di Laura TESTA
In cima al piccolo borgo di Giove, arroccato sulla collina, svetta l’imponente mole dell’antico castello, recentemente restituito a nuova vita da un accurato restauro (fig. 1B).
Dopo decenni di degrado e abbandono, aggravati dagli effetti devastanti del terremoto del 2016, gli attuali proprietari, i quali hanno rilevato all’asta l’imponente edificio alla fine del 2014, hanno promosso in collaborazione con la Soprintendenza dell’Umbria, l’Ufficio Ricostruzione e il Comune di Giove, ingenti lavori di ristrutturazione che si sono conclusi agli inizi di quest’anno.[1] Rifacimenti di muri, di solai, di pavimentazioni, di porte e finestre, rispettosi del contesto storico architettonico del bene hanno reso nuovamente fruibile la monumentale struttura. Dopo un cantiere durato alcuni anni, il restauro ha ristabilito l’equilibrio visivo di una porzione di paesaggio umbro fortemente storicizzata, già fissata nel 1601 dalla topografica raffigurazione del quadro del fiammingo Paul Bril, oggi a Palazzo Barberini (inv. 1980, fig. 1).
L’antica rocca, le cui prime tracce risalgono al XII secolo, sorse con scopi difensivi probabilmente sulle rovine di un tempio dedicato a Giove Elicius. Nel medioevo fu a lungo contesa tra guelfi e ghibellini, nel Rinascimento divenne oggetto di lotte feroci tra condottieri di varie famiglie patrizie e il papato, fino a quando nel 1484 non fu assegnata dal pontefice Sisto IV a Lucrezia Pico della Mirandola (1458-1511) [2], sorella del celebre umanista e filosofo Giovanni, rimasta vedova di Pino III Ordelaffi e nuovamente sposata con Gherardo Felice Appiano d’Aragona. La nobildonna, benefattrice dell’abbazia di san Benedetto in Polirone, lasciò il suo ricordo nella parte più antica del castello, ingentilendo la sala delle armi con un fregio a festoni vegetali e semplici motivi araldici: in quello centrale con la data 1500 e il motto GELV si riconosce chiaramente lo stemma delle famiglie Pico della Mirandola e Appiano d’Aragona (figg. 2 – 3).
Dopo qualche anno dalla morte di Lucrezia, nel 1514, la rocca venne acquisita dai Farnese del ramo di Latera, i quali ne iniziarono la conversione in una moderna residenza nobiliare. Alla fine del secolo, il 14 giugno 1597, Mario Farnese, forse per ripianare i suoi debiti, la vendette insieme ai territori circostanti, costituenti il feudo di Giove, per 65.000 scudi ai ricchissimi patrizi romani Ciriaco e Asdrubale Mattei. I nuovi proprietari tra 1598 e 1601, con l’ausilio del fratello, il cardinale Girolamo Mattei, assegnarono all’architetto orvietano Ippolito Scalza il compito di restaurarla e creare nuovi appartamenti, tenendo conto dei progetti di Giacomo Della Porta. Nel corso del Seicento la famiglia Mattei ne ingrandì la mole, trasformandola in un maestoso palazzo aristocratico. L’acquisto nel giro di pochi anni dei feudi sabini di Roccasinibalda, Belmonte e Castel San Pietro, che si aggiunsero a quello di Antuni, ereditato nel 1592 dallo zio Paolo Mattei, permise a Ciriaco e Asdrubale di raggiungere un nuovo prestigioso status sociale, ottenendo nell’agosto del 1605 dal papa Paolo V il titolo di marchesi, rispettivamente di Roccasinibalda e di Giove.[3]
L’origine e l’ammontare della ricchezza dei Mattei
La parabola familiare della Gens Mattheiana si inserisce pienamente nel processo di rifeudalizzazione che investe la società italiana a partire dalla fine del XVI e nel corso del XVII secolo. Con questo termine gli storici indicano un fenomeno per cui mercanti e banchieri indirizzano i loro interessi verso la terra, investendo il loro denaro nell’acquisto di proprietà fondiarie o di feudi per acquisire titoli nobiliari e prestigio sociale. Durante i secoli XIV e XV, i Mattei si occupavano prevalentemente di allevamento del bestiame e commercio agricolo, appartenendo a quel settore del patriziato romano costituito dai cosiddetti “bovattieri”, ossia una classe di imprenditori agricoli e allevatori che emerge nel corso del Trecento e che concentra le sue attività in aziende rurali – i casali – della campagna romana.
