturale e amore spirituale, sulla quale si basa la riuscita di ogni matrimonio.
Questo tema è stato trattato anche da altri studiosi, tra cui Stefano Colonna che ha interpretato le 4 scene che illustrano la tenzone tra Eros e Anteros, non come la vittoria dell’amore spirituale su quello sensuale, come sostenuto da Bellori, ma piuttosto come amore corrisposto, riprendendo il significato originario con il quale le due figure compaiono nel mondo classico. Ma, per tornare alla tua domanda, per me questi affreschi, che non hanno nulla a che vedere con il libertinismo, sono la testimonianza del fatto che il tema erotico, contrariamente a quanto si è soliti pensare oggi, non costituì certamente l’aspetto più connotativo di quel fenomeno culturale, ma riguardò, più in generale, l’arte dell’intero secolo e le complesse problematiche relative al diritto al piacere e alla libertà sessuale, avvertite e vissute a diversi livelli di pensiero, certamente non tutte rapportabili al libertinage.
-Nel tuo libro mi pare che un’importanza particolare sia data alla vicenda dei Filosofi antichi, al loro suicidio o comunque alla loro morte che sembra essere ispirata dai temi dello stoicismo; in effetti scrivi –cito- “la morte dei saggi è proposta come esemplare non solo quando è scelta volontariamente ma anche quando è causata dalla mano ingiusta dei potenti”; mi pare un’affermazione piena di conseguenze; puoi spiegarla meglio?
R: Volentieri. Effettivamente il capitolo dedicato alla rappresentazione dei filosofi è centrale, perché se il tema dell’eros non è così distintivo del libertinismo, quello legato alla rivendicazione della libertas philosophandi lo è assolutamente. Partiamo dalla considerazione che il Seicento è il secolo in cui i filosofi sono stati maggiormente perseguitati e censurati. Si tratta di una verità storica, basata su fatti, potremmo dire, statistici e numerici. Nel ‘600 la filosofia intende riappropriarsi del compito di formulare modelli di comportamento che gli era stato sottratto dal cristianesimo. La filosofia si ribella all’assunto che la vuole ‘ancilla theologiae’ e aspira a svolgere nuovamente la funzione che aveva esercitato nel mondo classico, ovvero quella di interpretare i fenomeni e i comportamenti, distinguere tra di essi, proporre soluzioni e stili di vita. Per questo evidentemente subisce così gravi restrizioni ed attacchi. Eppure, ciò nonostante, è proprio in questo momento che troviamo nella pittura una straordinaria affermazione e diffusione della rappresentazione dei filosofi. Tale constatazione dovrebbe indurre a farci qualche domanda, non ti pare?
-Ecco, quali domande ci dobbiamo porre?
R: La prima consiste nel chiedersi quali filosofi fossero più frequentemente rappresentati. Già Oreste Ferrari nel suo studio sull’iconografia dei filosofi antichi, che resta una pietra miliare, rilevava l’assoluta rarità della rappresentazione di Aristotele e Platone nel Seicento, contrariamente a quanto avviene nei confronti dei presocratici, di Democrito, di Eraclito, di Diogene, di Seneca. A mio avviso il perché è evidente e va cercato nella crisi che in questo secolo interessa il sistema tomistico-aristotelico da un lato e, in misura minore, il platonismo dall’altro, mentre acquistano una nuova affermazione l’atomismo, l’epicureismo, lo stoicismo. Non è, dunque, un caso che i filosofi più rappresentati in arte siano collegabili a questi indirizzi filosofici.
-Il tema del suicidio dunque andrebbe interpretato sotto questo punto di vista?
R: Anche in questo caso è necessario fare uno sforzo di analisi in più. Sappiamo che il suicidio è il peccato più condannato da parte della chiesa eppure nella pittura del Seicento questa rappresentazione sembra essere stata ‘sdoganata’, perché? Mentre Aristotele condannava il suicidio ritenendolo un delitto non solo contro se stessi ma anche contro la natura, la divinità e la collettività, per Seneca poteva diventare l’atto estremo, ma coerente di una vita saggia, vissuta all’insegna del rispetto, della conoscenza e dell’esercizio della virtù. Mi sembra abbastanza evidente che il suicidio dei filosofi rappresentato nella pittura del Seicento vada rapportato alla contemporanea affermazione di alcune correnti filosofiche del tempo, come il neostoicismo, ma anche una nuova forma di scetticismo. Non a caso tra i primi moderni a discutere sulla legittimità del suicidio è Montaigne.
-La tesi di Seneca sembra quasi riecheggiare lo Jacopo Ortis …
R: Si tratta di un esempio di ciò di cui abbiamo parlato prima. Siamo di fronte ad una delle direttrici culturali italiane che studiosi come Beniscelli e Ciliberto hanno ricostruito.
