di Lisa SCIORTINO
L’uso “devozionale” di lastre vitree si era sporadicamente registrato in area bizantina attraverso la produzione di piccole icone caratterizzate dal fondo a foglia oro ma dovettero trascorrere alcuni secoli perché la realizzazione di immagini religiose su vetro si accompagnasse a una diffusione capillare e massificata.
L’impiego più prossimo alla pittura sotto vetro è certamente l’arte della vetrata e della decorazione a freddo di superfici vitree, nata in tutta Europa verso la fine del XIV secolo. Già nel Cinquecento i temi di tale pittura comprendevano episodi evangelici e soggetti profani o allegorici. Questa tipologia di vetri era utilizzata per lo più nella decorazione di stipi destinati alle classi più nobili e la loro produzione poteva essere facilmente riconducibile ad artisti di larga fama come Guido Reni o Luca Giordano. Solo a partire dalla fine del Seicento e in via definitiva nel corso del secolo successivo si registra nella produzione pittorica su vetro una dominanza di soggetti religiosi. I santi sostituirono le scene di danza profane.
Il diffondersi della pittura su vetro si deve soprattutto alla divulgazione della stampa artistica orientata verso la riproduzione di immagini destinate al culto. Versioni meno stereotipate delle incisioni, le pitture sotto vetro ne condividevano le iconografie e le modalità di esecuzione, se non altro per il fatto che i modelli da dipingere erano tratti dalle stampe e che queste implicavano un simile procedimento di riproduzione, speculare rispetto all’immagine che si voleva ottenere[1].
Sino al XVII secolo l’esperienza specializzata richiesta per la lavorazione del vetro ne aveva determinato una diffusione circoscritta e limitata e la natura fragile della materia ne aveva condizionato l’utilizzo per la realizzazione di opere di piccole dimensioni volte alla devozione privata. Maggiore diffusione avevano avuto, invece, le pitture a carattere sacro e di piccole dimensioni realizzate su diversi materiali di supporto[2].
L’arte popolare non è mai quello che la cultura borghese ha codificato nell’Ottocento ma è un complesso di tecniche nate dal desiderio di abbellire, è una lingua che deve essere capita e facilmente codificata, è collettiva e funzionale. Ma pensare che essa sia semplice e ingenua significa separarla dalle condizioni sociali in cui prende forma e trascurare la complessa storia culturale che in essa si riflette[3].
L’arte popolare è strettamente dipendente, nei temi e nelle soluzioni formali, dai modelli culti ed elitari che però non manca di rielaborare e trasformare in funzione del gusto e delle esigenze dei fruitori del volgo. Questo fenomeno non può essere schematicamente riassunto giacché risulterebbe riduttivo e poiché sono diverse le variabili che agiscono nello sviluppo di questo complesso processo. Se, dunque, l’arte popolare non è copia sbiadita di quella culta la sua storia non può essere semplicisticamente letta in contrappunto all’arte cosiddetta egemone ma ha il diritto di essere studiata per se stessa, per la sua propria natura, per il suo valore e per la sua vasta e variegata produzione. Al di là delle differenze materiche e di fruizione finale, è innegabile che pitture su vetro, stampe devozionali, tavolette ex voto, cartelloni dei pupari e pittura su carro mostrano un filo iconografico omogeneo che li lega. Si può e si deve aggiungere che le iconografie di pincisanti, stampasanti, pittori di cartelloni, di edicolette votive, di ex voto, sono più simili tra di loro rispetto ai modelli “aulici”[4].
La pittura sotto vetro creava l’illusione di arredare la casa con dipinti simili a quelli dell’aristocrazia e consentiva di non rinunciare alle tematiche religiose con funzione devozionale. In Sicilia l’affermarsi di tale arte avviene agli inizi dell’Ottocento quando, accanto a vetri di importazione veneziana o di area napoletana, prese corpo una produzione autoctona con caratteristiche proprie che entrò nelle case delle classi meno agiate, in un periodo in cui il riformismo borbonico consentì lo sviluppo della piccola borghesia agraria e la nuova politica doganale penalizzò le importazioni stimolando la nascita di attività artigianali tese a soddisfare nuove esigenze.