Numerosi membri della famiglia ricoprirono cariche di prestigio nell’ambito dell’amministrazione pontificia: oltre ad ottenere l’incarico della riscossione dei dazi, furono custodi dei ponti, caporioni e Conservatori di Roma. Proprietari e affittuari di grandi tenute, ma soprattutto allevatori di bovini e produttori di cereali, erano membri della corporazione dei bobacterii e esercitavano anche professioni mercantili o artigianali.[4] Originari di Trastevere, si trasferirono nella zona delle calcare nel rione S. Angelo a partire dal 1473. La progressiva acquisizione di tutto l’isolato, in seguito denominato Insula Matthei, costituì un importante segno di promozione sociale e derivò dalla necessità pratica di avvicinarsi ai nuovi centri della vita cittadina. Da quel momento iniziò un’ascesa rapida e consistente.
La prima metà del XVI secolo corrispose ad un periodo di grande floridezza economica per la casata che continuò ad accrescere le proprietà terriere e ad incrementare le sostanze.[5] L’importanza raggiunta dalla famiglia in quegli anni è testimoniata dai dati del censimento della popolazione, indetto a Roma sotto il pontefice Clemente VII, tra il novembre 1526 e l’inizio del 1527: nel numero complessivo di “bocche da sfamare”, i Mattei con 390 unità registrate risultano secondi solo alla corte pontificia (700), precedendo tutte le altre famiglie romane e persino le corti cardinalizie.[6] Neanche la terribile esperienza del sacco del 1527 arrestò le loro fortune, anzi riuscirono a incrementare ancora le loro sostanze grazie alla rivalutazione dei beni acquisiti a poco prezzo durante il periodo di crisi.
E’ proprio con il ricchissimo Ciriaco senior, “lo ingordo et insatiabile di officii”[7], che i Mattei, pur non abbandonando né le terre né i “negoti”, iniziarono a trasformarsi in gentiluomini e rentier. [8] A partire da questo momento e per tutta la seconda metà del Cinquecento i proventi dei Mattei derivanti dalle tenute e dall’allevamento del bestiame vennero reinvestiti e accresciuti ulteriormente tramite l’acquisto di uffici vacabili, censi, compagnie d’ufficio o titoli del debito pubblico. Gli eredi degli intraprendenti uomini d’affari si tramutarono in terrieri e curiali, accumulando incarichi nelle magistrature capitoline e nella curia. Al raggiungimento del nuovo status corrispose la realizzazione di una dimora fastosa, rappresentativa dell’accumulazione patrimoniale della famiglia. Tra 1545 e 1551 Alessandro Mattei costruì l’attuale Palazzo Mattei Caetani su Via delle Botteghe Oscure, dove visse con i figli Girolamo, Ciriaco e Asdrubale. Il percorso d’accesso all’alta aristocrazia cittadina si concluse negli ultimi decenni del secolo con l’acquisto, tra 1592 e 1600, dei feudi di Antona, Giove, Castel S. Pietro, Rocca Sinibalda e Belmonte -immortalati nel 1601 dai grandi quadri del fiammingo Paul Brill-, con l’istituzione della Primogenitura il 17 agosto 1600, per tramandare intatta la coesione del patrimonio e infine con l’acquisizione del titolo nobiliare di marchesi nel 1605. Questo processo venne facilitato da un lato dalle alleanze matrimoniali con le più antiche casate italiane (Paolo Mattei, zio di Ciriaco, sposò Tuzia Colonna, Asdrubale Mattei si unì in seconde nozze a Costanza Gonzaga di Novellara, imparentata con gli Asburgo), dall’altro dalla scalata alla Curia pontificia.
Girolamo Mattei, dopo gli uffici di abbreviatore e di protonotaro, acquisì per 60.000 scudi la carica di Auditore della Camera e progredì nella carriera ecclesiastica fino ad essere nominato cardinale nel 1586 dal papa Sisto V.[9] L’ultimo decennio del Cinquecento e i primi del Seicento furono fondamentali per il consolidamento del prestigio familiare; tra i nuovi segni della ricchezza e del rango sociale raggiunto vi erano le carrozze, indice di disponibilità economica: i Mattei di Giove nel 1594 possedevano in tutto cinque cocchi, dei quali due erano di esclusiva proprietà del cardinale Girolamo Mattei.[10] Un’altra prova di agiatezza erano le lussuose argenterie, utili per ricevere e banchettare, ma anche per ostentare la propria magnificenza, per fare doni, oppure per impegnarle al Monte della Pietà nei periodi di crisi di liquidità. [11]
Soprattutto i Mattei di Giove destinarono migliaia di scudi agli investimenti artistici: approntarono residenze e ville prestigiose e si rivolsero ad artisti dalla fama ormai consolidata, come Cristoforo Roncalli e Paul Bril o di recente affermazione, come Caravaggio, oppure ad altri appena emergenti come Bartolomeo Cavarozzi e Pietro da Cortona, per decorare le loro dimore ed incrementare le quadrerie che affiancarono alle già ricche collezioni di statue e marmi antichi di famiglia, adeguandole alle necessità di rappresentanza della nuova condizione sociale. Pur continuando a vendere e acquistare capi di bestiame per i loro casali [12] e ad aggiornare accuratamente libri mastri e giornali di cassa, avevano una cultura umanistica, come dimostrano gli inventari delle loro biblioteche, e fame d’arte. Furono loro i protagonisti di un modello sociale seicentesco (palazzo, villa, collezione d’arte, argenti, carrozze, cavalli, biblioteca) che avevano contribuito a creare e che riuscirono a sostenere grazie ai cospicui introiti derivanti dai loro investimenti.