-Un altro nome moderno che può venire in mente è quello di Vittorio Alfieri che com’è noto si spinge fino a teorizzare l’omicidio politico contro il tiranno; anzi mi verrebbe da chiederti se sulla base di certi motivi concettuali presenti nella direttrice culturale che hai descritto non possa essere nato nel corso del Seicento anche uno stimolo ribellistico anti tirannico, magari per alcuni anti papale.
R: No, non posso spingermi fino a questo punto; si tratta peraltro di eventi sui quali hanno più propriamente indagato gli storici. Sono noti dei complotti e tentativi di uccidere pontefici; ma questo non è il mio campo d’indagine e quindi parlarne sarebbe una forzatura. Quello che posso aggiungere è che quando venivano mandati al patibolo intellettuali accusati di eterodossia o miscredenza, le cronache del tempo tramandano che simili intellettuali morivano ‘da filosofi’. Nel mio libro cito l’esempio di Giulio Cesare Vanini che, giustiziato nel 1619, veniva descritto da un cronista dell’epoca come un uomo “che dava l’impressione di morire fermamente da filosofo, come egli stesso diceva”. Insomma, mi sembra quanto mai significativo il fatto che la filosofia venga abbinata al modo stesso di affrontare la morte per aver sostenuto idee contrarie a quelle religiose.
-Tra le tesi più importanti che sostieni c’è quella secondo cui i testi artistici concernenti filosofi non debbono essere letti in chiave cristiana, come pure molti studiosi hanno sostenuto ed ancora sostengono.
R: Esattamente; la mia è una lettura che, alla luce degli studi storici, intende riportare l’analisi di simili iconografie in ambito filosofico, perché questo mi pare sia quello che avviene nel corso del Seicento, ed ovviamente la chiesa reagisce, intravedendo un pericolo di eversione. Per questo interviene tentando di “cristianizzare” il pensiero atomistico e protomaterialista di Democrito o quello di altri filosofi antichi come ad esempio Diogene, l’esponente più radicale del cinismo, colui che ha contestato ogni verità, che ha combattuto contro ogni convenzione ed ordine sociale, che è vissuto seminudo possedendo solo una ciotola per bere che ha gettato via quando ha visto un
bambino bere dal palmo della mano; ebbene è difficile pensare che la sua idea di vita secondo natura possa trovare la sua realizzazione all’interno dell’istituzione cattolica. Certo, la Chiesa ha cercato di orientare in tal senso il successo di questi sistemi filosofici pagani. Si spiega in tal modo la pubblicazione di volumi come il Democrito cristiano o l’Eraclito cristiano, ma non dobbiamo dimenticare che lo stesso Giusto Lipsio, uno dei principali esponenti del neostoicismo, come Gassendi del neoepicureismo, si sono battuti per una lettura originaria delle fonti filosofiche antiche, purificata dalle sovrapposte interpretazioni religiose. E d’altro canto, è facile immaginare che, da parte loro, i filosofi secenteschi tentino di trovare accordi con i dogmi cristiani che, in realtà, spesso si rivelavano impossibili. Pensa a Galilei e alla teoria delle due verità espressa nella celebre lettera indirizzata a Maria Cristina di Lorena…
-Qui però devo farti una precisa domanda; ammettiamo che questo sia vero …
R: No, scusa t’interrompo perché non è che dobbiamo ammettere che … perché ciò che ho detto è accertato, è storia, mentre invece quello che dobbiamo stabilire è quali ricadute tutto ciò abbia avuto nella produzione artistica.
-Allora cambio espressione, e ti chiedo visto che sono cose accertate storicamente, per quale motivo fino a non molti anni fa il libertinismo era considerato un fenomeno solo francese? Del ruolo frenante di Croce abbiamo fatto cenno poc’anzi, ma resta curioso che un tema così ampio come dici che fosse si ritenesse estraneo alla nostra cultura.
R: In effetti molto è cambiato da quando Croce recensì negativamente la Ricerca sui libertini italiani di Giorgio Spini, che invece si è rivelato un testo fondamentale che ha aperto la strada a questo tipo di ricerche; possiamo dire oggi che Spini ha avuto ragione e con lui Tullio Gregory, Lorenzo Bianchi e molti altri studiosi tra i quali voglio citare anche Luca Addante che da anni indaga sulla presenza di circoli libertini in Italia già nel XVI secolo. Per rendersi conto dello stato dell’arte sul libertinismo, anche italiano, basta scorrere la straordinaria bibliografia, costantemente aggiornata, pubblicata on-line in Les Dossiers du Grihl a cura di Jean Pierre Cavaillé, uno dei maggiori studiosi del libertinage europeo.