Lenta nell’esecuzione, laboriosa e difficile all’approccio dilettantistico, l’arte dei pincisanti è speculare rispetto all’originale da copiare, la pittura è graduale dall’esterno verso l’interno, dal recto al verso, nell’impossibilità di correggere quanto realizzato. L’esecutore, quindi, deve essere molto esperto in quanto il procedimento è esattamente inverso rispetto a quello che guida l’artigiano nell’esecuzione pittorica su supporti d’altra natura. Quest’arte consiste nell’applicare a freddo su una lastra di vetro colori in polvere mescolati con olio di lino cotto, nella proporzione di tre parti di colore e una di olio. Essendo la stesura delle cromie cronologicamente invertita nelle sue fasi, essa doveva necessariamente prevedere un’immediata resa di ciò che nei dipinti viene realizzato dopo (occhi, naso, bocca, chiaroscuri, particolari della figura) e che viceversa diviene oggetto di prima stesura per non essere sommerso e cancellato dagli strati successivi (incarnati e sfondi).
Delineata con un pennello sottile l’immagine da realizzare, tratta da un modello come una velina o una stampa, e realizzati i contorni, si passa ai dettagli e alle sfumature. Il disegno e la cromia sono prestabiliti e progettati in anticipo; le tonalità sono quelle intense del rosso, del blu, del giallo, del verde che giocano con il bianco e le trasparenze. L’immobilità iconografica è una delle caratteristiche della pittura sotto vetro e il processo di essenzializzazione si compie attraverso la manipolazione degli emblemi del santo che lo identificano e rendono i suoi poteri efficaci. Alcuni attributi vengono tolti, altri aggiunti in accordo con il patrimonio di conoscenze di un’area. Non si tratta di una riduzione semplificatrice della cultura figurativa egemone ma dell’adeguamento di questa alla diversa concezione della vita del mondo subalterno.
Certamente i temi religiosi hanno rivestito un ruolo fondamentale nella cultura figurativa siciliana, sia perché rispondono al primordiale bisogno dell’uomo di garantirsi una difesa nei confronti delle avversità affidandosi al trascendente laddove la ragione non può arrivare, sia perché hanno sempre espresso le capacità della Chiesa di esercitare un controllo sulla fede di una massa in gran parte illetterata e influenzata da reminiscenze pagane e scaramanzia. Le immagini devozionali sono dunque testimonianza dell’esigenza individuale di realizzare un sistema protettivo nei confronti della precarietà esistenziale. L’uso dell’immagine sacra ha da sempre avuto lo scopo di riportare l’attenzione del fedele ad una presenza divina che spesso rischia di essere trascurata o dimenticata[5].
Nell’ambito della pittura su vetro in Sicilia va inserito l’inedito dipinto raffigurante San Giuseppe col Bambino (Fig. 1) esposto nella sala etnoantropologica del Museo Diocesano di Monreale e realizzato da artista siciliano del XIX secolo, donato per la fruizione pubblica da Mons. Giuseppe Governanti.
Secondo il modulo tipico della pittura su vetro con carattere devozionale, l’iconografia propone il busto del Santo vestito con la tunica dall’usuale colore giallo scuro con polsini e scollatura verde. Appoggiata alla spalla destra è la verga fiorita, attributo iconografico dello Sposo di Maria. Giuseppe accoglie tra le braccia Gesù Bambino, vestito di bianco, che reclina la testa sulla mano destra mentre la sinistra regge il piccolo cuore fiammato. Alle Loro spalle, un sipario incornicia la scena, conferendole solennità.
Il pincisanti, prediligendo una iconografia diffusa attraverso le stampe votive, ha esemplificato al massimo la scena concentrandosi sul rapporto del Santo con il Figlio, raffigurando Questi con atteggiamento di familiare confidenza. Tale soggetto è molto diffuso in Sicilia e gli artisti locali ne hanno fissato l’iconografia secondo un modello costante. Spesso la presenza di Maria modifica l’immagine trasformandola in Sacra Famiglia, ma i moduli disegnativi sono ripetuti in modo identico. Si vedano in proposito i vetri del Museo Etnografico “Giuseppe Pitrè”[6]. Il santo che si fa immagine da invocare, pregare e custodire è rappresentazione visibile di un mondo invisibile e con questa funzione protettiva è affissa alle pareti di casa, come capezzale o sopra la porta di ingresso.