Esaminando il libro dei conti di Ciriaco, nel quale sono annotate di suo pugno le registrazioni contabili, emerge che le entrate provenienti dagli investimenti finanziari (crediti, censi, compagnie d’ufficio, titoli) nell’arco di un quinquennio (1598-1603) ascendono ad una media di circa 16.700 scudi l’anno,[13] a cui sono da aggiungere i circa 20.000 scudi l’anno derivanti dalle rendite fondiarie ricordate dal contemporaneo Giovan Pietro Caffarelli nel 1609.[14] Si tratta di introiti piuttosto consistenti se confrontati con i proventi dei più ricchi baroni del periodo, che in genere non arrivavano ai 30.000 scudi l’anno,[15] oppure con quelli dei grandi uomini d’affari e banchieri che si aggiravano intorno ai 40.000-50.000 scudi.[16] Tutti questi dati vanno inoltre rapportati alla considerazione che, all’inizio del XVIII secolo, chi possedeva un patrimonio tra i 500 e i 1000 scudi si riteneva “né povero né ricco” e che, ad esempio, nel 1613 per pagare la pigione di una casa povera erano sufficienti 15 scudi l’anno. [17]
I quadri dei feudi Mattei di Paul Bril: nuove identificazioni e una seconda veduta di Rocca Sinibalda
Nel marzo del 1601, completata l’ascesa sociale con l’acquisto dei feudi in Sabina e in Umbria, Asdrubale ne ordina la raffigurazione al pittore fiammingo Paul Bril (1554 1626), per il prezzo complessivo di 150 scudi. L’artista aveva già concluso, su commissione del cardinale Girolamo Mattei, l’impegnativa impresa di affrescare il salone principale del palazzo Mattei (oggi Caetani) alle Botteghe Oscure con paesaggi e figure allegoriche delle principali virtù cristiane (figg. 4-5).
I grandi dipinti dei Feudi, destinati ad essere collocati, con evidente valore celebrativo, “sopra i vani delle porte” nel nuovo palazzo che Asdrubale Mattei aveva costruito di fronte alla chiesa di santa Caterina dei Funari, originariamente erano stati previsti nel numero di cinque per rappresentare le vedute dei castelli di “Antona, Giove, Castel S. Pietro, Roccha Sinibalda, Belmonte con tutti soi territorij”.
Saldate il 20 febbraio del 1602, le ampie tele ad olio (palmi sette e nove ¾), secondo le prescrizioni del committente, dovevano essere “depinti del naturale”, pertanto Asdrubale aveva convenuto col pittore
“andar lui in persona andar a veder le vedute, e pigliarne il disegno, et io sia tenuto darli cavallo, e farli spese per la gita, e ritorno”.
Il ritratto dei luoghi, preso dal vero, era arricchito nello studio da gradevoli scene di repertorio e il pittore si obbligava “adornarli d’animali, et in somma farli bellissimi”.[18]
I Feudi Mattei rappresentano il passaggio di Bril dai dipinti di piccolo formato, in genere in rame, ai grandi quadri da cavalletto in cui si riflette la sua esperienza di frescante. Il pittore sceglie per tutte le tele un punto di vista fortemente ribassato, non solo perché valuta la destinazione dei dipinti, da porre in alto sopra le porte dei saloni, ma per offrire una veduta d’insieme, topografica e precisa del luogo, inquadrando sia le rocche che i borghi intorno e l’ampio paesaggio naturale, reso attraverso la prospettiva aerea, così da mostrare una panoramica generale dei feudi in possesso della famiglia. Una simile celebrazione dei possedimenti della casata aveva un precedente illustre nella decorazione ad affresco tardo cinquecentesca della sala delle Guardie del palazzo Farnese di Caprarola. L’esecuzione dei dipinti – di cui già il biografo Karel van Mander, nella biografia pubblicata nel 1604, ne ricorda sei – deve aver soddisfatto il committente, il quale, probabilmente in corso d’opera, chiese a Paul Bril di completare la serie aggiungendo due vedute di Rocca Sinibalda e di Giove prese da un’altra angolazione. L’inventario di Asdrubale Mattei del 1604 infatti elenca “sette quadri grandi con cornice di noce dipintovi li castelli, mano di Paolo Brillo”, seguito dagli inventari successivi che ricordano la serie a palazzo Mattei fino alla metà dell’Ottocento.[19]
La scelta di duplicare proprio le vedute dei feudi di Giove e Rocca Sinibalda è certamente legata alla previsione di ottenere per questi due possessi il marchesato, che verrà effettivamente concesso a Ciriaco ed Asdrubale nell’agosto del 1605 dal pontefice Paolo V. L’intento celebrativo della serie sarà amplificato venti anni dopo nella galleria del Palazzo Mattei a Santa Caterina de’ Funari. Costruito entro il 1621, l’ambiente, il più rappresentativo dell’edificio, è affrescato sulla volta da Pietro da Cortona con le Storie di Salomone, inserite tra festoni di fiori e frutta opera di Pietro Paolo Bonzi.