-Dove si può dire che il libertinismo abbia attecchito maggiormente in Italia ?
R: Giorgio Spini ha tracciato una geografia del libertinismo italiano che interessa città come Venezia, Padova, Firenze, Pisa, Roma, Napoli ma che oggi si è ampliata comprendendo anche altri centri come Genova e Milano. In questi luoghi è possibile individuare tracce di un pensiero che critica la religione, intesa come impostura a scopo politico, e che, in vario modo, tende a integrare la divinità nel concetto stesso di natura.
–Questo concetto di Natura, quando si parla di espressioni artistiche richiama immediatamente alla mente un nome tanto amato quanto abusato, quello di Caravaggio …
R: Che però non c’entra proprio niente, perché la pittura caravaggesca ha una matrice culturale precisa ben individuata ed analizzata da Calvesi e dagli approfondimenti di Alessandro Zuccari, radicata nel pensiero controriformistico, in particolare in quello borromaico e oratoriano, cioè un filone rigorosamente ortodosso. Mi è difficile pensare che quel tipo di produzione artistica che conosciamo come ‘bambocciate’, che rappresenta ubriachi che urinano sulle rovine antiche, o che si spidocchiano, sia una derivazione tematica dall’opera di Caravaggio; quando mail il maestro lombardo è arrivato a questi eccessi? Senza contare che nella sua arte non si scorgono quelle motivazioni laiche che invece alimentano la bambocciata, dove non c’è traccia alcuna di una divina provvidenza in grado di guidare i destini dell’uomo; mi sembra di poter dire che qui siamo di fronte ad una visione in fondo protomaterialistica che nulla ha a che vedere con il pauperismo apostolico che invece sta dietro l’opera di Caravaggio. A questo proposito mi piace ricordare le parole di Maurizio Marini che in più occasioni ha sottolineato le “implicazioni simboliche nella pittura del Caravaggio, a dispetto degli assertori dell’assoluto naturalismo e, peggio, della totale laicità della sua pittura”.
-A questo punto però ti devo chiedere di chiarirmi un passaggio del tuo libro che effettivamente mi è sembrato eccessivo. Parlando infatti dell’indigenza nel ‘600 proponi una lettura del ‘povero’ quasi come un libertino che –cito- “respinge le limitazioni imposte dalla Chiesa e dal potere politico attraverso il dogma o la ragion di stato, per uno stile di vita tutto naturale“. Non ti sembra esagerato credere che un poveraccio senza arte né parte immerso nelle questioni della quotidianità potesse entrare in logiche che non fossero quelle della mera sopravvivenza?
R: Nella tua domanda i piani tra povertà reale e quella rappresentata nelle arti risultano confusi. Un conto è parlare del complesso fenomeno sociale che riguarda l’indigenza nel XVII secolo, e un conto è parlare del ruolo che nella pittura, nella letteratura e nel teatro è affidato al povero. Nelle “bambocciate”, così come nelle commedie e nella letteratura, il povero, seguendo modelli classici, ad esempio Luciano, sembra essere rappresentato come uno che, lungi dall’essere colui al quale spetta il regno dei cieli, è spesso un irriverente, si dà facilmente al vagabondaggio e infrange le convenzioni sociali, assumendo un comportamento che in qualche modo ha il suo modello nella natura. Occorre risalire al Momo di Leon Battista Alberti per trovare un’apologia del vagabondo che gira stracciato, che non si cura neppure dei vestiti, che non corre dietro alle cose che complicano l’esistenza e che quindi si rivela un vero sapiente. Ma, per l’appunto, siamo nell’ambito della letteratura…
–Una specie di Pitocco, un Lazarillo de Tormes ante litteram, insomma?
R: O un Margutte del Pulci. D’altro canto, occorre leggere quello che sui poveri scriveva Giambattista Scanarolo nel De visitatione carceratorum nel 1675 o Carlo Bartolomeo Piazza, secondo il quale gli accattoni e i mendicanti, definiti significativamente “libertini”, attraverso il loro modo di vivere “come amanti di libertà scioperata”, si sottraggono al “freno delle Leggi de’ Principi e della Cristiana Disciplina”. In alcuni ambienti cattolici romani si diffuse una concezione morale radicalmente negativa del povero, inteso come sovvertitore dell’ordine sociale, mentre si individuava nella vita dissoluta e nel vizio l’origine della povertà. Insomma, oggi non si può più pensare che la sola lettura de La povertà contenta di Daniello Bartoli, ci spieghi la bambocciata…
–Sembra una critica al metodo degli storici dell’arte…
R: Non è una critica, piuttosto un invito, un invito a porsi delle domande per rispondere alle quali non sempre è sufficiente la sola conoscenza dei fatti artistici; non è raro, al contrario, che di fronte a testi figurativi sia necessario frequentare ambiti collegati alla filosofia, alla letteratura, all’economia, alla scienza per trovare risposte adeguate. La storia dell’arte tradizionalmente s’interroga sulla ‘maniera’, sulla forma, sullo stile; personalmente sono felicissima quando si riesce ad attribuire un dipinto, a stabilirne la paternità, ma questo non basta. I temi, i soggetti, spesso sono trascurati; noi storici dell’arte dobbiamo sforzarci di guardare oltre il nostro campo d’azione, altrimenti si corre il rischio di diventare autoreferenziali e ripetere presunte verità scontate che –come nel caso del tema della povertà rappresentato in pittura- non danno l’esatta interpretazione dei fenomeni.