Il dipinto del Diocesano è esposto accanto alla pregiata pittura su vetro con la Madonna col Bambino e San Bernardo da Corleone[7](Fig. 2) in cui il pittore siciliano di fine Settecento si ispira alla grande tela di Fra’ Felice da Sambuca (al secolo Gioacchino Viscosi) intitolata La Madonna col Bambino appare al Beato San Bernardo, dipinta nel 1768 e custodita presso la chiesa dei Cappuccini o della Concezione a Roma[8]. Il dipinto su vetro fu donato dal collezionista Salvatore Renda Pitti[9] e dunque proviene dal mercato antiquario.
L’opera presenta una stesura pittorica e una resa formale assai eleganti, una scelta iconografica precisa e ricercata, pennellate e cromie più sofisticate rispetto alla produzione quasi standardizzata del XIX secolo, indice di una committenza raffinata che rimane anonima.
Di collezione privata è l’inedita Madonna della Mela (Fig. 3) di bottega palermitana del XIX secolo. È uno dei soggetti particolarmente diffusi nella pittura su vetro in Sicilia ispirata all’incisione di Albrecht Dürer Vergine incoronata da due angeli o anche a opere fiamminghe come la Madonna della Mela di Hans Memling, in cui il pomo allude al frutto del peccato originale. La sezione superiore della stampa palermitana del XX secolo con La pia opera delle anime dei corpi decollati, in cui la Vergine è incoronata dagli angeli, mostra nel tempo l’identico modulo disegnativo ripetuto[10]. Un esemplare assai simile al vetro in esame si conserva al Museo Etnografico “Giuseppe Pitrè” di Palermo[11].
In altra collezione privata si conserva l’Adorazione dei Magi, mai pubblicata, di autore palermitano della fine del XIX secolo.
L’episodio, riferito dal Vangelo di Matteo, narra dei Magi giunti a Betlemme guidati dalla stella per rendere omaggio al Redentore cui offrirono doni preziosi. Nel racconto dell’evangelista non si fa cenno alla figura di Giuseppe al momento della nascita, che però è raffigurato. Generalmente, nella scena della visitazione l’anziano Gaspare è ripreso in ginocchio davanti al Bambino, mentre Baldassarre, scuro di carnagione, e Melchiorre, il più giovane, sono stanti dietro di lui. Nel vetro in esame la rappresentazione ricalca quella codificata nel tempo. L’episodio è ambientato in un luogo aperto senza alcun tipo di ricovero o riparo. La Madonna, in piedi e con san Giuseppe alle spalle che regge il bastone, mostra il Figlio ai Magi. La pittura è una versione più popolare del vetro dal medesimo soggetto della collezione Amoroso di Palermo[12].
Esaminando l’articolato insieme di immagini rintracciate, si nota come accanto alla produzione di immagini mariane, preponderante in alcuni centri, le pitture siano dedicate alla raffigurazione di santi (San Giuseppe, Sant’Anna, San Francesco di Paola, San Michele Arcangelo, Santa Rosalia, la Sacra Famiglia), per lo più svolgente una funzione magico-protettiva, devozionale, taumaturgico-terapeutica, ma anche alla narrazione di episodi connessi alla storia testamentaria (Annunciazione, Natività, Adorazione dei pastori o dei Magi, Fuga in Egitto) e all’agiografia (miracoli, scene di martirio o episodi della vita di un santo).
I dipinti su vetro siciliani costituiscono nel loro complesso un documento prezioso oltre che ai fini di una ricostruzione dello svolgimento di tale forma pittorica nell’isola anche per la conoscenza di uno dei tratti più significativi della cultura tradizionale, quello relativo alla religiosità e alle forme di devozione domestica caratterizzata da un rapporto privilegiato tra il protettore e il protetto: il santo a cui il devoto si rivolge è parte integrante del proprio orizzonte esistenziale ed exemplum da seguire.
Lisa SCIORTINO Monreale 28 Aprile 2024
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