Nel 1622 Asdrubale incaricò il Bonzi di realizzare la decorazione, specificando che nelle otto lunette alla base della volta doveva affrescare i cinque feudi Mattei, inserendovi
“tutti li Castelli di detto Sig. Marchese fatti di naturale che sono sei, compreso uno di detti Castelli che si ha da mettere duplicato in diversa prospettiva”
e nelle altre due lunette doveva raffigurare il possedimento di Maccarese, con la torre sul mare, e la villa con giardino sul Palatino, ereditata dallo zio Paolo Mattei. [20] Anche per questi ritratti dei feudi, come per i dipinti di Bril, era previsto che il pittore andasse personalmente sui
“luoghi per farli del Naturale, et esso sig. Marchese sia tenuto provederli di cavallo spesarlo per tutto”;
tuttavia il Bonzi si limitò a riprendere fedelmente le tele del fiammingo, riproducendone anche le figurine dei primi piani, intente in occupazioni quotidiane. Proprio per questa caratteristica, le raffigurazioni del Bonzi costituiscono un prezioso aiuto per l’identificazione precisa dei paesaggi con feudi realizzati da Bril nel 1601.
Quattro dipinti della originaria serie del fiammingo sono oggi conservati alla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, mentre altri due negli anni ’90 del Novecento erano ancora di proprietà degli eredi Antici-Mattei.[21] Delle quattro tele di Palazzo Barberini, acquistate nel 1939, due sono state fin dall’acquisizione concordemente individuate dagli studiosi come le vedute del feudo di Giove in Umbria (inv. n. 1980, vedi fig. 1) e di Rocca Sinibalda in Sabina (inv. n. 1981, fig. 6), mentre le altre nel corso degli anni sono state variamente identificate con Belmonte o Castel San Pietro.
La rappresentazione del feudo di Antona (oggi Antuni), -il primo acquistato dai Brancaleoni nel 1583 da Paolo Mattei e da questi abbellito “d’una bellissima fabrica”-[22] si credeva perduta. Solo in tempi più recenti è stata riconosciuta nel paesaggio fluviale animato da due pastori in primo piano, (Palazzo Barberini, inv. n. 1982, fig. 7) -tradizionalmente considerato Castel San Pietro- la veduta della gola del Turano con la rappresentazione del fiume, popolato da animali, viandanti e pescatori, sul quale incombe l’altura dominata dal castello di Antuni, mentre a sinistra sullo sfondo in cima ad un altro monte svetta il piccolo borgo di Castel di Tora. [23]
Oggi il panorama è profondamente mutato a causa della realizzazione nel 1939 della diga che ha creato artificialmente il lago del Turano e del bombardamento del 1944 che ha parzialmente distrutto la chiesa e il palazzo-fortezza di Antuni. Tuttavia il fascino dei luoghi è rimasto inalterato e proprio la precisione del dipinto di Paul Bril ha ispirato l’imponente opera di ricostruzione dei ruderi del palazzo Mattei e del borgo intorno, portata a compimento grazie a finanziamenti europei, tra 1996 e 2004 [24] (fig. 8).
La veduta di Antuni si ritrova praticamente identica, anche con le stesse figurine di pastori e il gregge di pecore e capre, nella lunetta affrescata dal Bonzi nella galleria del palazzo di Asdrubale Mattei nel rione Sant’Angelo a Roma (fig. 9).
Il quarto quadro conservato a palazzo Barberini (inv. n. 1983, fig. 10), solitamente identificato con Belmonte, è invece, a mio parere, una seconda veduta della Rocca Sinibalda, ripresa da est, ossia dalla parte opposta rispetto all’altro dipinto, il n. 1981.
Il confronto con le fotografie attuali non lascia adito a dubbi (fig. 11): la vegetazione è diversa, ma la mole dell’imponente castello medievale, radicalmente modificato negli anni ‘30 del Cinquecento da Baldassarre Peruzzi per i Cesarini, acquistato nel 1600 dai Mattei, è inconfondibile.