-Possiamo dire insomma che il tuo libro sull’arte del dissenso si propone anche di favorire un cambiamento di mentalità?
R: In realtà, mi sono limitata, come ho detto prima, ad usare un metodo di indagine che ho imparato da altri illustri studiosi e che, per citare le parole di Maurizio Calvesi scritte nella prefazione a La casa dell’eretico, il libro di Laura Testa e mio, vede la storia dell’arte “non come storia interna all’arte, ma come evento globale” a cui, potrei aggiungere, certamente non può essere estranea la storia delle idee. Un metodo che credo sia straordinariamente efficace se utilizzato per capire un secolo complesso come il Seicento che, sotto alcuni aspetti, apre le porte alla modernità.
-A proposito di modernità mi pare che un personaggio che sotto questo aspetto ti abbia particolarmente colpito –oltre che per la tragica sorte che subì- sia stato Ferrante Pallavicino; è così?
R: Sicuramente! Si tratta di una grande personalità, membro della Accademia degli Incogniti a cui Giovan Francesco Loredan –che ne era stato il fondatore- aveva rivolto un monito funesto e presago: “la satira muove il riso de gl’ascoltanti: ma fa piangere per l’ordinario gli autori”. Ed effettivamente i caustici libri di Pallavicino, e in particolare Il Divorzio celeste, un testo di straordinaria carica eversiva, inimmaginabile per quei tempi, gli costarono la vita. In realtà, se la sua satira non si fosse risolta in accuse politiche e fosse rimasta solo su un piano ideologico, probabilmente sarebbe stata digerita. Ma l’attacco diretto sferrato contro il papato di Urbano VIII fu la causa della condanna a morte. Quando l’obiettivo diventa di natura politica, scatta la rappresaglia.
-Prima abbiamo fatto cenno al tema del suicidio dei filosofi antichi, ma anche artisti contemporanei vi ricorsero, pensiamo a Borromini, a Pietro Testa.
R: Borromini viene incluso da Luigi Salerno nella cerchia di coloro che aderirono al neostoicismo ed il suo suicidio è stato letto entro questa ottica, cui peraltro sembrerebbe collegarsi anche una psiche particolare, un carattere saturnino. Comunque, non me ne sono occupata anche perchè ho ristretto il campo d’indagine alla sola pittura. Diverso il caso di Testa che nei suoi dipinti affrontò spesso la tematica animalista che in ambito libertino ebbe molto successo. Pietro Gabrielli era solito riunire la sua Accademia in una stanza del Palazzo di Montegiordano interamente decorata da Rosa da Tivoli con grandi tele raffiguranti mucche, greggi, cani.
Sappiamo che nel corso del processo che lo vide imputato come “empio”, sostenne che gli animali hanno intelligenza ed anima, e si difese invocando l’Ecclesiaste.
-Ne hai trattato ampiamente nel libro scritto con Laura Testa in effetti
R: Sì, sono tematiche che m’incuriosiscono ancora e che ho approfondito nel mio ultimo libro, di fronte alle quali torno a ripetere che un corretto metodo di studio è quello di non precludersi ad altri campi di ricerca, di non partire con idee precostituite. Al contrario bisogna che le idee possano scaturire dagli elementi che man mano ci si pongono davanti, così da riuscire a mettere in fila i fatti, tentandone un’interpretazione.
-Prima di chiudere questa conversazione, vorrei che dicessi ai nostri lettori quali sono i prossimi impegni in cantiere.
R: Non vorrei deludere te e il lettori di About Art, ma ti confesso che al momento sono in “stand by” nel senso che ogni volta che termino un libro mi concedo un periodo di decantazione, anche piuttosto esteso nel tempo, in attesa che mi vengano incontro altri argomenti a sollecitare la mia curiosità; naturalmente restano gli impegni didattici in Accademia, la partecipazione a convegni e le conferenze, ma al momento non posso indicare una prospettiva precisa; diciamo che sto ancora “smaltendo” la fatica e il piacere di aver scritto quest’ultimo volume.
P d L Roma marzo 2019