Sostanzialmente immutata è la sagoma della fortezza che si sviluppa longitudinalmente su un alto sperone roccioso, ben difeso da scoscesi dirupi: si riconoscono le fiancate a scarpata e il torrione posteriore con pianta a coda di rondine. La parte anteriore è oggi ornata dal giardino pensile alberato dai cipressi, ma l’ala sinistra sporgente, caratterizzata da tre finestre quadrate, è rimasta inalterata, così come la parte centrale dell’edificio, ingentilita da due registri sovrapposti di 13 finestre.
Lungo le mura del borgo ancora sorge l’antica chiesetta dei SS. Agapito e Giustino, che Bril rappresenta fedelmente col campaniletto a vela, non molto distante dal castello, riportando con precisione la piccola porta ad arco che la fronteggia (figg. 12-13).
La veduta dal basso del fiammingo riprende anche la vallata solcata dal fiume Turano, scavalcato da un semplice ponte in legno: sulle rive del fiume le donne lavano i panni e i pescatori recuperano le reti, in primo piano al centro e sulla destra scene di caccia movimentano la serenità pittoresca del paesaggio. [25] Il dipinto doveva fare da pendant alla seconda rappresentazione del borgo e castello di Giove, ripreso da un altro punto di vista, per glorificare la famiglia tramite l’esaltazione dei feudi maggiori, da cui traevano origine i titoli nobiliari di Casa Mattei. Per rispettare il contratto del 1622, in cui era previsto “uno di detti Castelli che si ha da mettere duplicato in diversa prospettiva”, il Bonzi riprodusse fedelmente questa tela con Rocca Sinibalda in una lunetta della Galleria di Palazzo Mattei (fig. 14).
Dopo aver assegnato la corretta identificazione ai quattro feudi di Palazzo Barberini (Giove, Rocca Sinibalda vista da Ovest, Rocca Sinibalda vista da Est, Antuni), la decorazione delle lunette del Bonzi costituisce un prezioso ausilio per cercare di ricostruire l’aspetto degli altri due quadri di Bril che completavano la serie dei Feudi Mattei. Se escludiamo le vedute nelle lunette sui lati brevi della galleria, che rappresentano una la terra di Maccarese col Castello di San Giorgio – di proprietà dei Mattei fin dal 1469- con poco distante, la torre di guardia sul mare (fig. 15),
e l’altra di fronte il giardino della villa sul Palatino (fig. 16),
ricevuta in eredità dallo zio Paolo Mattei nel 1592, restaurata ed abbellita da Asdrubale a partire dal 1596, tutte le altre raffigurazioni riproducono vedute dei feudi.
Tra questi oltre al feudo di Giove e a quello di Rocca Sinibalda visto da ovest (figg. 17-18),
è possibile riconoscere Castel San Pietro nella lunetta con un paesaggio abbellito da una chiesetta col campanile in primo piano a destra, una fontana abbeveratoio per gli animali al centro e il castello cinto dal borgo sullo sfondo (fig. 19).
L’identificazione è attestata dal confronto col paesaggio settecentesco raffigurante proprio la veduta di Castel San Pietro su una parete del salone delle feste (fig. 20), all’interno dell’antico maniero che fu dei Mattei, attualmente castello Bonaccorsi.
L’affresco riporta sulla destra la stessa chiesetta e, come nella lunetta del cortonese, riproduce il castello nobiliare fiancheggiato a sinistra da un gruppo di edifici più bassi, che precedono la medievale Porta Romana (fig. 21), ricavata in una torre trecentesca, ancora oggi caratteristico punto di accesso all’antico borgo di Castel San Pietro.
Per esclusione l’ultima lunetta della Galleria Mattei non ancora analizzata deve rappresentare la veduta di Belmonte Sabino (fig. 22), il quinto feudo posseduto dalla famiglia di cui Asdrubale Mattei aveva commissionato la rappresentazione sia a Paul Bril che a Pietro Paolo Bonzi.
La lunetta riproduce senza variazioni una tela di Paul Brill, delle stesse dimensioni degli altri feudi, resa nota da Francesca Cappelletti nel 2006 col titolo di Rocca Sinibalda (fig. 23).[26]
Identiche sono anche le figurine in primo piano: la donna che fila, i pastori e i cacciatori, mentre in cima ad una collina, circondato da mura caratterizzate da un bastione circolare, da cui si scorge un campanile a vela, si arrocca un piccolo borgo, costituito da case costruite intorno ad un palazzo con torre. Si tratta probabilmente dell’antico fortilizio dei Brancaleoni, venduto nel 1478 ai Cesarini, da questi trasformato in palazzo baronale, e ceduto ai Mattei nell’anno 1600.
Tuttavia oggi appare difficile trovare riscontri visivi a questa supposizione, dal momento che il paese, ingranditosi nel corso del ‘700, fu devastato dal terremoto di Avezzano del 1915: la chiesa del Santissimo Salvatore, originariamente all’interno del castello, che aveva subito gravi lesioni, fu ricostruita. La struttura dell’antica residenza nobiliare, un tempo adiacente alla chiesa, come si osserva in una fotografia della fine del XIX secolo (fig. 24), oggi non è più riconoscibile nel piccolo tessuto urbano di Belmonte.
Più facile individuare, lungo la via principale del paese, la semplice architettura della chiesa della Madonnella, dipinta dal Bonzi subito fuori dal borgo, sulla sinistra di una strada sterrata.
Il feudo di Bril e il castello di Giove.
La veduta “dal naturale” del feudo di Giove conservata a palazzo Barberini (fig. 1),
presentando un’inquadratura da un punto di vista molto ribassato, ci offre una riproduzione complessiva del borgo entro le mura -fino all’antica chiesetta medievale di san Giovanni Battista- e dell’ampio paesaggio circostante, ma soprattutto un’immagine fedele dell’aspetto del castello Mattei nell’anno 1601. Bril raffigura la parte posteriore dell’edificio, rivolta verso la zona più antica del borgo, ancora oggi circondata dalle antiche mura, caratterizzate da piccole torri cilindriche (fig. 1 A).
Una porta ad arco in travertino, immediatamente sottostante la fortezza, ben visibile nel dipinto, ne costituisce ancora oggi l’accesso. Sullo sfondo a destra si snodano le anse del Tevere. Dal dipinto si comprende che tutto il settore adiacente alla torre merlata, su cui svetta il vessillo con lo stemma Mattei, è stato modificato posteriormente al 1601. Così l’elegante loggia ad arcate che attualmente segna su due lati il perimetro dell’ampia terrazza affacciata sul panorama della valle tiberina e tutta l’ala del palazzo prospiciente la Via Armando Diaz, con i due torrioni merlati (fig. 1 B), risalgono ad un periodo successivo rispetto alla tela del pittore fiammingo.
Anche la torre centrale rappresentata da Bril risulta oggi inglobata in strutture posteriori, più elevate rispetto alle architetture precedenti.
Al momento dell’acquisto da parte dei fratelli Mattei, nel giugno 1597, l’antica roccaforte era già stata trasformata dai Farnese del ramo di Latera in un palazzo nobiliare. Nel gennaio 1514 Galeazzo Farnese, figlio di Pier Bertoldo, signore di Farnese, aveva acquistato il castello con il piccolo feudo di Giove dai monaci benedettini di Mantova. L’acquisto era stato determinato dall’importanza strategica per il controllo della viabilità lungo la valle del Tevere. Nel castello Galeazzo visse con i figli e con la sorella Contarina Farnese -rimasta vedova e senza figli nel 1519, dopo la morte del marito Rinaldo Ariosto, cugino del poeta Ludovico Ariosto [27] – il cui nome ancora è inciso a lettere capitali romane sull’architrave in travertino di una porta. Risalgono probabilmente agli anni ’40 del Cinquecento i lavori di trasformazione e abbellimento della residenza che l’11 gennaio 1544 ospitò la cerimonia dello sposalizio tra la figlia di Galeazzo, Giulia Farnese, e Vicino Orsini di Bomarzo, il cui compromesso matrimoniale era stato già stipulato a Farnese nel dicembre 1543 dal procuratore di Vicino Orsini con Isabella Anguillara, Pier Bertoldo e Contarina Farnese, rispettivamente madre, fratello e zia paterna della sposa.[28]
Subito dopo l’acquisto del castello da parte dei Mattei, l’edificio, la cui proprietà rimase indivisa tra i tre fratelli, fu interessato da numerosi lavori di restauro condotti dall’architetto e scultore orvietano Ippolito Scalza. Già qualche giorno dopo l’acquisto del feudo, nell’estate del 1597 il figlio di Ciriaco, Giovanni Battista, si stabilisce a Giove, probabilmente per seguire la ristrutturazione del castello.[29] È plausibile che ognuno dei tre proprietari facesse realizzare un appartamento nella rocca: da febbraio a novembre del 1598 il cardinale Girolamo intrattiene una corrispondenza epistolare con l’architetto Ippolito Scalza dalla quale si apprende che Asdrubale aveva già fatto restaurare alcune stanze,[30] mentre lui desidera intraprendere la realizzazione di un appartamento nuovo “a man sinistra quando si entra nella rocca, dove erano le stalle e i granari”, per il quale aveva già ricevuto disegni da Giacomo della Porta che erano stati emendati dall’ architetto orvietano.[31]
Gli interventi, pur ammontando a circa duemila scudi,[32] furono comunque limitati e si rinunciò, forse per ridurre i costi, ad una ristrutturazione completa. Il cardinale intendeva -ad esempio- far eseguire due torrioni “per fortezza della Rocca”, che in quegli anni non furono però realizzati, come si osserva dal dipinto di Bril. Una prima fase dei lavori dovette essere terminata entro il 1599, quando parte del castello fu affittato da Ciriaco Mattei.[33] Tra i primi pagamenti effettuati da Asdrubale nel 1598 a falegname e muratore, si inseriscono anche piccoli compensi per opere pittoriche probabilmente di modesta entità e acquisto di colori ad un certo “Marc’Antonio pittore”, il quale riceve 10 scudi nel settembre 1598 “per dipignere la sala e altre cose per le sue fatighe”.[34]
Gli affreschi con le Storie di Giove e la Cavalcata del possesso pontificio
Una seconda fase di lavori di carattere decorativo fu promossa da Asdrubale dopo aver ottenuto nell’agosto del 1605 dal papa Paolo V il titolo di marchese di Giove. I cicli di affreschi che ancora oggi ornano i soffitti e la parte superiore delle pareti di due ambienti del piano nobile – recentemente restaurati – vennero probabilmente commissionati proprio per celebrare l’acquisizione del marchesato.
La decorazione, resa nota per la prima volta nel 1995 da A. Marabottini,[35] ma ancora poco analizzata dagli studiosi, è stata genericamente datata al periodo del pontificato di Urbano VIII Barberini.[36] Tuttavia gli affreschi presentano particolari iconografici che ne suggeriscono l’appartenenza a un momento precedente, collocabile tra fine 1605-1621, forse nel secondo decennio del Seicento. Nelle due sale il pittore – un ancora anonimo frescante di scuola carraccesca, vicino all’Albani e al Domenichino – segue il medesimo schema compositivo: nel soffitto vi sono storie mitologiche inserite entro partizioni decorative a finto stucco, sulla parte alta delle pareti corre un fregio continuo con la rappresentazione di un corteo pontificio. Purtroppo le pitture presentano lacune, anche estese, sia sulle volte che sui fregi. Nella prima sala il soffitto illustra le Storie di Giove (ancora sono riconoscibili: Giove, Metis e Crono che vomita i suoi figli; la Nascita di Minerva, Giove e Minerva figg. 26-27-28), culminanti al centro con l’Apoteosi del dio (fig. 29).
In basso il fregio con il corteo, da Marabottini e Santicchia ritenuto una cerimonia in onore di Urbano VIII Barberini, raffigura invece la Presa di Possesso di papa Paolo V Borghese, che si svolse a Roma il 6 novembre 1605 (fig. 30-31).
Il confronto con la stampa a bulino di Giovanni Orlandi (fig. 32), è determinante:
l’incisore riporta accuratamente, corredandoli di didascalie, tutti i partecipanti alla cavalcata, che si snoda secondo una disposizione gerarchica ben precisa imposta dal cerimoniale di corte, rappresentando in nove file orizzontali le persone a piedi e a cavallo, descrivendone minuziosamente i costumi e gli attributi.
L’anonimo frescante – forse lo stesso Giovanni Senese attivo per i Mattei tra 1610 e 1631 come suggerito da Marabottini – ha ripreso fedelmente i gruppi principali del corteo e la figura del pontefice di profilo che avanza lentamente a cavallo di un destriero bianco, la cosiddetta Chinea (figg. 33-34).
Il vicario di Cristo è senza dubbio identificabile con Paolo V, fu infatti proprio il Borghese l’unico tra i papi seicenteschi a celebrare il possesso a cavallo, tutti gli altri invece -compreso Urbano VIII– procedettero trasportati in lettiga dalla basilica di San Pietro fino alla chiesa di San Giovanni in Laterano.[37] Alla solenne cerimonia, secondo quanto testimoniano i cronisti del tempo, parteciparono i membri della famiglia Mattei: Asdrubale, Ciriaco e il figlio primogenito di quest’ultimo, Giovan Battista. Cavalcando tra “baroni e signori titulati”, i nuovi marchesi lussuosamente abbigliati celebrarono riconoscenti l’esaltazione del potere del nuovo pontefice.[38]
Anche il programma iconografico degli affreschi della volta intende glorificare la gens mattheiana e il nuovo status nobiliare finalmente raggiunto. Le storie della volta onorano Giove, e il rimando al nome del feudo umbro è immediato, ma nello stesso tempo esaltano l’aquila, simbolo del dio e, fin dalla metà del Cinquecento, emblema araldico della famiglia Mattei.[39]
Negli scomparti angolari alcuni putti – così come si vede negli affreschi di Bril del salone del palazzo Mattei- Caetani alle Botteghe Oscure – giocano con l’aquila ponendole sul capo la corona marchionale, (riconoscibile perché caratterizzata da quattro fioroni d’oro alternati ad altri minori), che si ritrova anche tra i finti stucchi del soffitto della sala adiacente. Il riferimento al titolo conseguito è ancora più esplicito nel riquadro centrale, purtroppo lacunoso, raffigurante l’Apoteosi: Giove è tra le nuvole sollevato dall’aquila, atteso dagli dei dell’Olimpo, in alto un putto alato tende verso il suo capo la corona di marchese, mentre con uno scettro gli ha già sfilato una semplice corona a punte, simbolo del patriziato romano (vedi fig. 29).
Nella seconda sala, il fregio molto rovinato prosegue la narrazione del Possesso di Paolo V e la volta presenta al centro un riquadro con Giove che insegue la ninfa Io (fig. 35), circondato da quattro episodi del mito (tra i quali si riconoscono soltanto Giunone chiede a Giove la giovenca Io, Mercurio addormenta Argo, Mercurio con la testa di Argo, figg. 36-37-38), inseriti entro cornici mistilinee in finto stucco.
Motivi fitomorfi, aquile, mascheroni e racemi monocromi da cui fuoriescono putti che sorreggono corone marchionali riempiono il fondo dorato (fig. 39), mentre agli angoli erano affrescati quattro stemmi che, se non fossero stati cancellati dal tempo e dalle passate incurie, avrebbero permesso di datare più esattamente la decorazione, a mio parere rapportabile alla fine del primo decennio del Seicento o all’inizio del secondo- nello stesso momento in cui Asdrubale e la moglie si dedicavano alla costruzione della chiesa e del convento di Santa Maria del Bambino Gesù [40]– così come il fregio che, pur con gravi mutilazioni, prosegue e conclude il corteo della sala precedente.
La trasformazione del castello ad opera del Duca Girolamo Mattei I
La completa trasformazione della rocca, con la costruzione della loggia ad arcate sulla terrazza affacciata verso la vallata e l’erezione delle due poderose torri angolari già immaginate dal cardinale Girolamo Mattei, è dunque da collocarsi in un periodo successivo rispetto alla tela di Bril e alla signoria dei fratelli Girolamo, Ciriaco e Asdrubale Mattei. Per stabilirne la cronologia e l’autore ci soccorrono alcune fonti storiche. Nella Cronologia della provincia serafica, edita nel 1714, padre Antonio d’Orvieto descrive il palazzo, non ancora del tutto completato:
“smisurato nella grandezza è quasi tutto coperto nelle sue ample facciate a pietre conce di travertino, con una fastosa Ringhiera, che mostra d’ esser sostenuta da una grand’ Aquila; non si vede in oggi perfettamente compiuto che dalla parte della levata del Sole”,
specificando che
“gli Eccellentissimi Signori Duchi Mattei assoluti Padroni di Giove, e che ferono demolire la Fortezza, ed eriggervi il predetto rinomato Palazzo, vi hanno fino a quest’ ora impiegato il valsente di ricchissimi Patrimonj, come costa da’ libbri, ne’ quali fono registrate le spese di si gran fabbrica”.[41]
Gli importanti lavori di ristrutturazione da cui è dipesa la fisionomia attuale dell’edificio, erano stati intrapresi a partire dagli anni ’40 del Seicento, in seguito all’erezione a ducato del feudo di Giove, avvenuta nel 1643. Il neo-duca Girolamo Mattei, figlio di Asdrubale, aveva sentito la necessità di adeguare la dimora di Giove, da cui la sua famiglia traeva il titolo, al nuovo rango sociale. Un documento del 1654, relativo a lavori di ristrutturazione del castello Orsini di Bomarzo, ci informa che l’architetto Camillo Arcucci (1618-1667) era da qualche anno impegnato nel progetto di ampliamento della rocca di Giove per conto del duca Girolamo Mattei. Nell’ottobre del 1646 erano stati firmati i capitoli con i mastri muratori Bartolomeo Pozzi e Michele Maggi per i lavori da eseguirsi nel palazzo secondo i disegni dell’Arcucci.[42]
L’architetto, attivo tra 1639 e 1642 a Camerino, nello stesso periodo era subentrato a Francesco Peparelli, morto nel 1641, come architetto della famiglia Mattei, intraprendendo anche importanti lavori di espansione e ridefinizione del giardino di villa Mattei sul Celio a Roma. Alla sua morte, nel 1667, lasciò al Duca Mattei, in segno di gratitudine, un disegno di Andrea Sacchi e un dipinto del Guercino. [43] Dopo la scomparsa dell’Arcucci, il cantiere della Rocca di Giove probabilmente proseguì per tutto il Seicento tuttavia, come testimonia la cronaca di Antonio d’Orvieto, entro i primi anni del Settecento ne era stata completata solo la parte orientale, dominata dalla torre d’angolo, decorata dalla balconata sorretta dalla maestosa aquila araldica della famiglia Mattei (fig. 40).
Laura TESTA Roma 24 Settembre 2023
NOTE